Far San Michél
Angelo Peretti
Far San Michél
La fiera di San Michele a San Zeno di Montagna e le tradizioni dell'alpeggio e dei formaggi del Monte Baldo

San Michele e i formaggi del Baldo
C'è un filo sottile che accomuna la felicità delle vacche sulle malghe del Baldo, l'arcangelo guerriero amato dai Longobardi, il "far San Michél" e i formaggi della montagna veronese.

Ricordo una passeggiata al forte di Naole, sul Baldo. Eravamo sul finire d'agosto. Il tempo non prometteva molto di buono. La nebbiolina andava e veniva. Noi si camminava di passo svelto. Una vacca venne vicino al filo spinato, e poi un'altra. Ci guardavano, quasi sorprese del nostro affannoso passo. Sembravano placidamente felici. E a una simile affermazione potreste anche prendermi un po' per matto: a chi interessa mai della felicità d'un bovino? Eppure saperlo non è cosa da poco. E non per questioni animaliste. Piuttosto è importante per chi ama il latte e i formaggi.
L'appassionato della tradizione casearia non può neppure rinunciare a certi riti e miti che ancora sopravvivono in terra baldense. Come il "far San Michele". La mattina del 29 di settembre, giorno che il calendario della Chiesa dedica all'arcangelo Michele, a Prada Bassa, in comune di San Zeno di Montagna, quasi all'imboccatura della stradella che porta in Naole, si raduna una piccola folla. Si dice Messa nella chiesuola. E si fa mercato delle bestie.
Ma non è solo questo il "far San Michele". Se si trattasse soltanto d'una pur importante popolaresca mostra-mercato delle vacche, non si spiegherebbe il fascino arcaico che ha sulle genti della zona. C'è chi rinuncia a una giornata di lavoro per non mancare a San Michele. E a Pai, sulla riviera gardesana, ai piedi di San Zeno di Montagna, c'è un albergo che ogni anno chiude i battenti il 29 settembre, trasferendo i clienti in Prada. Per riaprire il giorno successivo. Una bizzarria? Per niente. Piuttosto una suggestione che sa d'antico.
Hanno sapore antico anche tre polente che sul Baldo si maritano ancora coi formaggi. Ormai non le fa quasi più nessuno. Ed è un peccato. Perché parlano d'altri tempi. Perché sono documenti di gastronomia remota. Perché raccontano di lontani peregrinari di genti fra le valli lombarde e il versante baldense che guarda a occidente, verso il fiordo azzurrissimo del tratto settentrionale del Garda, verso i monti della costa bresciana. Narrando di barconi carichi di vacche destinate all'alpeggio, zeppi di carbone e calce e legna provenienti dai fianchi del Baldo.
C'è un filo sottile che sul Baldo lega tutto questo: la tradizione dell'alpeggio, i simbolismi cristiani, il culto paganeggiante dell'arcangelo Michele, la felicità delle vacche, le polente col formaggio. E cercherò di parlarne in questo libricino.
In fondo è proprio come scrive Giorgio Gioco, maestro di chiunque in qualche modo s'occupi di mangiari veronesi: "Cosa ci fa dire un pezzetto di formaggio..."
Angelo Peretti
Sommario
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San Michele e i formaggi del Baldo
La fiera de San Michél
L'arcangelo guerriero
Le divinazioni di San Michele
I magnàri della fiera
Far San Michél
I culti sovrapposti
Il toro e le pàghe
San Michele e il toro
San Michél, i Santi Mòti e il Senturèl
La chiesetta in Prada Bassa
I porsèi di San Bartolomeo
La malga
Il bàito
L'alpeggio descritto dai botanici
Una giornata in malga
Il formaggio della vacca felice
I formaggi del Baldo
Il Monte Veronese
Le tipologie del Monte Veronese
Il Monte Veronese a latte intero
Il Monte Veronese d'allevo
La zona di produzione
Il Monte
Il Casàt gardesano
Il formaggio sott'olio
Le casatèle
Il formaggio del Baldo in tavola
Il formaggio fritto
Le polente caseate
La balòta
La polenta carbonéra
La polenta cónsa
Arlecchino e la polenta cónsa
Le ricette
Bibliografia

La fiera de San Michél
San Michele a Prada Bassa: una festa montana che segna tradizionalmente la conclusione del periodo dell'alpeggio sul Monte Baldo. Dal cargàr la montagna di maggio alla fiera di fine settembre.

