A NOI DUE

dicembre 1906

Io, e tu che m'ascolti
o che mi leggi, non siamo
giovani come tu credi:
guardiamoci dentro le anime più che nei volti
e ci vedremo già vecchi di cento-
mila lunghissimi anni.
Vedremo i nostri piedi
coperti dalle ceneri di cento sepolcri, i capelli
nostri sconvolti dal vento
di tutti i più tragici affanni.
Sapremo che il morire
è un transito passeggero,
un rinnovellarsi perenne,
un mutare la vana
maschera: il noi veritiero
ritorna dissimile e uguale
nel mondo che già lo contenne.
Ricorderemo la strana
storia, che abbiamo vissuto
vigili, senza un minuto
di benefico riposo.
(O tu, forse, non la ricordi?)

Noi fummo tutti (e ancora rechiamo l'essenza
di tutti nell'animo ascoso):
da prima ciechi e sordi
a quanto più tardi ci si rivelò a poco a poco.
Io e tu fummo i primi villosi
emuli della belva;
uscimmo un dì dalla selva
oscura sul vasto pianoro
e l'aria e l'acqua e la terra ci offrirono il vergin tesoro
a cui ci mutammo.
Io o tu rapimmo il fuoco
al mitico dio.
Perpetuandoci, amammo:
ed ogni cosa pure mutava sui nostro cammino.
A volta a volta, tu e io
fummo l'eroe, l'assassino,
il ladro, il vile, il perverso
come il buono, il giusto come
l'ingiusto - tu ed io
fummo l'intelligente specchio dell'universo.
Ma il nostro antico nome
né tu né io ricordiamo.
Chi di noi due fu Abele e chi Caino?
Né io né tu ricordiamo;
ma sappiamo che pure c'incontrammo
su la medesima strada
ostili sempre, nemici
in ogni atto, in ogni pensiero,
e sempre, gai o tristi, gloriosi o vinti, infelici!

Per questo, io e tu che mi leggi
o che m'ascolti, non siamo
giovani. Tutto quanto
sappiamo o non ricordiamo
e in noi: sono tutte le leggi
inesorabili della lunga eredità di pianto,
di speranza e d'orgoglio che ci rimane.
L'anima nostra è come il volutabro
di quel che fu prima di noi, la nostra
carne è il vivo cimitero
dell'eternità in cui passiamo.
Ma sai tu chi saremo dimane?
Sai tu se nel cammino scabro
ci dissolveremo l'un tratto
in fatue fiammelle? Io non t'amo
e tu non m'ami ancora, dopo cento-.
mila lunghissimi: anni.
E siamo vecchi, ed insieme
abbiamo sofferto ogni stento
e più d'un'opera, pure odiandoci, insieme abbiam fatto!
Strano! neppure nel tacito patto
noi ci affratellammo ancora.
Forse per questo finora
tu non m'ài conosciuto, io non t'ò
conosciuto, ed abbiamo mentito
per l'egoismo comune,
senza che io ti svelassi tutta l'anima mia
vera che rassomiglia a la tua come un infinito
ad un altro infimo!
Ecco: qualunque sia
la tua parola, io mi dò
tutto a te, io ti narro la storia
mia ch'è l'istessa tua storia
- intera, per rigettar tutto quello
che ci pesa, perché - palesato ogni errore
comune - tu possa, con cuore
leggero dirmi, come io voglio dirti: "Fratello!"

NOTTE DI GUERRA

Roma, ottobre 1940

Nella fumida notte senza stelle
che soltanto punteggiano a mezz'aria
fantasmi violacei di lumi,
vo, fantasma invisibile a me stesso,
tra fantasmi di muri, su cui scivola
di tratto in tratto un livido riflesso
di veicoli trascorrenti, colmi
d'ombre. Altre ombre mi passano vicino,
quali buie ed appena palesate
da un batter d'aria, quali precedute
dal fuoco fatuo d'una lampadina.

