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"Una casa e quattro donne valsesiane"

Capitolo quinto

Giuseppina (la "Pipina")

 

Nella seconda metà dell'800 alcune famiglie relativamente benestanti della valle facevano ancora ricorso all'impiego dei "servi" per far fronte alle incombenze più umili e più faticose richieste per la conduzione dei terreni o per il pascolo e la cura del bestiame. La posizione di servo costituiva il penultimo dei livelli della scala dell'indigenza e vi erano costretti coloro che non possedevano nulla, o quasi. Il servo viveva con la famiglia che lo ospitava e spesso veniva considerato quasi parte integrante della famiglia stessa, assoggettandosi in tutto e per tutto alle sue abitudini ed alle sue esigenze. Nella famiglia De Marchi non c'era mai stata la necessità di disporre di servi, in quanto le braccia esistenti erano state sempre più o meno sufficienti a sopperire alle esigenze del lavoro, ma le cose cambiarono negli ultimi decenni dell'800 quando, nella casa di Camproso, rimasero soli Angela Prina e il marito Giuseppe Mattasoglio, entrambi già avanti negli anni.

***

Fu appunto agli inizi del 1885 che Angela si prese in casa, in qualità di serva, una bambina di appena nove anni, nativa di Scopello e proveniente da una famiglia molto povera, dove la madre, rimasta da poco vedova, non riusciva con il suo modesto lavoro a sfamare la prole. Giuseppina era una ragazzina intelligente e vivace, sempre pronta a rispondere alle richieste dei "padroni" che, in realtà, la consideravano più come una figlia che non come una "serva" vera e propria. La Pipina, così familiarmente ed affettuosamente chiamata da Angela e da Giuseppe, aveva trovato nella casa di Camproso quel benessere che certamente non avrebbe goduto nella sua famiglia d'origine e le sue incombenze erano, tutto sommato, umanamente accettabili, soprattutto per i tempi e le circostanze in cui si era venuta, suo malgrado, a trovare.

Rientravano nei suoi compiti quotidiani il riassetto della casa, la cura del bestiame, la conservazione del fieno e la coltivazione degli orti. Lavori che svolgeva spesso in compagnia di Angela, che le raccontava, con quell'accento francese che tanto l'affascinava, dei suoi anni trascorsi a Saint Etienne e delle sue esperienze di vita. I racconti proseguivano poi sulla panca di pietra esistente all'esterno della casa, dove nei momenti di "riposo" le due donne si ritrovavano, fianco a fianco, per ricamare il "puncét", il caratteristico merletto valsesiano, allora ricamato con il filo della canapa coltivata nella media ed alta valle.

Quando, poi, rientrava dal Brasile Giovanni Emilio, carico di bagagli e portando con sé alcuni regali provenienti da tanto lontano, la Pipina se ne stava ricantucciata zitta zitta in un angolo ad ascoltare, estatica, le descrizioni di un mondo per lei assolutamente sconosciuto. Il tempo passava allora più velocemente e la stanchezza del lavoro quotidiano scompariva, soprattutto quando, al sopraggiungere della sera, si avvicinava l'ora in cui tutti si riunivano nella vasta e fumosa "stüva"(46) dove Giovanni Emilio avrebbe continuato i suoi meravigliosi racconti.

Giunta la notte, raggomitolata sulla sua "basàcca"(47), sognava di foreste impenetrabili, di animali selvaggi e di impossibili avventure fantastiche, colorite ed ingigantite dalla sua ancora infantile e fervida immaginazione.