A Maggio si caricano i monti. È il tempo di cargàr la montagna. Circa tremila tra vacche e manze vengono condotte sui pascoli del Monte Baldo. Durante tutta l'estate s'anima il mondo delle malghe montebaldine. Quella estiva è stagione d'alpeggio in terra baldense. E, pur con le dovute innovazioni, si seguono formule antiche. Come quella che vuole che l'alpeggio si concluda, improrogabilmente, in una data fissata da remote consuetudini: il 29 di settembre, giorno di San Michele. A sancire ogni anno, da secoli, il termine dell'alpeggio, è una festa montana ancora oggi ben viva: la festa del bestiame di San Michél in Prada Bassa.
Quanto sia antica questa fiera è difficile stabilirlo con certezza. Tutto fa supporre abbia radici lontane nel tempo. Del resto il culto di San Michele, caro a barbari e longobardi, si affermò nel settimo secolo, quando, come riferisce Silvana Zanolli, "la chiesa era impegnata a cancellare i residui pagani preesistenti tra le popolazioni". Michele è l'arcangelo guerriero che difende con la propria spada dalle insidie del demonio le anime al momento del giudizio. La sua festa, dice ancora la Zanolli, "sostituì i riti legati all'equinozio autunnale, dedicato, come quello primaverile, al Sole". Difficile comunque che la fiera di Prada risalga ad età così lontana. Soprattutto se San Michél è sempre stata festa per la chiusura dell'alpeggio. È stato infatti solo con la Serenissima Repubblica di Venezia che sul Baldo l'alpeggio venne organizzato e incentivato.
Sta di fatto che ancora adesso, come nei tempi andati, la fiera di Prada è il momento per il ritrovo dei montanari, dei malghesi. È l'occasione per trarre valutazione sugli esiti della stagione del pascolo. O per chiudere contratti, siglati sotto l'occhio vigile d'onnipresenti mediatori. Protagonista di San Michél è la gente della montagna. Ma è anche il bestiame, che viene esposto sui prati che stanno a lato d'un piccolo tempio romanico che si affaccia sul lago di Garda.

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L'arcangelo guerriero

Il culto di San Michele venne diffuso dai Longobardi. La tradizione cristiana lo onora come il comandante delle "milizie celesti", che combatte contro il serpente, simbolo del male.

San Michele è l'arcangelo guerriero. L'Apocalisse lo dipinge protagonista della "guerra nel cielo" che segnerà la fine dei tempi. Lo si onora come il comandante delle "milizie celesti". Se ne loda l'impeto di combattente contro il drago, il serpente antico, l'essenza stessa del male.
Nel cristianesimo orientale Michele fu venerato sin dai primissimi secoli. "Dall'Oriente la venerazione per l'arcangelo giunse in Occidente irradiandosi dalle zone a influsso bizantino" dice Alfredo Cattabiani. In Italia il culto dell'angelo soldato s'intensificò quando si sparse la voce della sua apparizione sul Gargano: erano gli ultimi anni del quinto secolo. I Longobardi ne diffusero la fama in altre terre, soprattutto in Lombardia. E la basilica del Gargano divenne il santuario più amato dalla nazione longobarda. Poi lo onorarono i Celti e gli Anglosassoni. Si costruirono templi in Francia e in Germania. Famosissimo quello di Mont-Saint-Michel.

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Le divinazioni di San Michele
Se la pioggia bagna le ali dell'arcangelo Michele, allora pioverà fino a Natale. Controprova: se non piove, sarà bello sino alle feste natalizie, per la felicità del pitocco. Lo stabilisce la saggezza popolare.