Così nel buio annega ogni persona,
ogni forma, vanisce tanta vita;
e la luce trascorsa pare sia
spenta da tanto tempo e senza più
certezza di ritorno. Oh, ma non solo
altre forme di cose e di persone
vive son cancellate dalla nera
bruma sulla città cieca, e la mia,
ma pure il mio pensiero che, smarrito
nella tenebra, è intento solo all'ardua
ricerca della strada pel mio passo
incognito fra incogniti altri passi
e tutto quel che fu prima e potrà
esser dopo non gli è più che un ingombro
sgomento.

Pure, nel groviglio nero
della coscienza che i miei passi portano
pel buio, affiora il senso d'altre strade
celate, d'altre genti che si mascherano
d'oscurità, di cieli come questo
fumidi in cui passa, cercando preda,
l'uccello della morte. Altrove frullano
fra le stelle innocenti, ali che portano
strage; la strage piove da quelle ali,
raggiunge uomini a me simili, invano
mescolati col buio, senza ieri
né domani. Fra breve forse l'aria
sopra i passanti a me vicini, sopra
il dubbio avanzo di me stesso, udrà
il frullo di quelle ali, il rovinoso
rimbombo della strage...
Ecco, i miei passi
malsicuri ora portano anche il peso
d'una pena infinita per gl'ignoti
passanti e per me stesso e pel fratello
uomo nemico che dall'aria bruna
ci cerca con la sua macchina orrenda
e che ci ucciderà forse più tardi,
forse senza odio per le nostre carni
sconosciute e pei nostri sconosciuti
pensieri che son pure, in parte, suoi.
Io sono questa pena per noi tutti
resi ora privi del divino dono
dell'amore, della pietà e, più, della
volontà: noi fummo uomini ed ormai
altro non siamo che ombre, sommerse
nell'oscurità, in cerca della strada.

SUNAMITA

«Dio sia teco, donna di Sunam. Abisag, tua figlia, conviene
a David, re d'Israele, colui che vide e cantò Dio e i cieli.
Noi veniamo dalla parte di lui, per cercar nel suo regno
e più lontano, se occorra, un farmaco per il suo male.
Infermo è il grande re David, d'un'infermità uguale e fatale
per gli uomini tutti, ma che non si confà al suo alato
spirito, ancora aperto ai sogni e alle divine visioni.
David ora à bianchi i capelli, tremante la curva persona
che ieri s'ergea come palma, fredde le membra ed il cuore.
Né vino d'Engaddi, né fuoco di rovere v'à che lo scaldi:
si vuole ormai calore di vita, che passi da pubescenti
carni alle sue risecchite fibre, al suo lento sangue da linfe
rigogliose, alla sua virilità smorta da un seno sbocciante,
da un grembo appena rorido del primo fertile umore.
Si vuole, a svegliare i suoi estri, purezza di forme, che siano
musiche mute, caste e procaci, di quell'eterna e assoluta
bellezza che è della fanciulla e del giovinetto ad un tempo;
ad urgergli il cuore si vuole un fiato odoroso, una bocca
di miele e di rose, occhi accesi e pur languidi, morbidi e densi
capelli. - Abisag sunamita, gazzella che appena à brucato
il serpillo, sei dolce e perfetta, sei come una divinità
di giovinezza; sei fatta per trasfondere vita anche dove
s'agguata la morte. Il re grande t'aspetta. Egli si ridesterà
al profumo di nardo e di cinnamo delle tue tepide ascelle,
al tocco dei tuoi seni, soavi al tatto come gardenie,
alla carezza delle tue dita e dei tuoi piccoli piedi
simili a fiori di loto, esperti alla danza che incanta.
Da' tu pieni giorni di vita a chi vide oltre la vita.

Dopo, sarai contesa da re e da principi a sposa.
Ma niuno, neppure il più giovane ed il più bello, potrà
colmarti di sovrumana grazia come il vecchio sublime! ».