Angela si preoccupava, con affetto quasi materno, di curare la crescita della ragazzina, impartendole anche qualche rudimento scolastico, tale da consentirle di leggere e scrivere e di sovraintendere ai conti di casa. Per tutto l'anno le due donne si davano un gran da fare ad allevare e vendere vitelli e piccoli animali domestici e durante l'estate, oltre a quella dei propri possedimenti, tagliavano l'erba anche nei prati comunali per la "quota" di loro spettanza. Con il ricavato di tutte queste attività realizzavano anche alcuni risparmi che mettevano nella cassa comune, che era, sostanzialmente, la piccola cassa di famiglia. Giuseppe, il marito di Angela, considerato già di poco conto dalla sua stessa madre, era molto malandato in salute e conduceva ormai un'esistenza quasi vegetativa, in attesa dell'inevitabile prossimo trapasso a miglior vita.

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Con il trascorrere degli anni anche l'energia e la vitalità di Angela andavano inesorabilmente attenuandosi e la presenza della Pipina, sempre più inserita nella gestione della casa, diventava preziosa ed insostituibile. Inoltre, Angela accettò di accogliere nella sua casa, per un certo periodo e dietro un peraltro modesto compenso, un'altra povera donna, storpia, anziana e malata, affidatale in tutela dal parroco di Campertogno. Tutti questi impegni venivano sempre più a gravare sulle spalle della Pipina, che però li accettava di buon grado, forte della sua giovane età e rassicurata dall'affetto della famiglia in cui si era venuta a trovare.

Giunta all'età di 25 anni, la Pipina trovò anche il modo di innamorarsi e di fidanzarsi con un giovane del posto, minore di lei di quattro anni; ma dovette attendere ancora qualche anno prima di poterlo sposare, in quanto non se la sentiva di lasciare la famiglia in cui viveva e, per contro, non riteneva giusto chiedere ad Angela di accogliere in casa anche il futuro marito.

Quando, nel 1904, Giovanni Emilio, ritornato da pochi anni in Valsesia, morì (più o meno nello stesso periodo, come si è visto, si aggiunse anche la scomparsa di Giuseppe e dell'altro figlio, Pietro, gessatore a Saint Etienne) Angela rimase definitivamente sola con la Pipina, ed unica proprietaria dei beni familiari. Ormai la giovane donna poteva essere considerata la vera "rejiôra" della casa e Angela, che le aveva riservato da sempre quell'affetto materno che avrebbe voluto concedere ad una propria figlia, se l'avesse avuta, pensava da tempo che la Pipina sarebbe diventata a tutti gli effetti la sua unica erede.

Ma un conto sono gli affetti ed un altro gli aspetti burocratici, per cui si trattava di predisporre le carte in modo tale che alla morte di Angela tutto venisse regolarizzato nel migliore dei modi. Angela ci pensò su e poco dopo il decesso del figlio Giovanni Emilio, su consiglio di un esperto del luogo, stipulò un contratto di vendita in base al quale cedette alla Pipina la casa, i prati, i boschi e tutti i beni di cui era in possesso. La cessione fu formalizzata davanti ad un notaio per il prezzo di 2000 lire che, per la maggior parte, andavano ufficialmente a compensare il valore dei servizi, mai retribuiti, resi dalla Pipina durante la sua permanenza, in qualità di "serva", nella casa di Camproso. Si trattava, quindi di una atto in un certo senso dovuto, nel quale il valore e le forme di pagamento assumevano un significato puramente formale.

La Pipina divennne quindi, anche legalmente, la vera "padrona" ma, ciò non ostante, non cambiò assolutamente nulla nei rapporti fra le due donne. La "serva" continuò a lavorare come e più di prima, assistendo amorevolmente l'anziana "padrona" che, all'età di circa 80 anni, era ormai assolutamente inabile a qualsiasi attività lavorativa.

Un anno dopo, nel 1905, all'età di 29 anni, la Pipina finalmente si sposò e, con il consenso di Angela, convinse il marito a venire ad abitare nella casa di Camproso. Gli sposi adattarono la loro stanza matrimoniale in prossimità della camera da letto di Angela, così da poter meglio assistere, per ogni evenienza, quella che da tempo veniva ormai chiamata "la mama Angiola".

