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"Una casa e quattro donne valsesiane"

Capitolo quarto

Angela

 

Il fenomeno della massiccia emigrazione valsesiana, forse tuttora non completamente chiarito nelle sue motivazioni intrinseche e certamente non giustificabile soltanto con argomentazioni di carattere puramente economico, aveva origini molto remote e sollecitava i giovani del posto a lasciare presto la valle per portare altrove la propria inventiva e la propria tenacia.

Federico Tonetti, nella sua accurata e monumentale "Storia della Vallesesia" ipotizza l'esistenza di un'emigrazione già in epoca romana, infatti:

"... ci fa conoscere Svetonio come dalla Gallia transpadana partissero frotte d'uomini sotto la condotta di un capo od impresaro per recarsi nelle terre dell'Umbria e della Sabina, e quivi prestare l'opera loro mediante un adequato salario. Niente ci impedisce di credere che quei lavoratori non partissero anche dai nostri monti, attirati dai guadagni possibili e spinti dai bisogni, al cui soddisfacimento non potevano bastare i prodotti dei luoghi natii, siccome al giorno d'oggi è tuttora usanza dei Valsesiani ..." (38).

In tempi più moderni la destinazione estera più ricorrente era la Francia, dove la presenza dei Valsesiani si esprimeva in una miriade di differenti attività, da quelle artistiche a quelle artigianali, sempre caratterizzate da un elevato grado di creatività e di laboriosità ma, anche, da un costante desiderio di ritorno nelle terre natie. Un poeta dialettale valsesiano, Raffaele Tosi, detto El Raffa, così dipinse, con una certa enfasi letteraria, questo spirito di attaccamento alle terre d'origine:

" Na tera pòvra, sconquassàa d'un vent

" ca struppa 'l pianti, j'erbi nòvi e ij fior,

" ma tantu cara al còr dl'emigrant

" cal vòo turneghi, par murii content ...(39)

Ancora, un altro poeta, Frigiolini, declamò:

" Rusijand' na crusta d'pan

" E la festa 'n po' d'furmaggiu

" I tir là da Valsesian,

" Povru sì, ma cun curaggiu:

" Ma si pens al fùgulée,

" Alla Sesia, al Mastallon,

" A ma stanta 'n po' passée,

" I sent sempri 'n gran magon!(40)

Infine, un acuto osservatore di cose valsesiane, M. Spanna, riferendosi alle tradizioni locali, scrisse:

"...Una buona mamma valsesiana, dando alla luce un maschio, pensa già che a quattordici o quindici anni dovrà avviarlo per il mondo; e, nell'educarlo, non perde mai di vista tale sua futura destinazione. Se nasce una femmina, invece, sa già che essa la aiuterà a lavorare la terra, fin quando si sposerà. E sposerà preferibilmente un giovane emigrato, serio, volonteroso, che la condurrà seco per un anno o due; e che un giorno la ricondurrà al paese con il primo nato o col nascituro, formando il primo nucleo di una nuova famiglia, che sarà il richiamo periodico del capo, nelle sue soste annuali del lavoro...".

Questa situazione fece sì che quasi in ogni famiglia vi fossero uno o più emigranti e che, ancor oggi, le strade della valle siano percorse, soprattutto nei periodi delle vacanze, da numerose autovetture con targa straniera, i cui passeggeri non sono in transito (la strada che sale dalla pianura termina, a Nord, ai piedi del Monte Rosa) o in semplice visita turistica, bensì diretti alle vecchie case dove si ritrovano le loro radici più profonde.

***

Proprio da uno di questi giovani Valsesiani, Pietro Prina, trasferitosi a Nantes per cercare fortuna come gessatore, venne alla luce nel 1825 una bimba, cui venne dato il nome di Angela. La giovane completò i suoi studi in Francia e all'età di 18 anni, rientrando in Valsesia con i genitori per una visita ai parenti, conobbe un giovane di Camproso e se ne innamorò.