INFINITO

 

Col giorno, dentro i limiti di luce
sulla terra e nel cielo,
io sono un abitante
del chiaro mondo aperto a ogni mio senso.
La notte mi sommerge nel tremendo
suo buio - brulicante
d'infiammati universi - e nel suo gelo,
e m'avverte che sono uno smarrito
atomo dell'immenso.
Ma talvolta una sùbita vertigine
mi scaglia negli spazi senza limiti
né tempo, e il loro senso
assoluto un solo attimo mi svela.

E in quell'attimo anch'io sono infinito.

PRESAGIO?

 

Avviene talvolta che
- improvviso -
mi si schiarisca il presagio
della fine:
l'attimo in cui si chiude
quello che è stato
e s'intravede quello che sarà,
il sottile confine
fra il breve mondo di luce
percorso, e il mondo ove si va.
E questo mi appare
nel presagio di quell'istante
terribilmente diverso
dall'eternità che mi facesti sperare,
Dio, dal tuo cielo.
Mi appare come l'immota insensibilità
eterna di un universo
avvolto in un insopprimibile velo
di nebbia gelida e nera.
E al presentimento del terrore
di quell'attimo d'agonia,
vacilla
già su un abisso d'angoscia il mio cuore.

O Dio, Dio, fa che non sia!

COMMEMORAZIONE

 

L'uomo che oggi si vuoi far rivivere
qui, con tanta dovizie di parole,
è lontano, in una lontananza
spessa di muri, di montagne, d'ombra
e d'eternità.
E più lontano, mentre qui si parla
di lui, perché il suo nome
ripetuto non desta eco nei cuori:
echi di lui, dell'entità sua, quale
era vivente, non solo fra noi,
ma di fronte a se stesso.
Eppure, come afferma
quei che ne parla,
(e intanto,
dal sottostante giardino salita,
ronza un'ape smarrita
in un filo di sole
su un giovane ed una ragazza
che appartati in un canto
si sorridon bisbigliando parole
- certo - amorose)
se l'opera sua rimane,
nessuno vi ritroverà domani
la sua voce, le sue
fattezze: lui, carni e pensieri.

Un giorno, forse,
anche me commemoreranno.
Come oggi, forse, questa stessa sala
sarà colma: persone compunte,
altre distratte, qualcuno
sonnecchiante - più tedio che benevolenza..
Il mio ritratto: segni sulla carta;
il mio nome: sillabe fuggenti;
i miei scritti: ancora da leggere
pei più, e dove nessuno
coglierà il vero me, la completa
essenza di quello che io fui.
L'entità mia sarà lontana, in una
lontananza eterna di muri, di mondi...

O forse l'ombra del mio cuore
sarà li, nel filo di sole,
bocca e bocca fra due giovani
che parleranno d'amore.

QUELLI CHE RITORNANO

 

Io li vidi andar via ad uno ad uno
e sparire
in un buio senza tempo e senza limiti.
Sopravvissero, solo
a tratti, ma sempre più scialbi,
nel mio ricordo;
finché nel travaglio - ogni giorno
più fervido - della mia vita,
anche il ricordo divenne ombra.

Vissi le mie intense giornate
che avevano di buio soltanto il sonno.
Io vivevo e vedevo nella luce.

Quando cominciò a farmisi sera,
ecco apparirmi, lontane,
precedendomi a ritroso,
le forme di essi
appena opalescenti, e al mio trepido
incalzare e chiamarle,
sparire nell'ombra.

Riapparvero ancora
lontane e fioche; ma di volta in volta
più chiare e come
asperse d'un pulviscolo di luce:
non di quella accesa dagli uomini
sulla terra, neppure di quella
del sole; ma, giunta da remote stelle
di sconosciuti cieli,
di tracce d'una nuova luce.

Ora, se io m'appresso, si ritraggono
ogni volta più lentamente
e, dissoltesi, lascian nel mio buio
più durevole scia del loro lume:
(o forse sono i miei occhi che imparano
sempre meglio a discernerli
e serbarne le immagini?)
Certo ora io vedo allontanarmisi
piuttosto intorno gli uomini
e le cose già care del mondo.
Ora, fatti più familiari,
mi accennano a seguirli
di là dall'ombra.