L'anno successivo nacque il primo dei cinque figli della Pipina che, fedele alle tradizioni della valle, stava rapidamente recuperando il tempo perduto in tanti anni di assoluta dedizione ai soli doveri di "serva".

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Ad ulteriore conferma delle sue ultime volontà, e quasi presagendo possibili difficoltà future, Angela Prina vedova Mattasoglio stese di suo pugno, il 20 marzo 1806, un testamento che, fra l'altro, ribadiva:

"...Nomino erede universale la mia serva Giuseppina di tutto quanto mi posedo mi apartiene nulla escluso. Voglio che fatto il mio corpo cadavere che si faccia il funerale con tre sacerdoti che sia invitata la compagnia delle consorelle che nel giorno in cui si farà la settima sia distribuito il sale chilogrammi centocinquanta. Questa è la precisa disposizione di mia ultima volontà passo a sottoscrivere con piena cognizione di causa...".

Tre anni dopo, alla vigilia di Natale del 1909, Angela spirava serenamente, all'età di 84 anni.

La "Francese" aveva lasciato nella storia della casa di Camproso un'impronta che aveva, in un certo senso, scosso nelle fondamenta quel muro di individualismo e di egoismo familiare che aveva caratterizzato le generazioni passate. E anche Angela aveva contribuito ad accrescere l'ormai copioso archivio di atti notarili e non, esistente nella casa, comprando e vendendo terreni, stabili e proprietà varie, anche se il ricco patrimonio accumulato con persistente tenacia dai suoi avi era stato notevolmente assottigliato dalle necessità di sistemazione dei guai creati dai figli. Erano comunque rimaste ancora parecchi beni, che ora avrebbero potuto costituire per la Pipina il definitivo affrancamento dalla sua originaria miseria.

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Pochi mesi dopo il decesso di Angela, bussarono alla porta della casa di Camproso l'Ufficiale Giudiziario della Pretura di Scopa e il Messo comunale, recando un documento che li autorizzava a redigere un preciso inventario ed a mettere i sigilli alla proprietà della defunta Angela Prina Mattasoglio. Superata a malapena la sorpresa iniziale, la Pipina comprese rapidamente i motivi che avevano fatto scattare l'azione di sequestro. Dalla Francia, infatti, si erano inaspettatamente fatti vivi i nipoti di Angela, figli di Pietro Mattasoglio, per rivendicare il loro diritto all'intera eredità della nonna e per denunciare la circonvenzione d'incapace cui sarebbe stata oggetto la vecchia ad opera della Pipina, di suo marito e dell'esperto a cui Angela si era a suo tempo rivolta per ottenere un consiglio sul modo migliore di trasferire le proprietà alla Pipina. La "legge" era quindi intervenuta in forze e a nulla valse mostrare ai verbalizzanti la copia dell'atto di vendita con cui la Pipina aveva acquistato i beni, nonché la copia del testamento della povera Angela. Per la Pipina e per suo marito non restava altro da fare, per il momento, che assistere impotenti allo svolgimento del procedimento giudiziario. E così la famiglia della "serva" dovette raccogliere le poche cose riconosciute veramente personali e trovare altrove una nuova sistemazione di fortuna.

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Non appena possibile e con l'assistenza di un avvocato, venne predisposta la richiesta di dissequestro, corredata dalla relativa memoria difensiva che, facendo una meticolosa e circostanziata ricostruzione dei 25 anni trascorsi dalla Pipina nella casa di Angela, ribadivano il pieno diritto della "serva" di considerarsi a tutti gli effetti la legittima proprietaria dei beni. Nei documenti venivano anche ricordati i rapporti "familiari" intercorsi con Angela, il mancato pagamento dei salari, le cure che la giovane aveva prestato alla vecchia durante la sua lunga malattia e, infine, il completo disinteresse che per molti anni i nipoti francesi avevano dimostrato nei confronti della nonna.