La pur breve permanenza in Valsesia fu sufficiente perchè i due giovani si dessero subito un gran da fare nell'approfondire la reciproca conoscenza e così, durante una lunga passeggiata e una sosta al Colle della Meja (sovrastante Campertogno, in Valle Artogna) per raccogliere i mirtilli e per farsi raccontare la leggenda di Lino, la bella "Francesina" rimase incinta. La leggenda "galeotta", dice:

"..Lino, giovane e bel montanaro della vallata, s'innamorò di Jole, figlia di un imperatore romano, ma un'impresa di guerra in Africa lo costrinse a separarsi da lei. Qualche tempo dopo giunse a Roma la notizia della morte di Lino e Jole, disperata, si fece vestale. La notizia della morte risultò poi falsa e Lino tornò a Roma carico di gloria, ma Jole per lui ... era morta! Disperato tornò in valle e salì al monte della Meia, vivendo da anacoreta ed aspettando la morte. Quando questa giunse, una roccia per incanto assunse le sue sembianze per ricordarlo nei secoli. Il monolito da lontano rassomiglia infatti a un frate incapucciato con le braccia conserte in atteggiamento di preghiera..." (41).

La condizione delle giovani valsesiane, anche se idealizzata da vari Autori del tempo (ad esempio il Sottile, in un brano citato in precedenza) non era immune da pericoli e tentazioni, così che

"...d'ordinario allevate le figlie in una certa pochezza di cognizioni del mondo, ed in tal ristretta vita sociale, che quasi direbbesi segregata dalla convivenza coll'altro sesso, occupate d'ordinario al lavoro in luoghi romiti, ovvero insieme delle genitrici o di alcune compagne, crescono bensì d'indole affettuosa, ma in tale nescienza, da trovarsene parecchie non iniziate, anzi affatto ignare de' riti del cupidineo culto; a tal che per esse sarebbe ingiusta la famigliare querela, che sin dai primi lustri perduta sen vadi la verginale innocenza" (42).

Essendo stata educata in Francia, Angela teoricamente non avrebbe dovuto essere succube delle condizioni di "inferiorità culturale" in cui, secondo Girolamo Lana, si trovavano a quei tempi le giovani Valsesiane ma, tuttavia, seguì le sorti di molte delle sue coetanee, perdendo anch'essa la sua "verginale innocenza".

Il giovane che aveva approfittato delle grazie e della fiducia di Angela era Giuseppe Mattasoglio, uno dei figli di Marta De Marchi, il quale, poco dopo, non si sa se per amore o per pressante invito dei parenti, decise di convolare a nozze con la ragazza.

Alcuni mesi dopo, nel 1843, nacque un maschietto che i genitori si affrettarono a far battezzare col nome di Giovanni Emilio. La nascita del pargoletto riportò nella casa di Camproso maggiore serenità, facendo presto superare a Marta i momenti di collera e di imbarazzo che l'avevano assalita alla notizia del "pasticcio" causato da quel buono a nulla di suo figlio e dalla "Francesina". La "rejiôra", comunque, conservò sempre dentro di sé una certa delusione nei confronti di Giuseppe, che veniva spesso definito come uno che "l'è mia bùn da truvé l'âva an Sésia" (non è nemmeno capace di trovare l'acqua nel Sesia).

A tutto ciò si aggiunse anche il dispiacere causatole dall'altro figlio, Antonio, per la faccenda del debito nei confronti di Giovanni Badarello.

Tre anni dopo, Giuseppe, spinto dalla moglie ed attratto dalla prospettiva di una vita migliore per sé e per la sua famiglia, chiese ed ottenne, a sua volta, "un grazioso imprestito di 600 lire di Milano in bon argento al giusto corso dal signor Antonio Ferro di Lagnia (Alagna; n.d.a.)"; salutò quindi i parenti e lasciò la valle per cercare fortuna oltr'alpe. Girovagò qua e là per qualche anno in Francia, lavorando come gessatore e come fabbro, finché, con l'aiuto di suo fratello Antonio che l'aveva preceduto in Francia da qualche anno, ottenne una occupazione più conveniente a Saint Etienne. Trovò anche una casa al numero 15 di Rue Neuve, che acquistò, pagandola a rate, da un altro emigrante, di origine biellese, Domenico Savorelli, da tempo residente in Francia e il cui nome era stato ormai francesizzato in Dominique Savorelly.

Sistematosi in modo soddisfacente, Giuseppe si fece infine raggiungere dalla moglie e dal figlio e, così, la famigliola tornò ad essere unita. Il lavoro a Saint Etienne non mancava e consentiva di condurre una vita certamente migliore di quella offerta dalla valle d'origine. Giuseppe aveva ormai abbandonato l'iniziale mestiere di gessatore per specializzarsi nell'attività, ancor più redditizia, di fabbro e di lattoniere.

Dopo ben 14 anni dalla nascita del primo figlio i Mattasoglio misero al mondo un secondo pargolo, cui diedero il nome di Pietro.