È festa autenticamente popolare quella che si tiene nel giorno di San Michele sui prati appresso alla chiesetta campestre di Prada Bassa.
Festa per la fine dell'alpeggio. Giorno di consuntivi. Ma anche di presagi. Di divinazioni sul tempo, che incomincia ad avere sapore d'autunno. "Come ogni festa collegata a un periodo critico, ovvero di trapasso dell'anno - a scrivere così è Cattabiani -, il 29 settembre indica secondo la tradizione popolare le condizioni metereologiche dei mesi successivi".
"Se a San Michél se bagna le àle, pióve fin a Nadàle", dice il proverbio. E in altre regioni si dice: "Quando l'angiolo si bagna le àle, piove sino a Natale". Se il 29 di settembre piove, insomma, continuerà a farlo fino a Natale. E le ali che si dovrebbero bagnare sono quelle dell'arcangelo.
La controprova la offre un altro proverbio. Afferma che "se a San Michél no se bagna le àle, farà bel tempo fin a Nadàle". E altrove: "È de' 'd San Michél s' l'è bon temp, i purét i starà aligramént". Insomma: niente freddo e pioggia per tutto l'inverno se il 29 di settembre fa bel tempo. Per l'allegrezza del pitocco, che non avrà a patir troppo dei rigori dell'inverno, con le bugànse che spaccano i piedi e i malanni che non lasciano tregua.
La pioggia e il sereno divinati nel nome dell'angiolo Michele. Nel segno del passaggio di stagione, del volgere del calendario. Con due diversi punti di vista di quella che vien detta saggezza popolare. Entrambi un po' troppo drastici. Ché poi il tempo fa quel che gli pare.

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I magnàri della fiera
Trippe in brodo e pìto coi capùsi: sono i rustici piatti del "far San Michél" in Prada Bassa. Le trippe vengono consumate già la mattina presto, subito dopo Messa. Il tacchino è in tavola a pranzo.

Sono trippe e pìto coi capùsi i magnàri del "far San Michél" in Prada Bassa. Niente formaggio? E per forza! Vorrete mica che i malghesi dopo mesi di monotona dieta di latte e formaggi celebrassero la loro fiera con lo stesso desinare di sempre! Il formaggio lo tengono magari per l'ultimo boccone, prima della gràspa, perché "la bóca no l'è stràca se no la sà da vàca".
E dunque avanti con le trippe in brodo, consumate la mattina presto, subito dopo Messa, magari per suggellare il contratto appena stipulato. Accompagnando la scodella fumante con gòti di rosso asprigno.
Per pranzo, in trattoria, lì in Prada Bassa, fanno il pìto coi capùsi, il tacchino accompagnato dal cavolo stufato nell'aceto. E l'accostamento ha precise ragioni. Pìto e cavolo cappuccio appartenevano al mondo della malga.
Il tacchino lo si allevava per farci carne, certo, ma anche per tenere alla larga il pericolo delle vipere. La tradizione popolare assegna al pìto il ruolo di gran cacciatore di rettili. Lo si lasciava quindi libero di muoversi nei prati accanto ai bàiti, liberando il terreno dall'insidia della serpe velenosa. Ma a fine alpeggio il pìto aveva terminato il suo ruolo di difensore della malga: non più utile come sentinella, prima di lasciare il bàito gli si doveva tirare il collo. Per mangiarlo a San Michél.
I capùsi erano l'ortaggio più coltivato nei piccoli orti accanto ai bàiti. Anche se temono la gelata, i cavoli cappucci reggono benissimo il clima freddo: cosa di meglio piantare negli orticelli in quota, dove non è raro che anche in piena estate le temperature s'abbassino d'improvviso? E poi sono facilmente conservabili, qualità di grande rilievo ai tempi in cui riempire la dispensa era ragione di vita o di morte. Li si mangiava dunque in parte crudi, in insalata, tagliati fini fini, oppure ci si potevano fare i crauti, sapido contorno per i salumi cotti (il cotechino, la salamella), o li si stufava nell'aceto, per metterli accanto alle costine di porco cotte sulla griglia o per accostarli al pìto.
Per San Michél si mangia all'insegna della cucina rustica e robusta. Del resto Prada Bassa, così come la vicina Prada Alta (la prima è territorio di San Zeno di Montagna, l'altra è per la maggior parte nel comune di Brenzone), raccoglie un buon numero d'osterie e ristoranti vocati alla gastronomia montanara. Sapida, rustica. Sapori che tornano dal passato.

