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"Una casa e quattro donne valsesiane"

 

Prefazione

 

Quel lungo solco tortuoso che penetra i monti del Piemonte orientale, incassato fra aspre giogaie, sempre più alte e incombenti fino alla barriera superba e insormontabile del Monte Rosa (e che sembra accogliere con riluttanza l'apporto di minori ma non meno anguste incisioni vallive) ha formato da sempre un cantone alpino a sè, chiuso, e non solo fisicamente, agli influssi delle valli e dei paesi vicini.

E' questa la Valsesia, a cui la struttura geologica e l'asprezza delle forme hanno negato quei fertili fondi alluvionali, quegli orizzonti ariosi e quegli agevoli valichi che sono tipici delle altre valli primarie delle nostre Alpi.

Se la natura è stata avara con la Valsesia, se non le ha affidato quella vitale funzione di naturale via di comunicazione fra gli opposti versanti del principale sistema montuoso d'Europa, essa ha indicato in questo appartato cantone alpino una sorta di rifugio, che, nei momenti più drammatici della storia europea e nelle costrizioni economiche da essi generati, ha richiamato qui piccole comunità umane emarginate, ribelli o comunque desiderose di libertà.

La storia di queste comunità è una storia minore, spesso sconosciuta, poco e male tramandata dai cronisti, legata, più che ai fatti clamorosi della storia paludata, alle vicende che da questa conseguono, a dispetto dei disegni e delle visioni strategiche dei grandi della terra.

Così, della fragorosa epopea romana qui giunsero echi umili: come la memoria di genti strappate alla valle natia per scalpellare le pietre nei cantieri dell'urbe imperiale. In Valsesia, non un arco, non un cippo miliare, non un'epigrafe marmorea. E bisogna scendere nel tempo, fino al Medio Evo dei feudatari, dei vescovi e dei Comuni per trovare solide vestigia di storia nei centri della bassa Valle, da Gattinara a Borgosesia a Varallo. Più a monte, solo citazioni notarili di pascoli, di boschi, di villaggi: pertinenze dei vescovi di Novara o Vercelli, dei conti di Biandrate, di monasteri o di signorotti locali.

E anche, a partire dal XIII secolo, testimonianze di quelle colonizzazioni dell'alta Valle che furono favorite da intese fra famiglie nobiliari e curie vescovili di entrambi i versanti alpini: Aosta e Sion, Novara e Briga. Di qui le migrazioni dei Walser, famiglie di contadini e pastori alemanni attraverso i valichi che contornano il massiccio del Rosa, a porre i primi insediamenti permanenti nelle testate delle valli meridionali, fra le quali, centrale, la Valsesia.

Ma il presidio umano della valle principale e di quelle minori era già iniziato da secoli: in una umile, faticosa, diuturna lotta per strappare alla montagna le risorse elementari per la sopravvivenza. I Walser delle valli più alte giunsero da nord quando da sud, dalla pianura padana, già erano penetrate altre comunità di contadini e di pastori, spingendo i loro greggi sugli alti alpeggi, diboscando e terrazzando i versanti più acclivi per ricavarne campi, costruendo case, mulattiere, sentieri, baite.

Un lungo oscuro evo privo di storia, durato per secoli e secoli, fu scandito soltanto dai ritmi della natura, dall'alternarsi delle stagioni, dalla ripetitiva quotidianità della fatica di uomini e d'animali.

Le comunità alloctone delle testate vallive (Alagna, Rimella, Carcoforo), scolte avanzate nei recessi più selvaggi della montagna, mantennero contatti con quelle delle valli vicine (Macugnaga, Gressoney) attraverso gli alti valichi del Turlo e d'Olen. E si tennero in qualche misura isolate, almeno culturalmente, nonostante la contiguità geografica e la stretta affinità dei modi di vita, da quelle di lingua lombardo-piemontese. Tutte si emanciparono, abbastanza precocemente, da ogni vassallaggio verso nobili, vescovi o tiranni.

La montagna, con le sue ferree leggi, accomunava i gruppi umani e dettava limiti alla stessa autonomia delle famiglie. La natura imponeva l'unione delle forze a vantaggio di ciascuno e di tutti. Forse, se le risorse fossero state più copiose, avrebbe suggerito leggi e statuti per la gestione comunitaria dei boschi e dei pascoli, come avvenne in altre valli alpine e come fu, ma su un piano di autonomia politica più che di sussistenza economica, per la comunità di Varallo, il centro naturale delle convalli valsesiane.