Nel periodo della loro permanenza a Saint Etienne, Giuseppe, Angela ed i ragazzi, come d'abitudine, non mancarono di fare periodicamente visita ai parenti rimasti nella casa di Camproso.

Fra Angela, "cittadina" educata alla scuola francese, e Marta, contadina analfabeta di puro stampo valsesiano, si erano ormai instaurati ottimi rapporti, basati anche su una reciproca stima che derivava dalla constatazione di un comune attaccamento al lavoro e al risparmio. Angela, inoltre, al di là di un'apparente alterigia che le derivava da quel suo accento tipicamente straniero e da una frivolezza tutta francese, custodiva dentro di sé un carattere forte e volitivo che traeva origine dalle stesse radici che avevano forgiato la personalità della suocera.

In pratica era stata sempre Angela a spronare il marito Giuseppe, debole di carattere e perennemente insicuro di sé, a prendere le più importanti decisioni, dalla partenza per la Francia all'acquisto della casa a Saint Etienne, e così via. Queste doti contribuirono a far sì che, più tardi, nel suo testamento Marta ritenesse opportuno affidare ad Angela, e non a Giuseppe, l'eventuale tutela della parte dei beni ereditari che sarebbero spettati ai figli dello stesso Giuseppe.

Angela si preparava dunque ad assumere gradatamente il ruolo di "terza donna" della casa di Camproso, rappresentando una logica continuità di carattere con le altre donne che l'avevano preceduta.

Marta morì nel 1860, lasciando così libera la casa, ma il definitivo rientro in Italia di Angela e della sua famiglia dovette farsi attendere ancora per alcuni anni.

***

Nel 1862, all'età di 19 anni, il figlio maggiore di Angela e di Giuseppe, Giovanni Emilio, su sollecitazione della madre fu "messo a bottega" presso un maestro artigiano di Saint Etienne perchè, diversamente dall'attività paterna, imparasse il mestiere più qualificante di orologiaio. Per l'occasione fu stilato un documento, in carta bollata da 50 centesimi e in lingua - ovviamente - francese, che specificava le condizioni dell'apprendistato del ragazzo e che contemplava una serie di clausole che farebbero oggi gridare allo scandalo anche i più teneri fra i rappresentanti sindacali. Il documento così recita, nel suo testo originale e nel francese piuttosto approssimativo utilizzato dal suo estensore, l'orologiaio Alfonso Perriolat:

" Entre les soussignés,

M. Alphonse Perriolat horloger, démeurant à Saint Etienne, angle de la rue St. Jacque et de la petite place neuve d'une part

et M. Joseph Matasolio platices demeurant à Saint Etienne rue neuve n° 15 d'autre part

Il a été convenu ce qui suit

Le sieur Alphonse Perriolat consent à prendre en apprentissage pour quatre années entiéres et consécutives qui commenceront premier avril mil huit cent soixante deux et finiront à pareil jour de l'année 1866 le sieur Jean Matasolio agé de 19 ans aussi présent et acceptant fils mineur du dit sieur Joseph Matasolio avec lequel il demeure. S'engageant le dit sieur Perriolat à lui ensegner pendant les dites quatre années son métier d'horloges la théorie et la pratique du dit art et généralement tout ce qui le concerne.

De son côté le dit sieur Jean Matasolio fils, assisté de son père s'engage à travailler au profit du sieur Perriolat de lui obéir en tout ce quil lui commendera de licite et honnête (bontà sua!; n.d.a.), d'éviter de lui causer aucun dommage, enfin, de ne point s'absenter pendant les quatre années, ou dans ce cas, de rémplacer le temps d'absence aprés l'expiration de la durée de l'apprentissage.

Il est expréssement convenu que dans le cas où le sieur Jean Matasolio fils viendrait à quitter l'atélier avant la fin de l'apprentissage ou a résilier les présentes conventions le sieur Joseph Matasolio père devra payer à M. Alphonse Perriolat à titre d'indémnité la somme de quatre cent francs.

Ainsi convenu réciproquement accepté et promis être observé de bon foi, fait en double à Saint Etienne."