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Far San Michél
Non è solo la festa della chiusura del tempo dell'alpeggio: c'è uno strano, curioso legame che sembra accomunare la festività e il culto di San Michele con arcaici riti precristiani.

C'è un che di fascinosamente antico nella fiera del bestiame che si tiene a Prada nel giorno di San Michele. Suggestioni che parlano di ritualità arcaiche. Eppure ancora in qualche modo quasi indelebili nel dna delle genti del posto.
Quello del "far San Michél" è un rito impresso a fuoco nella tradizione del Baldo. E chissà quanti e quali significati aveva nei tempi passati.
Il "far San Michele" del Baldo aveva e in qualche modo continua ad avere la valenza antica della chiusura del contratto d'affitto delle malghe, il trasferimento delle vacche dai pascoli alla pianura o alla stalla. Così come il "far San Martino" ha assunto nei secoli il ruolo di momento chiave del calendario contadino: il giorno del rinnovo dei contratti, appunto, o del trasloco delle famiglie che cambiavano di cascina, cercando di che tirare avanti altrove.
Ma non solo. C'è uno strano legame che lega il San Michele dei cristiani ad arcaiche divinità pagane. A un dio della tradizione ellenistica, in particolare: Mithra. Ed uno dei simboli mithratici era il toro. Era infatti dal sacrificio del toro sgozzato da Mithra, divinità solare, che si voleva avessero avuto origini gli animali e le piante utili all'uomo. Che sia proprio azzardato dire che il "far San Michele" di Prada con la sua fiera del bestiame assume un curioso legame con queste antiche simbologie precristiane del toro mithratico?

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I culti sovrapposti
Molte feste cristiane si sono sovrapposte a riti pagani. Su San Michele sembrano essersi sedimentate le funzioni di mediazione stagionale che la tradizione ellenistica attribuiva a Mithra.

Com'è noto, molte feste cristiane sono sovrapposizioni di preesistenti culti pagani sedimentati nell'arco dei secoli o dei millenni. E molti santi del calendario avrebbero ereditato attributi che erano tipici di divinità precristiane.
Sulla figura del San Michele si sarebbero concentrate le funzioni anticamente attribuite a Mithra. Funzioni legate al passaggio della stagione, al mutamento dei cicli solari. "In epoca ellenistica l'equinozio autunnale, come quello primaverile - scrive Cattabiani -, era consacrato a Mithra-Sole, considerato demiurgo e kosmokràtor, signore e animatore del cosmo, la cui funzione era simboleggiata da una sfera che teneva in mano; ma anche mediatore cosmico e dunque per tanti aspetti analogo a Hermes-Mercurio".
Molte delle prerogative equinoziali e mediatrici di Mithra sarebbero passate in epoca cristiana alla figura di San Michele, "la cui festa cade in Occidente nel periodo immediatamente successivo all'equinozio, ma ad esso analogo simbolicamente perché segna nelle campagne la fine della stagione luminosa e calda". Si tratta insomma di una festa "collegata a un periodo critico, ovvero di trapasso dell'anno". E l'anno era quello del calendario contadino. Tanto più che in alcune regioni vi era la consuetudine di far scadere i contratti d'affitto proprio nel giorno di San Michele, così come altrove si ricorreva alla scadenza di San Martino. E "far San Michele" o "far San Martino" sono modi di dire che significano tuttora, il trasloco o la partenza.

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Il toro e le pàghe
I contratti d'affitto delle malghe hanno un singolare parametro di riferimento: la pàga, che varia di entità a seconda della grandezza dei capi. Solo il toro è esente, ma portarlo in malga l'è come imprestar le scarpe a balar.

A San Michele di parla di pàghe. Si chiudono cioè i contratti d'alpeggio, che hanno un'unità di misura tutta speciale: la pàga, appunto. Il calcolo è complicato e controverso. Ad esempio, le vacche e le manze che entro il 29 di giugno abbiano compiuto i due anni rappresentano una pàga ciascuna. I bovini di meno di due anni contano mezza pàga. I vitelli da meno di un anno equivalgono a un quarto di pàga. Gli equini sono una pàga. Ovini e caprini un ottavo di pàga se di piccola taglia, oppure un quinto di pàga se più grossi. Solo il toro è esente. "Ma il più vecchio della malga - ha osservato Giorgio Gioco narrando di una sua giornata sul Baldo - mi diceva che non è un affare parar el toro in montagna: 'L'è come imprestar via le scarpe a balar'. Le scarpe ritornano sicuramente consumate e sformate, il toro altrettanto sfiancato per le troppe attenzioni rivolte a la vacheta da le mace more".