E quando un'ultima volta
ritorneranno, non più
labili e fuggitivi
ma palesi alfine e io palese a me stesso,
mi verranno incontro
per trarmi su da quest'ombra
nella loro arcana luce.

IL MONDO GIRA...

Da qualche anno io mi sento
fermo in mezzo alla vita.
Il tempo mi ruota attorno
ed in cerchi di vertigine
il mondo giro giro s'allontana
(questo mondo oggi ricco di piaceri,
ma povero di gioie,
e che io sempre meno
amo). Cosi, finirò un giorno
in assoluto isolamento,
senza più luci, senza più colori,
senza un accento
che mi percuota i sensi,
ma col fardello immenso
e vano dei miraggi, che la vita
e il mondo mi avevan mostrato,
e col pugno di cenere
di quello che m'ànno dato.

ALBERO ANTICO

 

L'albero antico
affonda le radici nei millenni;
e l'anima sua muta
forse ricorda un ben diverso mondo.
Dall'alto dei suoi rami aspira
azzurro e vento carico di buoni
pollini, o luce di baleni.
Non passioni adombrano il suo puro
spirito e mai l'affanna
quest'angoscioso genio di conquiste
umane. La sua ferma
vita, ancorata
alla terra, ma pure protesa negli spazi immensi
gli basta: basta il ritmo
sempre eguale e preciso delle grandi
cose, il semplice e tremendo
principio del Cosmo e della Divinità.
Anima dell' antico
gigante albero, sii maestra ai miei
ultimi anni: fa
che in me si cancelli ogni insana
passione e lusinga
comune ai progrediti
uomini, fammi immemore e sereno
come te, sordo a ogni grandezza umana.

ERICE

Una strada deserta
ove i passi rimbombano.

Solitario genio del luogo,
dai vetri d'una chiusa
finestra, in lontananze secolari,
traspare un'immobile vecchia.

Ma irrompe gaia e fuggitiva
un'adolescente bellissima
seminuda tra svolazzanti vesti.
Afrodite! Afrodite sempre viva!

EREMO DELLE DUE PORTE

Bologna, marzo 1940

C'è, dunque, ancora nel mondo
quando v'infuria la romba
degli odii, un angolo lieto
dove, sotto un inviolato
cielo, fiorisce un roseto?
Eremo delle due Porte,
tu accogli nella tua terra
la rovere buona e forte,
la rosa pura e bella.
E i cuori. Vi restano come
un seme, dentro la zolla:
come un olezzo nell'aria.
Seme di cuore che consacra un nome,
olezzo d'anima cha sa d'eterno
nella divina pace solitaria.
Forse di tutto me stesso
io preferisco quelle
piccole cose che qui resteranno,
sole, qui, in questo nuvoloso
giorno, fra la terra e il cielo:
perché in terra ci sono le rose
e in allo, oltre il velo
delle nubi, ci sono le stelle.

SILLABE

Sillabe di fuggitivi
attimi,
d'inespressi pensieri,
di desideri
ancora vivi;
sillabe di poco più
d'un niente
dalla nascita morituro,
del cosmo attorno a me sopravvivente.

PROGRESSO

L'uomo, il vecchio simile mio,
partì per farsi dio,
per diventare eterno.
Monta e monta, e non sa d'esser Lucifero.
L'ultima sua conquista
lo scaraventerà nell'inferno.

GLI UOMINI

Fra la tremenda bellezza
dei mondi vorticanti su ali
d'etere e di luce,
una sfera semibuia:
su di essa brulicano
i piccoli uomini, carichi
dei sette peccati mortali.

GRANDEZZA

Oh, grandezza che mi turba
più di quella di Napoleone!
Quella di uno sconosciuto
uomo qualsiasi
che non divenne
console o imperatore,
per aver rifiutato
un suo diciotto brumale!