Una profonda unificazione culturale venne invece, qui come dovunque in Europa, dalla Chiesa. La vicenda clamorosa di Dolcino e della sua banda di eretici, cacciati dal Novarese e dal Biellese e asserragliati sulle nude balze della Parete Calva di Campertogno produsse i suoi episodi storici, le sue battaglie sanguinose e lasciò una traccia mai più spenta nella memoria e nell'epos valligiani. Dante vi dedicò una terzina nel canto XXVIII dell'Inferno. E dei Gazzari di fra Dolcino v'è un cenno in tutti i libri scolastici di storia italiana. Ma fu tutto.

Restituita l'ortodossia cattolica, la Chiesa fu sentita da allora come un cemento culturale e come custode delle tradizioni più vive del piccolo popolo valsesiano.

Tuttavia fu solo nel XVI secolo, quando si avvertì il primo consistente sviluppo demografico, che furono fondate nuove parrocchie nella Valgrande e nelle convalli della Sermenza e del Mastallone. E furono i registri parrocchiali a istituire per primi una tradizione scritta della vita valligiana e a far uscire la valle dall'indistinto grigiore di un'epoca astorica.

La luce della storia penetrò la Valsesia dei più vividi bagliori con la costruzione del Sacro Monte di Varallo: laboratorio d'arte e fucina di cultura che estese la sua sfera d'influenza ben al di là della valle con i nomi di Gaudenzio Ferrari e del Tanzio. La Controriforma disseminò la valle di oratorî e di cappelle, fin negli alpeggi più sperduti.

Ma già l'esplosione demografica seguita alle pestilenze del Seicento aveva rinvigorito un altro fenomeno, quello dell'emigrazione, che portò migliaia di Valsesiani in tutta Europa, sempre con mestieri qualificati e talora di grande prestigio. Gessatori, falegnami, fabbri, carpentieri, decoratori lavorarono in Francia, in Svizzera, in Germania e perfino in Russia, dove lasciarono impronte d'arte nelle decorazioni dei palazzi di San Pietroburgo. E intanto i Savoia sfruttavano, oltre ai boschi, le poche miniere della valle, come quelle d'oro e di rame di Alagna. Gli emigranti, che per lo più tornavano ogni inverno alla loro valle, vi portavano, oltre ai sudati redditi del loro lavoro, un'eco del grande mondo da cui la loro valle era stata così lungamente appartata. Ma non più di un'eco. E la Storia, con la "s" maiuscola, tornò a farsi sentire in Valsesia, solo con la traumatica divisione della valle operata da Napoleone Bonaparte, quando fissò il confine fra Regno d'Italia e Impero di Francia lungo il corso della Sesia: forzatura inaudita che lasciò nella memoria collettiva un segno non cancellato fino a tempi recenti.

Re e imperatori si alternavano, imponendo nuove leggi e balzelli; i confini si spostavano, le monete cambiavano, cambiava persino il computo del calendario: ma l'animo dei Valsesiani restava pervicacemente legato a una dimensione che non era dettata dalla storia, bensì dalla natura della loro valle, dall'attaccamento quasi disperato ai loro paesi, alle loro case, ai loro poveri prati, agli alpeggi. Risorse che, per quanto povere, erano la loro prima ragione di vita e per accrescere le quali, solo per questo fine, erano disposti agli inenarrabili sacrifici dell'emigrazione.

Si capisce allora come fino a pochissimi anni or sono (diciamo fino agli anni '70 del nostro secolo) chi venisse in Valsesia come viaggiatore, o turista o alpinista, richiamato dall'imponenza del Monte Rosa, o anche solo dalla selvaggia bellezza delle montagne che dal Rosa si diramano, restava meravigliato constatando la sopravvivenza - dietro le prime brutali innovazioni arrecate dalla moderna "civiltà" urbana - di un mondo antico, ancora fortemente ripiegato su se stesso, dove uomini e donne coltivavano ancora valori e interessi che il progresso aveva già spazzato via in gran parte d'Italia e d'Europa, comprese le più importanti valli alpine.

Si è detto - a torto - che i Valsesiani sono per natura conservatori, refrattari al progresso. In realtà essi hanno intuito nel progresso, prima e più che un'occasione di riscatto da un'antica povertà, un'insidia mortale alla loro identità culturale, al loro modo di essere diversi e liberi in un mondo che mira (non solo da decenni, ma quasi da due secoli) all'omologazione politica, economica e culturale di tutti i cittadini di una nazione. Ecco che allora, paradossalmente, l'antico, tenacissimo attaccamento alla "roba", tipico di ogni cultura contadina ma esasperato in Valsesia dalla povertà delle risorse, si traduce nel giro di pochi anni in una sorta di abdicazione alle tradizioni comuni, di resa individuale, senza condizioni, alle allettanti lusinghe della speculazione. Così all'abbandono ormai improrogabile dei poveri generi di vita agro-pastorali, si è accompagnata una palese disgregazione del tessuto sociale e la perdita, forse definitiva, dell'identità culturale di un'intera, ancorché ormai numericamente ridotta, comunità alpina.