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San Michele e il toro
La simbologia taurina è passata dal culto mithratico alla devozione di San Michele arcangelo. Cominciò quella volta che il signore del Gargano scoccò una freccia verso la caverna in cui s'era rifugiato un torello...

Il toro è importante a San Michél. Non solo per questioni di pàghe esenti. Perché la simbologia taurina è trasmigrata da Mithra a San Michele. E ne abbiamo testimonianza nella leggendaria narrazione delle origini dei due santuari più celebri fra i tanti dedicati all'arcangelo in Italia e in Europa: quelli del Gargano e di Mont-Saint-Michel.
La tradizione vuole che il tempio del Gargano sia nato sulla caverna in cui s'era rifugiato un toro sfuggito alle mandrie di Elvio Emanuele, signore di quelle terre. Questi avrebbe scoccato una freccia in direzione della grotta in cui era nascosta la bestia. Ma il dardo sarebbe tornato indietro, ferendo il lanciatore. Di fronte a un simile prodigio San Lorenzo Maiorano, vescovo di Siponto, avrebbe ordinato tre giorni di digiuno. Poi gli sarebbe apparso San Michele dicendogli d'aver scelto proprio quella caverna come santuario.
Un'origine leggendaria c'è anche per il famosissimo, splendido santuario di Mont-Saint-Michel, che nei periodi d'alta marea resta isolato nelle acque del mare. In questo caso si racconta che l'arcangelo Michele sarebbe apparso a Sant'Auberto, vescovo di Avranches, ordinandogli di fondare una chiesa in suo onore nel luogo esatto dove avrebbe trovato un toro nascosto dai ladri. E così avvenne, almeno secondo il mito.
Curiosi, suggestivi, per certi versi anche inquietanti legami uniscono il "far San Michele" della terra baldense con riti antichissimi, con tradizioni di cui resta solo labile traccia.

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San Michél, i Santi Mòti e il Senturèl

Tre feste tra sacro e profano a San Zeno di Montagna nell'arco di un mese. Si comincia coi Santi Mòti e si finisce con San Michél, passando attraverso la Madonna della Cintura e il Senturèl.