Ma gli avvocati dell'accusa avevano trovato abbondante pane per i loro denti e predisposero subito una contro-memoria in cui contestavano la vendita fatta soltanto pochi giorni dopo la morte di Giovanni Emilio, asserendo che tale atto fosse stato estorto all'anziana proprietaria in un momento di grave depressione e in stato di incapacità ad intendere e volere. Definirono la Pipina una infida "serva padrona" che per lunghi anni aveva circuito la povera Angela al fine di carpirle le sue proprietà e, infine, contestarono l'accusa avanzata nei confronti dei nipoti di non aver assistito la malata. A questo proposito asserirono che nessuno si era premurato di informarli sullo stato di salute di Angela e negarono che i "Francesi" si fossero sempre disinteressati della nonna; ricordando altresì che ogni anno questi ultimi avevano fatto giungere a Camproso, attraverso una famiglia di emigranti che ritornava in Valsesia per le vacanze, cioccolato ed altri piccoli doni per la "cara e vecchia nonna".

Furono riempite pagine e pagine di sottili argomentazioni giuridiche, furono prodotti fasci di documenti, furono chiamati testi a favore dell'una e dell'altra parte e, alla fine, il Regio Tribunale di Varallo, con una sentenza passata in giudicato nel 1910, respinse le richieste dei nipoti francesi ed assegnò definitivamente le proprietà di Angela alla sua "serva" Pipina.

Terminava così una vertenza che non era obiettivamente semplice da definire, in quanto le argomentazioni portate dal legale della Pipina, al di là delle testimonianze e delle carte notarili prodotte e regolarmente contestate dalla controparte, si basavano soprattutto su considerazioni affettive molto difficili da dimostrare e da far collimare con la realtà anagrafica e burocratica. Ma forse il giudice tenne proprio conto di questo lato "umano", valutando con saggezza ed equità un'intera vita spesa al servizio di una persona cara e, per contro, dando il giusto e meritato peso a chi, ricomparso all'improvviso dal silenzio degli anni, pretendeva di vantare un diritto cui non aveva fatto riscontro alcuna concreta dimostrazione di sensibilità umana.

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Nei primi anni che avevano fatto seguito all'Unità d'Italia, e fino al primo decennio del '900, anche la Valsesia subì gli effetti di quel fenomeno del brigantaggio che aveva trovato nelle regioni meridionali della penisola il suo terreno più fertile e le sue manifestazioni più estese. Ma a differenza del Sud, dove le attività dei briganti potevano ricondursi (o si è voluto far credere che si riconducessero) anche a motivazioni di carattere socio-politico, la Valsesia espresse casi del tutto particolari, frutto più di circostanze individuali favorevoli che non di spinte ideologiche di tipo rivendicativo nei confronti delle autorità di governo. In sostanza, si trattò di un fenomeno in un certo senso ricollegabile con altri casi isolati, e pressoché analoghi, verificatisi in Emilia-Romagna e in qualche altra regione del Centro e del Nord Italia. E anche la Valsesia non si sottrasse al forte stimolo di trasformare, nel tempo, le gesta dei briganti in leggenda, ingigantendo i fatti, donando ai personaggi il dono dell'ubiquità e dell'invincibilità, facendoli diventare a volte angeli ed a volte diavoli e, infine, utilizzandoli anche quale sottile deterrente contro le bizze dei bambini più capricciosi.

Nella media ed alta Valsesia scorazzò in quel tempo un brigante di nome Pietro Bangher, giunto dal Trentino e insediatosi nelle montagne del Novarese e del Vercellese. E' curioso notare come, a suo tempo, anche il frate-brigante Dolcino avesse iniziato la propria "carriera" proprio nella provincia di Trento, regione di nascita, fra l'altro, pure della sua compagna, suor Margherita Boninsegna.