Si dirà che è vicenda comune a tutte le cosiddette aree depresse del nostro Paese, al Sud come al Nord, nelle montagne come nelle campagne più emarginate. E si potrà anche aggiungere che questo sia il necessario scotto da pagare a un processo di generale sviluppo della società intera, passata in breve volgere di anni da una fase di povertà ad una di benessere e di progresso tecnologico. Ma la Valsesia, forse, poteva costituire un caso diverso: riuscire a coniugare la salvaguardia della sua identità culturale con l'armonico passaggio a quelle forme di economia più evolute, di cui l'imporsi del turismo (pur gestito con avvedutezza da alcuni imprenditori valligiani) avrebbe potuto costituire il veicolo, se non il meccanismo traente.

La Valsesia (si parla, ovviamente, della sua parte propriamente alpina, a monte di Varallo e dell'operosa fascia pedemontana) è stata forse tradita dal particolarismo dei suoi abitanti, aggravato dal processo di impoverimento e di invecchiamento demografico.

Quel carattere di isolamento geografico e culturale che aveva fatto della Valsesia più una terra di rifugio che di propulsione, si è trasformato in un fatto d'attrazione ed ha innescato un processo inverso che ha portato alla colonizzazione della valle da parte di migliaia di cittadini amanti della "natura incontaminata": che, di conseguenza, incontaminata non è certo più. E quello stesso atteggiamento mentale che l'isolamento aveva prodotto nei Valsesiani, per cui l'attaccamento alla valle, al paese, alla casa natale si era tradotto in un esasperato bisogno di possesso, alimentato dai proventi degli immigrati, ha finito per produrre l'espropriazione della terra, dei villaggi, delle case e la perdita della capacità di identificarsi nella piccola patria ormai snaturata.

Chi scrive questa presentazione non è certamente un laudator temporis acti. E del resto il libro che qui si presenta è un documento piuttosto spietato (dietro il garbo della vena narrativa) del cosiddetto "buon tempo antico".

Il merito di questo libro, nato dal casuale salvataggio dalla distruzione di documenti notarili conservati gelosamente nella soffitta di una vecchia casa valsesiana, è proprio quello di produrre una rappresentazione dal vivo di quello che per secoli ha significato essere Valsesiani, in un contesto ambientale severo, se non repulsivo e in un tessuto socio-economico fatto di povertà e di fatica, di sudore e di lacrime.

E' singolare, ma anche significativo, che questa azione di recupero di un brandello di storia valsesiana minore (per non dire minima) sia opera di uno dei tantissimi cittadini che hanno trovato (o anche solo creduto di trovare) in Valsesia un antidoto salutare ai ritmi stressanti del vivere moderno. Un milanese, sia pure di origine montanara, che opera in una posizione di prestigio all'interno di quel settore che si usa chiamare "terziario avanzato". Un manager, dunque, che è quotidianamente a contatto con i problemi economici e finanziari non solo del nostro, ma di molti altri Paesi, avanzati o in via di sviluppo. Un uomo così non poteva provare nostalgia per il "buon tempo andato". Ma ha saputo e sa nutrire un amore disinteressato per una sorta di piccola patria d'adozione, la Valsesia appunto, e coltivare quella curiosità intelligente e partecipe che ogni vero amore comporta verso il proprio oggetto. I poveri documenti salvati dal naufragio sono stati per lui come il messaggio ritrovato in mare nella classica bottiglia.

Un messaggio affascinante, una testimonianza cruda e dolente al tempo stesso, dalla quale, oltretutto, emergono quattro figure femminili che davvero meritavano di essere assunte a rappresentare generazioni di donne valsesiane che con il loro lavoro e il loro struggente attaccamento alla casa, hanno saputo reggere il peso di una lunga vicenda umana: portatrici inconsapevoli di una storia ai margini della storia.

Sono pochi oggi quelli che amano così la Valsesia, e per lo più non sono della valle. Quando qualcuno di essi ha tentato di indurre i Valsesiani a non svendere il loro patrimonio culturale, a gestire da soli il difficile passaggio ai nuovi tempi, è stato il più delle volte ignorato, se non pure osteggiato. Eppure si poteva fare. E forse ancor oggi è possibile riannodare il futuro della Valsesia ai valori del suo lungo oscuro passato. Testimonianze irripetibili di questi valori sono anche i documenti privati, conservati nelle cassapanche delle vecchie case. Bisogna saper fermare le mani che distruggono quei documenti e saper trarre da essi la lezione che ne ha tratto l'autore di questo libro.

Umberto Bonapace

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