Non è solo la ritualità di San Michele ad essersi sedimentata nelle tradizioni sacro-profane di San Zeno di Montagna. Ci sono almeno altre due occasioni in cui la religiosità e la festa popolare s'intersecano, si fondono e si confondono. Il tutto concentrato in meno di un mese: dal 22 d'agosto sino al 29 di settembre.
La prima occasione è quella della festa dei Santi Mòti, il 22 d'agosto. Inutile andarli a cercare sul calendario della Chiesa: di Santi Mòti lì sopra non c'è nemmeno l'ombra. Eppure quasi tutta San Zeno di Montagna si ferma per onorarli. Con la più breve processione del mondo: fuori dalla chiesa, giro sul minuscolo sagrato, rientro.
In chiesa a San Zeno dei Santi Mòti si conservano anche le reliquie. Pare che a portarle sul Baldo sia stato un frate pellegrino nel Seicento. L'unica certezza è che nel 1767 le venerate ossa furono riposte nella nicchia in uso ancora oggi e che nel 1944 don Marcellino Faccio procurò l'attuale reliquiario.
I Santi Mòti sono in realtà Timoteo, Ippolito e Sinforiano, martiri dei primi secoli del cristianesimo. Si racconta che sul Baldo avrebbero fatto loro voto in occasione d'una epidemia. Siccome nelle giaculatorie il prete li menzionava in fretta uno in fila all'altro, la gente ha pensato d'andar per le spicce, abbreviando il nome del primo - San Timoteo - in funzione di tutti: da San-Timòti a Santi Mòti.
Nel pomeriggio della loro festa si fa la mini processione. Guai a perderla. Una volta, non si sa bene quando, s'era deciso di metter fine alla celebrazione annuale, ma il 22 d'agosto si scatenò un uragano che distrusse i raccolti. La festa venne immediatamente ripristinata.
Passano pochi giorni, ed è già ora della doppia festa della Madonna della Cintura e del Senturèl. Ancora nel doppio segno della sacralità mescolata con la ritualità profana.
La Madonna della Cintura la si onora la prima domenica di settembre, ed è ricorrenza religiosa. Il culto venne diffuso dagli agostiniani. Si racconta che Santa Monica, madre di Sant'Agostino, si rivolse alla Vergine, chiedendo quale abito mettere dopo la scomparsa del marito. Maria le apparve con le vesti indossate alla morte del sacro Figliolo: una lunga tunica nera e un manto dello stesso colore, un velo bianco sul capo e la cintura sui fianchi. Si tolse la cintura e ne fece dono a Monica.
Il giorno dopo è di turno il Senturèl, che di sacro non ha nulla. Si dice che tutto sia nato anni e anni fa dai reduci dei festeggiamenti mariani: dopo Messa era tutto un dentro e fuori dall'osteria. La notte la si passava dove capitava e al mattino ci si ritrovava per ricominciare. Si prendevano allora in mano le bocce e si cominciava un'interminabile partita lungo le strade sterrate del comune, facendo tappa in tutte le osterie. La curiosa, lunghissima e abbondantemente bagnata gara di bocce del Senturèl si svolge ancora oggi, coi contendenti che macinano chilometri e chilometri dietro al boccino. Spettatori ce ne sono pochi, ma non importa. Si va avanti sino alla resa. Per fatica o per gòti.
A fine mese è il turno di San Michél, con la Messa, le vacche in mostra, i gòti di vino e il pìto coi capùsi pronto in tavola. Ancora festa a mezza strada fra il sacro e il profano.

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La chiesetta in Prada Bassa

La chiesetta campestre di Prada Bassa è intitolata a San Bartolomeo: pare risalga al Cinquecento. Il santo è raffigurato sulla pala dell'altare, ai piedi della Vergine col Bambino.

Può sembrar curioso, ma la chiesetta in Prada Bassa presso la quale si fa la fiera di San Michele non è dedicata all'arcangelo. È intitolata invece a San Bartolomeo. Dedicazione peraltro anch'essa significativa per le genti dei monti.
La chiesetta è su un piccolo valico da sempre percorso da chi saliva dal lago verso i pascoli del Baldo. Pare risalga al Cinquecento. All'interno è modesta, sobria. Lo stile è quello che s'usa definire romanico-campestre. La pianta è rettangolare: c'è un'unica navata. Su un lato c'è una piccola sagrestia. Alle spalle c'è il campaniletto.
San Bartolomeo è raffigurato su una pala d'altare dentro la chiesa. È a lato di una Madonna col Bambino. A fargli da spalla nel vigilare la Vergine ed il divino Fanciullo è San Lorenzo.

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I porsèi di San Bartolomeo
L'inconografia cristiana rappresenta San Bartolomeo con in mano il coltello del martirio. La gente del Baldo gli affidava la protezione dei maiali, insostituibile fonte di sostentamento nel periodo invernale.

Della storia di Bartolomeo, il santo cui è intitolata la chiesetta di Prada Bassa, si hanno modestissime notizie. Fu uno degli Apostoli, e non è cosa da poco. Si dice sia stato martirizzato in maniera atroce: lo scorticarono vivo. Ecco perché l'iconografia cristiana lo dipinge col coltello in mano. E per questo è stato preso a simbolo e protettore dalla categoria dei macellai e dei conciatori.
Bartolomeo per le genti del Baldo è il santo dei maiali, dei porsèi. E non è accostamento inverecondo. Anzi: il maiale voleva dir molto per le famiglie contadine d'un tempo. Era l'unica riserva carnea in vista dei tempi grami della stagione invernale. La salute del porco significava la vita di molti.
Per proteggere il porco tanto prezioso, vitale fonte di sostentamento, si invocava l'intercessione di San Bartolomeo. Così attorno al 24 d'agosto, il giorno in cui il calendario della Chiesa ricorda appunto il santo apostolo, si facevano e si fanno sagre dei maiali. Ce n'è una il 23 a Pazzon, sulle pendici montebaldine alle spalle di Caprino. E un'altra il 24 alla Caorsa di Affi, sulle colline fra il Garda e il Baldo.
Logico che in terra montebaldina lo si venerasse, questo santo intercessore della salute del maiale. Perché in malga c'era sempre l'allevamento del porco. Gli si davano i sottoprodotti della caseificazione, la scotta e il latìn. Per ricavarci carne, salumi, lardo. Beni preziosissimi.
Va bene dunque San Michele, l'arcangelo della transizione dai giorni dell'alpeggio a quelli della valle, ma non si poteva certo dimenticare il Bartolomeo della maialatura. Così la fiera di San Michele e il tempietto di San Bartolomeo possono tranquillamente convivere. Quasi in un'unica celebrazione. Fra sacro e profano.

