L’unica
potenza a rimanere neutrale per il momento era l’Italia che secondo il patto
che la legava con Austria e Germania, puramente difensivo, doveva entrare in
conflitto al loro fianco solo in caso che fossero loro le prime ad essere
attaccate. La neutralità dell’Italia venne dichiarata ufficialmente il 2
agosto, dal governo Salandra, ma ben presto l’opinione pubblica registrò due
opposti schieramenti:
-
INTERVENTISTI, che promuovevano la
guerra a fianco dell’intesa e che a sua volta di dividevano in:
gli
irredentisti democratici, che assieme
a i social-riformisti di Bissolati, i radical-progressisti, i repubblicani e gli
ex garibaldini, volevano non solo la liberazione di Trieste e Trento, ma anche
dei popoli slavi oppressi dall’Austria. Di questa linea di idee facevano parte
anche intellettuali come Luigi Einaudi e Gaetano Salvemini.
I
liberal-conservatori, volevano una
guerra vittoriosa, così si sarebbero rafforzate le istituzioni, e si sarebbero
acquistate importanti posizioni di forza sull’Adriatico. Antonio Salandra e
Sidney Sonnino facevano parte dei liberal-conservatori e usavano come strumento
di propaganda, il "Corriere della Sera", giornale diretto da Luigi
Albertini.
I
nazionalisti. Che dapprima volevano
l’entrata in guerra a fianco degli imperi centrali e vedevano la guerra come
un’avventura gloriosa e rinnovatrice. A questa fazione faceva parte la
"piccola borghesia idealistica", suggestionata da Gabriele
D’Annunzio e dalle provocazioni dei futuristi.
I
sindacalisti rivoluzionari, come
Arturo Labriola e Filippo Corridoni, erano convinti che con la guerra si potesse
arrivare ad una rivoluzione proletaria.
Da
ricordare come interventista rivoluzionario anche Benito Mussolini, che da
direttore dell’"Avanti", ed esponente del Partito Socialista
Italiano, dal quale fu espulso, divenne direttore del "Popolo
d’Italia", giornale finanziato da gruppi economici favorevoli al
conflitto e da emissari francesi, con il quale esortava i giovani a "fare
storia" attraverso la guerra.
-
NEUTRALISTI, che invece furono:
il
Partito Socialista Italiano, che era
dalla parte delle masse contadine e operaie, che vedevano nella guerra una
tragedia.
I
cattolici, per la solidarietà con
l’Austria cattolica, e per i principi evangelici.
Giolitti
e giolittiani, che a differenza dei
comandi militari stranieri che prevedevano una guerra "lampo",
prevedeva una guerra lunga e sanguinosa. Inoltre pensava che l’Austria avrebbe
dato molto in cambio della neutralità.
Il
10 luglio 1914, proprio il giorno d’inizio del conflitto mondiale, venne
nominato come nuovo capo di Stato Maggiore dell’esercito italiano il generale
Luigi Cadorna, che non perse tempo e avanzò immediatamente richieste di fondi
per l’attrezzatura e l’addestramento dell’esercito, preoccupato per lo
stato di impreparazione in cui esso si trovava. Il governo però, pur di
salvaguardare una certa impostazione del bilancio dello stato, si oppose
sistematicamente alle richieste del generale. Solo in un secondo momento, con
l’incalzare degli avvenimenti bellici, il governo dovette sostenere con rito
d’urgenza spese per 1 miliardo e 92 milioni di lire previste per l’anno
finanziario 1914-15. Il comando militare nel frattempo, visto che la guerra era
ormai inevitabile, cercava più velocemente possibile di migliorare
l’organizzazione e completare l’armamento dell’esercito. I mesi di
neutralità italiana, così poco e male utilizzati nel necessario potenziamento
dell’esercito, vennero invece intelligentemente messi a frutto dal comando
dell’esercito austro-ungarico. Il comando supremo austriaco, infatti, aveva già
iniziato da tempo a studiare accuratamente e a realizzare una possibile difesa
del confine sud ovest dell’Impero. La linea difensiva austriaca, per motivi
strategico-militari, risultava leggermente arretrata rispetto al confine
politico, ma tecnicamente agguerrita perché saldamente attestata sulle
posizioni dominanti del Carso isontino, dove una mitragliatrice ben appostata
bastava a tenere a bada migliaia di uomini. Gli austriaci così, diedero inizio
sul Carso allo scavo di trincee, di difese multiple di reticolati, alla
costruzione di posizioni protette e dominanti proprio per le mitragliatrici e
alla realizzazione di innumerevoli camminamenti per raggiungere le trincee
partendo dalle retrovie o dalle doline. Nei dieci mesi che trascorsero
dall’agosto del 1914 al maggio del 1915 si susseguirono accese discussioni e
violente dimostrazioni, mentre il governo cercava di ottenere da Vienna, in
cambio della neutralità, compensi territoriali nel Trentino e nell’Istria.