Non solo, quindi, il giovane Mattasoglio avrebbe dovuto lavorare per quattro anni senza poter godere di nessun permesso e senza alcun stipendio, ma se prima della scadenza del contratto - anche se soltanto pochi giorni prima - avesse deciso di cambiare idea e di andarsene, suo padre avrebbe dovuto rimborsare all'orologiaio una penale di 400 franchi. Ma quelle erano, evidentemente, le condizioni di lavoro suggerite dai tempi, e oggi possiamo soltanto prenderne atto con una certa tristezza e con la doverosa ammirazione anche per quei genitori che, considerate le loro condizioni economiche non certo floride, avevano accettato tali sacrifici pur di assicurare al figlio una promettente professione.

***

Seguendo la tradizione, non appena fu loro possibile Giuseppe ed Angela Mattasoglio, con il figlio minore Pietro, rientrarono in Valsesia, lasciando la casa di Saint Etienne alla famiglia di Antonio Mattasoglio ed andando ad abitare a Camproso.

L'altro figlio di Angela, Giovanni Emilio, ultimato l'apprendistato presso sieur Perriolat, aveva appunto iniziato l'attività di orologiaio e, spinto dal suo carattere ribelle ed avventuroso, si era trasferito addirittura nel lontano Brasile, scegliendo di aprire un laboratorio artigianale a Manaus, proprio nel cuore della foresta amazzonica, sulle rive del Rio delle Amazzoni. Gli affari, tutto sommato, non gli andavano tanto male, anche perché il giovane, dotato di molta intraprendenza e fantasia, non si limitava a riparare orologi, che forse non erano poi tanto numerosi a quel tempo in quella sperduta località sudamericana, ma commerciava un po' di tutto, anche importando vini dall'Italia ed inviando, di ritorno, sacchi di caffé brasiliano.

Non trascurando gli affetti, né gli affari con l'Italia, Giovanni Emilio tornava nella natia Valsesia all'incirca una volta all'anno, lasciando la gestione della sua "bottega" nelle mani di persone che riteneva fidate. Le sue visite in valle lasciavano sempre l'impronta di un carattere estroverso, attaccabrighe e, a suo modo, romantico.

Nel 1890, ad esempio, diede l'incarico al pittore Emiliano Giacobini(43) di restaurare il quadro dei Santi Antonio e Giacomo che si trovava nell'oratorio di S. Antonio abate; quella stessa cappella della prima metà del '600 che era stata acquistata nel 1806, assieme ad altri prati che la circondavano, dalla nonna, Maria Domenica (doc. N. 9). Il restauro costò trenta lire ed è un vero peccato che oggi si siano perse le tracce di quell'opera. L'oratorio, tuttora esistente, è da molto tempo sconsacrato ed ormai assolutamente disadorno. Di questa piccola cappella, che ripete nelle sue semplici forme la tradizione architettonica degli oratori e delle cappelle sparse un po' dovunque nella valle, non si trovano molte tracce nella documentazione della casa di Camproso ed è solo casualmente citato quale riferimento per le piante di noci esistenti nella porzione di prato retrostante(44). Con ogni probabilità, l'oratorio non costituiva un "bene" di gran valore e, come tale, era assolutamente trascurato nelle citazioni notarili e nelle liste delle proprietà di famiglia. D'altro canto, la costruzione dell'oratorio era certamente stata fatta a suo tempo dall'intera, seppur piccola, comunità di Camproso e, quindi, considerata un bene comune che, come per altre piccole cappelle della valle, esulava dalla giurisdizione dei beni più propriamente ecclesiastici. Non è escluso che al di sotto della spessa coltre di intonaco che ricopre le volte della cappella vi siano nascosti degli affreschi originali. Purtroppo la peste, che aveva inizialmente invaso il Milanese, aveva colpito nel 1630 anche parte della Valsesia, ed in particolare Campertogno, facendo numerose vittime e, per motivi igienici, vennero imbiancati con calce molti edifici, nascondendo così numerose opere d'arte.

Altre volte Giovanni Emilio entrò in lite con i vicini, soprattutto per talune divergenze sui confini dei terreni situati sulla riva del Sesia. Infatti, le frequenti piene che trascinavano rovinosamente a valle grandi massi e numerosi tronchi d'albero, talvolta cambiava l'assetto del letto del fiume, con la conseguenza che, una volta cessato il peggio, i proprietari dei prati esistenti sulle rive trovavano una certa difficoltà a riconoscere i termini delle loro stesse proprietà. Le discussioni circa i nuovi confini finivano sistematicamente davanti al Pretore di Scopa, con vertenze che, anche allora, duravano anni ed anni. Causidici, notai e agrimensori erano continuamente al lavoro per definire o dirimere le controversie, con emissione di pesanti parcelle, che, per quanto di sua competenza, la famiglia De Marchi-Mattasoglio conservò religiosamente fra le altre numerose carte.