Il terreno di caccia preferito dal Bangher abbracciò proprio la zona fra Piode, Rassa, Campertogno e Mollia. Qui, favorito dall'impervietà dei monti e da una certa condiscendenza e omertà di taluni valligiani, il fuorilegge potè compiere le sue più clamorose ed efferate scorribande, razziando le "casère" (baite in cui si producevano il burro e il formaggio) di alta montagna, incendiando i fienili dei delatori, stuprando giovani e più o meno innocenti contadinelle, gozzovigliando nelle osterie e attaccando briga con mezzo mondo.

La sua fama, accresciuta dall'incapacità delle forze dell'ordine di assicurarlo rapidamente alla giustizia, crebbe di giorno in giorno, assegnandogli il fascino dell'imprendibilità e facendogli attribuire una catena di misfatti che, per la frequenza con cui si verificarono e le distanze dei luoghi in cui avvennero, sarebbero stati di impossibile attuazione da parte di una sola persona.

Evidentemente a quel tempo in Valsesia non c'era solo il Bangher a compiere misfatti vari, ed altri fuorilegge, meno famosi di lui ma altrettanto assetati di denaro e di giovani donne, lasciarono che il "merito" fosse attribuito tutto e soltanto al Bangher.

Il brigante, che nella sua vita "professionale" non venne mai accusato di alcun fatto di sangue, divenne così il terrore dei viandanti, il "principe azzurro" degli inconfessati sogni erotici delle giovani valligiane, il tema ricorrente nelle conversazioni dei salotti-bene di Varallo e, alla fine, l'eroe di una delle tante leggende della valle. Fu anche catturato, processato ed imprigionato nel carcere-lager di Pianosa, ma quando al termine della sua lunga pena detentiva, ormai vecchio, fece perdere definitivamente le sue tracce, la fantasia degli alpigiani lo vide di nuovo sui monti della Valsesia, alto, possente, con la lunga barba nera ed un cappellaccio "alla francese", saltare come un camoscio di vetta in vetta, eterno cacciatore di fanciulle, razziatore di baite e di cascine, gran bevitore e castigatore dei cattivi. In realtà, i suoi rilievi antropometrici, presi al momento della cattura, lo davano alto meno di un metro e settanta, con un peso di soli 68 chilogrammi(48).

Evidentemente la valle aveva bisogno di un suo Superman, e se lo creò. Ancor oggi si incontrano anziani valligiani che affermano di averlo conosciuto o, quanto meno, di averne seguito le gesta attraverso le testimonianze dei loro genitori. Trapela da questi racconti un senso di rispetto e, in un certo senso, di ammirazione nei confronti di questo "òm salvàig" (uomo selvaggio) che scorazzava libero e indisturbato per monti e per valli. E qualche maligno sussurrava che nei volti di taluni giovani abitanti dei villaggi del fondovalle, particolarmente presi di mira dal terribile Bangher, si potessero riconoscere i suoi tratti somatici, così come tramandati dalle riproduzioni iconografiche giunte sino a noi.

Non c'è dubbio che nel corso delle sue scorribande il Bangher sia transitato, con intenzioni più o meno pacifiche, anche da Camproso; essendo comunque anch'egli illetterato, non lasciò alcun scritto e quindi non si trovano sue tracce nella documentazione ora ritrovata.

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Due anni dopo la conclusione della vertenza legale con i nipoti francesi di Angela, nacque il terzo figlio della Pipina, una bimba a cui i genitori fecero appena in tempo a dare un nome, prima che un'improvvisa malattia infantile la portasse rapidamente alla tomba.

Un altro dramma era così calato sulla casa di Camproso, ma per la Pipina non sarebbe ancora stato l'ultimo. Nei primi mesi del 1915 venne alla luce l'ultimo dei suoi cinque figli, un maschio, e poche settimane dopo, scoppiata la prima guerra mondiale, il padre, a 35 anni suonati e con quattro figli in tenera età, partì per il fronte come altri 4000 Alpini valsesiani. Ma non tornò più a Camproso, confondendosi con uno dei tanti "soldati ignoti" sepolti senza nome nei cimiteri di guerra del fronte orientale.