Nello stesso tempo le potenze dell’Intesa tentavano di attirare l’Italia
dalla loro parte. Alla fine però, convintosi che le trattative erano condotte
per le lunghe dall’Austria solo allo scopo di guadagnare tempo, il ministro
degli Esteri Sidney Sonnino (1847-1922) si decise a firmare con le potenze
dell’Intesa il cosiddetto patto di Londra (26 aprile 1915): in base a esso
l’Italia garantiva agli alleati il proprio intervento alloro fianco entro un
termine massimo di trenta giorni; gli alleati le riconoscevano il diritto di
estendere il proprio territorio all’Istria e alla Venezia tridentina e di
annettersi definitivamente il Dodecaneso, già conquistato nel 1912 nella guerra
contro la Turchia per la conquista della Libia, e una parte della Dalmazia,
nonché un equo compenso coloniale, nel caso si arrivasse a una spartizione tra
Francia e Inghilterra dei possedimenti tedeschi in Africa. Il patto era
assolutamente segreto e tale restò fino al 1917, sia per le forze politiche sia
per l’opinione pubblica. Stando così le cose, era evidente che il governo si
trovava a dover affrontare una complessa situazione interna, in particolare per
la presenza nel Paese e soprattutto nel Parlamento di una schiacciante
maggioranza neutralista, legata a Giovanni Giolitti. Intanto gli interventisti
mobilitavano la piazza, organizzando in tutta la penisola numerose
manifestazioni: tra le più famose quelle tenutesi il 5 maggio a Quarto in
occasione dell’anniversario della spedizione dei Mille e il 13 a Roma sul
Campidoglio, che ebbero come oratore ufficiale Gabriele D’Annunzio. Nonostante
la violenta campagna d’intimidazione scatenata in molte città d’Italia
durante quelle che furono poi dette le “radiose giornate” di maggio,
l’interventismo sembrava votato all’insuccesso a causa della maggioranza
neutralista presente nel Parlamento, ancora saldamente controllato dalla forte
personalità di Giolitti, malgrado il pesante linciaggio morale cui era
quotidianamente sottoposto. Il 13 maggio, però, sentendosi virtualmente battuto
sul piano parlamentare, Salandra prese la decisione di presentarsi dimissionario
al re, il quale, dopo avere offerto l’incarico allo stesso Giolitti e ad altri
ex ministri e avere ricevuto un diniego, invitò Salandra a ritirare le
dimissioni: invito che venne subito accettato. La ragione del rifiuto da parte
degli interpellati era dovuta all’ormai evidente posizione a favore
dell’intervento assunta dal re, sotto la pressione della corte, del governo e
della piazza. Anche nel corso della crisi (13-16 maggio 1915) il sovrano si era
infatti preoccupato di inviare al generale Vittorio Zuppelli, ministro della
guerra, un categorico ordine di proseguire senza alcun rallentamento i
preparativi per l’imminente conflitto. Nello stesso tempo il governo, benché
dimissionario, si era riunito per stanziare la rilevante somma di cento milioni
per nuove spese militari. D’altra parte, anche nelle manifestazioni esteriori,
Vittorio Emanuele in sembrava avere deliberatamente scelto le forme più adatte
per sottolineare in un clima di guerra, sia pure non ancora combattuta, una
decisione già presa, visto che già da qualche tempo indossava la divisa da
campo in panno grigioverde. Di qui il sospetto non del tutto infondato che le
dimissioni di Salandra altro non fossero state che un’abile mossa tattica
concordata con la corona per sbloccare la situazione. Il 15 maggio, giorno
successivo all’incontro con il re, Giolitti abbandonò Roma per rientrare in
Piemonte. Il suo gesto costituì un’esplicita dichiarazione di sconfitta ancor
prima di dare battaglia alle Camere nella riunione convocata per il giorno 20
con all’ordine del giorno l’approvazione del conferimento dei pieni poteri
al governo in caso di guerra. Sotto l’impressione suscitata dal fermo
atteggiamento del re, dall’inaspettata decisione rinunciataria di Giolitti,
nonché dalle sempre più violente manifestazioni di piazza, il Parlamento,
scosso e disorientato e soprattutto costretto dagli eventi a dover fare una
scelta alla quale non era preparato, finì per votare con 407 voti contro 74 i
pieni poteri a Salandra con la sola opposizione del cattolico Guido Miglioli e
dei deputati socialisti, la cui parola d’ordine fu «né aderire, né sabotare».
Una ferma protesta per il metodo antiparlamentare e antidemocratico seguito dal
sovrano e dal governo per portare il Paese alla guerra fu pronunciata in
Parlamento da Filippo Turati, ma non ebbe alcun effetto: il 24 maggio 1915
l’Italia dichiarò guerra all’Austria dopo averle inviato il giorno prima un
ultimatum.