CIELO

Cielo:
labile e ingannevole velario
fatto per nascondere
l'eterno con l'effimero, con poco azzurro e poco calore
un'incommensurabilità di tenebre e di gelo.

AMORE PERDUTO

Un corpo ignudo, perfetto,
di giovane donna che s'offriva,
biancheggia nell'inesorabile
penombra del mio passato.
Presente ora, viva,
l'inutilità di un rispetto
umano, il vuoto desiderio
della gioia che ò rifiutato.

LA CICALA E LA FORMICA

Anche ieri la formica industre
rimproverò l'oziosa cicala
che cantava.

Nel mio terrazzo eserciti d'industri
formiche rigavano, in nei
brulicami, in inquieti via vai,
i muri, e li perforavano
minacciandone lenta ruina.
Col veleno e col fuoco io le ò distrutte.

La cicala, in cima a una fronda,
dondolandosi effondeva
l'inconsapevole vita nel canto.

E l'ò lasciata cantare.

IL TOPO

Dopo tanti, tanti anni, il ritorno
d'un mio terrore infantile?
Frugavo allora (era un giorno
d'estate) tra vecchi libri
dentro una cassa,
quando ne schizzò un topolino:
una saetta nera,
un vellichìo veloce
sul mio braccino nudo...
Chiamai la mamma, con voce
da folle: il ribrezzo era
(e ne rimane il ricordo) atroce!
Dopo tanti, tanti anni, una sera
qui, nella stanza rimasta
chiusa più giorni, all'accendere
la luce, io l'intesi.
E tosto balzò fra i miei piedi
con demoniaci occhi accesi
la rapida e nera
bestia, più grossa d'allora (cresciuta
quant'io da bambino?)
L'orrore del giorno lontano
risorse: la piccola fiera
sinistra delle cavità
e del buio, ben conosciuta
dalle mie carni, si era
indugiata stavolta
fra le mie carte,
sul tavolo dove scrivo,
su lo sgabello
ove leggo… Più che sul mio braccio
la mia sensibilità stravolta
avvertì il suo fuggitivo
zampettio nel mio cervello.
Ed ora, dovunque io vada
da solo, anche di giorno,
per casa o per la strada,
Spesso egli mi guizza di fianco,
mi circola rapido attorno,
e scompare.
Forse non mi abbandonerà
più… anzi mi pare
d'intendere dove
mi seguirà,
dove, per sempre,
lo dovrò ritrovare.

IL SENSO DELLA VITA

 

Giunto al meriggio dissi:
"Vita, tu sei questa piena luce"
Ma declinò la luce, ed al tramonto
dissi: "Vita, tu sei bagliore d'espero"
"Vita – dico oggi -
fosti invano sole e poi stella
che di minuto in minuto si consuma:
quel che cerco non s'è palesato.
Mi s'illuminerà finalmente
il tuo senso con l'ultima favilla?"

DAL CAOS AL CAOS

Dio separò la luce dalla chiusa
ombra, trasse dal caos i mondi,
e con la sua potenza
infinita creò l'uomo innocente.
L'uomo ora, armato d'ira e di scienza,
vuole uccidere Dio,
e ridurrà i mondi al caos.

LA VERITA'

Che cerchi? Che speri
trovare ancora oltre la notte?
Il giorno è circoscritta illusione
vaga di luci,
di colori e di forme.
Il buio che le cancella
dilata il firmamento
con le sue rotanti fiammelle
millenarie, ma una a una
moriture come il morto giorno.
La verità non è che nella tenebra.