Qualcuno, rientrato in valle alla fine del conflitto, riferì, per sentito dire, che una granata austriaca, scoppiata nel bel mezzo di un camminamento italiano della prima linea, aveva fatto strage di un piccolo raggruppamento di Alpini, tutti Valsesiani, fra cui probabilmente c'era anche lo sfortunato marito della Pipina. Non fu possibile identificare le salme e di questo Alpino di Campertogno è rimasto ora soltanto il nome, inciso nella lapide che ricorda i Caduti della Grande Guerra.

E così anche la Pipina, che pure nulla aveva avuto a che fare, sotto il profilo della parentela anagrafica, con le generazioni dei De Marchi-Mattasoglio che l'avevano preceduta nella casa di Camproso, si ritrovò, come Maria Domenica e come Marta, a vivere nella "sua casa", ancor giovane vedova e con diversi figli a carico. Ma, come le altre donne, anche la Pipina seppe trovare in sé stessa la forza di superare le nuove difficoltà e, circondata dagli affetti dei figli e dei numerosi nipoti, lavorò e visse nella casa di Camproso sino a pochi decenni fa ed ora finalmente riposa nel piccolo camposanto che, da un'altura sovrastante Campertogno, sembra vigilare e proteggere l'intero agglomerato urbano e la natura che lo circonda.

Osservando, peraltro, le montagne attorno a Camproso non si può ora fare a meno di notare anche le trasformazioni ambientali causate dalla nuova strada che si inerpica sino agli alpeggi di Meggiana dove, secondo le intenzioni, si sarebbero dovute sviluppare le attività agricolo-pastorali della zona. E ancora, più a Sud, sull'Alpe di Mera, si intravvedono altre ferite al paesaggio, originate dalla costruzione di un campo di golf destinato ad una riqualificazione "elitaria" degli antichi pascoli montani e ad una diversificazione "estiva" dello sfruttamento dei campi di sci invernali.

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La "Ca' d'la Pipina" è stata da poco ristrutturata internamente e dai vecchi vani pieni di ricordi sono stati ricavati quattro moderni appartamenti che si aprono nei mesi estivi e durante alcuni week-end, per ospitare i villeggianti giunti dalle città della pianura. Sull'antico tetto di "piode" svetta un'antenna televisiva e sulle finestrelle dell'ex-stalla fanno mostra di sè alcune tendine colorate.

L'oratorio di Sant'Antonio è desolatamente disadorno e abbandonato ed alcune rondini hanno costruito i nidi sotto le travi che ancora reggono il vecchio tetto. L'erba che cresce spontanea nel prato antistante la casa viene occasionalmente rasata dai più volonterosi fra i saltuari abitanti che, armati di un rumoroso tagliaerba elettrico, si arrabattano nel ruolo improvvisato di contadini. Così i bambini possono disseminare i loro giocattoli sul prato e godere, felici, dei pochi giorni di vacanza e di sole regalatigli dai genitori.

Sulla vicina strada statale continua incessante e fragoroso l'andirivieni di automezzi da e per l'alta valle, mentre, più in basso, scorre mormorando, sornione ed infido come al solito, il Sesia.

*** fine ***

46 - La stüva era il locale di abitazione per eccellenza; solitamente l'unico riscaldato durante i mesi invernali. (ritorna al testo)

47 - Era il pagliericcio comunemente usato in Valsesia da tempo immemorabile. Veniva preparato riempiendo un sacco di tela di canapa con foglie secche, solitamente di faggio. (ritorna al testo)

48 - Per una più completa trattazione della vicenda, ved.: Enzo Barbano, "Un brigante in Valsesia: Pietro Bangher", ed. Tipolinotipia Zanfa, Varallo, 1967. (ritorna al testo)

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