***

E' del 1890 un altro atto, alquanto strano nel suo contenuto, che documenta la vendita di un prato, acquistato cinque anni prima dal padre di Giovanni Emilio, Giuseppe, e da quest'ultimo rivenduto appunto al figlio, per la somma di 200 lire. Si trattava, evidentemente, dell'unico appezzamento di terreno posseduto interamente dal padre, dopo che il riparto ereditario delle proprietà di Marta De Marchi aveva assegnato tutti i beni ai nipoti maschi ed aveva lasciato ai figli, e quindi anche a Giuseppe, la sola "legittima".

Ma ormai gli acquisti e le vendite delle varie proprietà, succedutisi ininterrottamente nei vari anni, non fanno più storia, rientrando per lo più nella normalità di un modus vivendi locale che comportava un continuo alternarsi di accumuli e di suddivisioni ereditarie, di accorpamenti e di frazionamenti, di sistemazioni confinarie e di liti, la cui esatta cronistoria non è più necessaria nel prosieguo della narrazione. A proposito delle abitudini in materia di contratti e di vertenze sulle proprietà immobiliari, e perorando l'opportunità che venisse nominato nella valle un "Giudice di pace" che evitasse il costoso ricorso ad avvocati e tribunali, il Canonico Sottile nei primi decenni dell'800 scriveva:

"In tutti i paesi poveri i contratti ordinariamente sono di poca entità, e si moltiplicano in proporzione della picciolezza delle fortune sempre esposte ad essere alterate e rovesciate dal minimo sinistro accidente. Una malattia, la morte di un padre, di un figlio, di un fratello, di un marito, sulla cui industria tutta era fondata la speranza di una famiglia, l'obbligano a spogliarsi di una porzione di fondi per convertirla in grano. Un poco di prodigalità, un vizio, la mancanza di lavoro, od un buon lavoro mal pagato, la mortalità delle bovine, un furto e simili accidenti portano la stessa conseguenza, onde ho udito dire più volte, che nel giro di cinquant'anni la Valsesia quasi tutta si vende e si rivende. Dalla molteplicità de' contratti nasce quella delle liti..."(45).

***

Giovanni Emilio, inspiegabilmente, non prese mai moglie, ma risulta che durante la sua permanenza in Brasile abbia convissuto per un certo tempo con una cantante di origine torinese, di nome Matilde Schiavinato, finita anch'essa, non si sa come, né perché, fra le zanzare e gli altri disagi del Rio delle Amazzoni. Questa donna era appunto una delle persone di fiducia a cui Giovanni Emilio lasciava la gestione degli affari durante i suoi viaggi in Italia.

Sul finire dell'800, la donna approfittò di una di queste assenze di Giovanni Emilio per porre termine alla sua trasferta brasiliana e rientrare in Europa, a Parigi, in compagnia di un altro curioso personaggio con cui si era prontamente accoppiata, Armando Melis Belgrano, scienziato, fotografo dilettante e, per l'anagrafe, semplice artigiano falegname.

La cantante liquidò in fretta e furia tutto ciò che si trovava nella bottega e fra le varie attività commerciali di Giovanni Emilio che, al suo ritorno in Brasile, si ritrovò completamente ripulito di ogni suo avere. Colpito negli affetti, nell'orgoglio e nel portafoglio, Giovanni Emilio si trasformò in un provetto investigatore e, dopo qualche tempo, riuscì a rintracciare l'indirizzo dove si era rifugiata la nuova coppia. Ma, nel frattempo, la bella Matilde non aveva perso tempo e, travolta dalle lusinghe della vita parigina, aveva in pochi mesi sperperato tutto quanto aveva ricavato dalla liquidazione dei beni del Mattasoglio. Poi, senza più un soldo ed in compagnia del suo amante, si era trasferita con le sue carte di musica, gli abiti di scena e le altre poche cose rimaste, nella sua natia Torino.

Giovanni Emilio riuscì a rintracciarla anche nella nuova residenza e, come nel suo stile tradizionale, avviò subito una serie di cause contro la Schiavinato ed il Melis, invischiandosi in vertenze civili e penali che lo ridussero letteralmente sul lastrico, prima ancora della conclusione delle cause stesse.