DUE MONDI

Perché navigare non osai
nei giorni degli ardimenti,
abbandonare affetti, amori,
piccole glorie, sorriso
cittadino di giorni migliori,
per veder sorgere innanzi alla prua della mia caravella
il fascinoso ignoto di nuovi continenti, per conquistarmi la vita come un vello d'oro,
o anche per morire nella tempesta
come Ulisse, intravista la montagna che sale al Paradiso?
Perché da Gafsa, da Gabes,
da El Tarhuna, alle soglie
del Sahara, non rifiutai
per sempre la civiltà invisa,
non mi spinsi fino al misterioso Tombuctù
e al Baghirmi, ove ragazzo sognai
"dormire sotto la stellata tenda
del ciel, col capo sulla belva uccisa"?
Oh, la gioia dei grandi fiumi
placidi e degli immoti laghi s'Africa,
ove il cielo capovolto si sprofonda
con le sue nuvole e coi suoi volanti
uccelli, che vi si mescolano a specchio
coi muti cigni e coi pesanti
lamantini; gioia delle inviolate
savane dell'America del Sud,
e delle foreste incantate
fra l'Oceano e il Mar dolce
delle Amazzoni, e dove si annida
l'ultimo segreto della Terra:
Manoa, che io mai vidi eppure descrissi,
ma dove un'altra volta vorrei vivere
quei giorni che solo nel sogno vissi!
Vita, vita, la tua maggiore bellezza
era nella mia radiosa fantasia,
che ora ritorna in luce di tramonto
fra nuvole d'amarezza.
Allora essa mi stava dinanzi
come avvenire;
e ora invece non è che l'agonia
del sogno.
Ci toccherà morire
non tra eroici miraggi,
ma in un mondo volgare ed ingiusto,
nel brago della realtà
presente, ove l'ultimo senso
non sarà che il disgusto!

IMMAGINI DEL PASSATO E DEL FUTURO

Il tempo, ch'era sì lento
nell'infanzia, a poco a poco
divenne rapido, e ora mi si è fatto
angosciosamente veloce.
Ogni giorno perde un istante
roso da un'implacabile lima.
Le cotidiane bisogne, i consueti
atti del viver comune
prendono tutte le brevi ore.
Soltanto nelle notti insonni
il mio pensiero si possiede,
ma come galleggiante in un'onda di sgomento:
perché non sono più i variopinti
sogni, le fantasie che costruivano mondi
- labili, sì, eppure tripudianti;
sono ora le facce dei ricordi,
le immagini delle memorie
e dei rimpianti di quel che fu
o che poteva esser gioioso,
ma atteggiate a quella mestizia
che hanno i ritratti delle persone morte.
E tra loro il futuro non appare
più che con desolato volto,
frusto e sbilenco – meschino
viandante dalla bisaccia
vuota -
che attende, con la mano tesa,
giunto al deserto destino.

O mendico mio futuro,
attendimi: l'ultimo obolo
lo riceverai da me stesso.

ESILIO

Uomini… lumi… case…
veicoli… strade… città…

Che è questo sciame effimero di vite
su una molecola dei mondi
e fra cui ora vago disperso?
Come fui tratto dalle vie infinite
nel pulviscolo dell'umanità?

Oh, angusto esilio in questi bassifondi
della sconfinata immanenza!
Liberati, spirito lieve;
ritorna alla tua patria, cittadino dell'Universo.

MOMENTO

Nella mia coscienza sonnolenta
passò il guizzo
della giovane donna che s'ergeva
sui piedi seminudi
inarcati nel sandalo rosso
per giungere a uno scaffale:
piccoli piedi dal fine sottile garretto
teso in mossa di danza.
E nel mio seno s'effuse un calore
che io avevo creduto ormai spento.
Giovinetta, tu mi ài guardato
e sai ora che debbo alla tua grazia
un attimo segreto d'esultanza,
un ritorno divino, pure se effimero, all'amore.

RITORNI

Su un davanzale insiste
da quarant'anni a fiorire la fuxia?

Dallo scalone un triste
mendico mi fa cenno con la mano.
Ma sì, ti riconosco!
Sei il loquace monello
che una volta, in quel tempo lontano,
mi condusse a una donna segreta.
Ora che vuoi? Nulla in me
né in te segna un ritorno.
No, non ricondurmi da quella
d'allora, pure se nel mondo
non esistiamo oggi che noi tre.
Neanche se lei sola è rimasta
ferma nel tempo, nessuno di noi
ritroverà più quel giorno!