Tornato a Camproso, presso la madre Angela, squattrinato, avvilito ed incattivito più che mai, il Mattasoglio riprese le sue vertenze con i vicini, sinché, affetto dai postumi di una infezione tropicale contratta nel clima malsano di Manaus, nel luglio del 1903 si ammalò gravemente, ebbe il tempo di fare testamento e il 12 febbraio 1904, all'età di soli 51 anni, morì.

Era stato, indubbiamente, il personaggio più bizzarro ed eclettico della famiglia De Marchi-Mattasoglio e colui che aveva in un certo senso infranto una monotonia di comportamento che, alla lunga, avrebbe forse appiattito la sequenza dei personaggi succedutisi per più generazioni nella casa di Camproso.

In realtà, l'equilibrio tradizionale era già stato rotto, sul piano ambientale generale, dalla nuova dimensione che la Valsesia aveva assunto dal 1860 in poi anche con l'apertura della nuova strada e, sotto il profilo familiare, con l'entrata in scena della "Francese", madre di soli due figli, "erudita", estroversa, in un certo senso frivola e, certamente, anticonformista.

***

Con le ultime volontà di Giovanni Emilio, tutti i beni di famiglia passarono alla madre Angela, anche se le disposizioni testamentarie della nonna Marta sarebbero già state sufficienti a far sì che i beni non restassero nelle mani di Giuseppe Mattasoglio, padre di Giovanni Emilio e marito di Angela, al tempo ancora vivo, seppure ormai totalmente escluso da qualsiasi significativa presenza a causa anche dell'età avanzata e della salute malferma.

Dopo la morte del figlio, Angela si premurò di chiudere definitivamente le pendenze rimaste in essere a causa delle varie liti giudiziarie; pagò di tasca propria le parti che chiaramente avevano un minimo di ragione e raggiunse un accordo di transazione amichevole con la coppia Schiavinato-Melis, facendosi addirittura riconoscere la somma di 1300 lire.

Poco dopo passò a miglior vita anche il marito, Giuseppe Mattasoglio, ed il ciclo delle disgrazie si concluse con il decesso dell'altro figlio, Pietro, all'ancor giovane età di circa 40 anni. Ancora una volta, quindi, la casa di Camproso aveva portato sfortuna agli uomini, lasciando le donne, sole ed indiscusse "rejiôre" delle varie proprietà familiari.

***

Angela Prina vedova Mattasoglio visse sino al 1909 e, prima della sua dipartita, ebbe modo di redigere anch'essa un testamento, che assegnava tutte le proprietà rimastele ad una giovane donna di nome Giuseppina, che nulla aveva anagraficamente a che fare con la dinastia dei De Marchi-Mattasoglio, ma la cui storia, affascinante ed allo stesso tempo patetica, completerà il ciclo delle quattro donne della casa di Camproso.

***

38 - cfr.: F. Tonetti, op. citata, pag. 66. (ritorna al testo)

39 - "Una terra povera, sconquassata da un vento/ che sradica le piante, le erbe nuove e i fiori,/ ma tanto cara al cuore dell'emigrante/ che vuol tornarvici, per morire contento" Cfr.: P. Carlesi, op. citata, pag. 9. (ritorna al testo)

40 - "Rosicchiando una crosta di pane/ E nelle feste un poco di formaggio/ Vado avanti così, da Valsesiano,/ Povero sì, ma con coraggio:/ Ma se penso al focolare,/ Al Sesia, al Mastallone,/ Mi sento un poco mancare,/ E sento sempre una gran stretta al cuore!" Cfr.: E. Manni, op. citata (ritorna al testo)

41 - Il brano è stato tratto da P. Carlesi, op. citata, ed è riportato, con lievi varianti, da vari Autori. (ritorna al testo)

42 - cfr.: G. Lana, op. citata, pag. 52 (ritorna al testo)

43 - Un più famoso (e quasi omonimo, se non fosse per la "g" del nome) Emigliano Giacobini, pittore miniaturista di Campertogno, morì in Francia nel 1824. (ritorna al testo)

44 - Le piante di noci, diffuse ovunque nella valle, erano particolarmente apprezzate in quanto fornivano ottimo legname da opera, le noci (utilizzate per l'alimentazione diretta e per produrre l'olio, impiegato anche nei lum per l'illuminazione), nonchè coloranti per tintoria e per falegnameria. (ritorna al testo)

45 - cfr.: C. Sottile, op. citata, pag. 288 (ritorna al testo)

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