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La malga

La malga del Baldo è una struttura ampia e articolata che comprende pascolo, riserva, pozza e bàito. E poi ci sono la caséra, l'orto, il marès, il porsìl. Un grande patrimonio montebaldino.

Il cuore dell'alpeggio sul Baldo è la malga. Che ha poi significato di nome collettivo: si tratta infatti d'un appezzamento di terreno che comprende pascolo, pozza, riserva, bàito. E il bàito a sua volta si suddivide in lóghi, quello del làte e quello del fógo.
Fuori, accanto al bàito, c'erano il piccolo orto e il marès, lo spazio in cui veniva radunato il bestiame in attesa della mungitura. Poco lontano c'era talvolta la casèra (o casàra), la piccola costruzione destinata all'affinamento del formaggio, ma nei bàiti più moderni questa era spesso al pian terreno, accanto alla stalla. E un po' discosto dal bàito c'era qualche volta anche il porsìl, il porcile: è qui che si ingrassava il maiale con gli scarti della caseificazione. Per macellarlo e ricavarci carne fresca, lardo, salami, salamelle, cotechini, pancette. Il tastasàl per il risotto. E poi brigàldi (i sanguinacci) e torte de sàngue e òsi de pòrco da mangiare con la salsa pearà. E ancora sonsa da ungerci gli scarponi. E strutto per friggere.
Le malghe del Baldo sono situate in quella fascia montana che è compresa fra i mille e i millecinque-milleseicento metri d'altitudine. Fra i pascoli compaiono qui e là le pozze nelle quali viene raccolta l'acqua per l'abbeverata del bestiame. Poi ecco le fitte macchie d'abeti: le riserve, che sono delle specie di stalle a cielo aperto, destinate a ricoverare le vacche durante i temporali o nelle nottate. Oppure nei giorni di gran calura.
Il patrimonio delle malghe baldensi resta rilevante: sono cinquantaquattro sul Baldo veronese. Qualcuna è abbandonata. E in quasi tutte la tradizione della lavorazione del latte è pressoché scomparsa. Oggi lo si trasporta prevalentemente ai caseifici della pianura.

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Il bàito

Sembrano delle navi che solcano i pascoli: sono i bàiti, le tipiche costruzioni delle malghe del Monte Baldo. Al loro interno ci sono i lóghi: quello per la conservazione del latte e quello per la caseificazione.

Il bàito è la tipica costruzione delle malghe baldensi. È costruito sui dossi, in posizione ventilata, ubicazione strategica per la conservazione del latte e la produzione del formaggio. Visto da lontano somiglia a una nave che solca il verde dei pascoli. La somiglianza è dovuta essenzialmente al tipico, suggestivo camino semicircolare: una vera e propria torretta. I muri sono di sassi calcarei: pietra locale. Il tetto è in làste di pietra, anch'esse prese sul posto.
Dentro al bàito ci sono in genere due locali, lóghi in dialetto. Sono il lógo del làte e il lógo del fógo. Come dicono i nomi, il primo è lo spazio destinato alla raccolta del latte, l'altro è quello che del grande camino per la caseificazione.
Il lógo del làte è dalla parte più ventilata dell'edificio, per favorire una migliore conservazione del latte dentro alle mastèle, larghi e bassi recipienti in legno. La lavorazione avveniva nel caminone del lógo del fógo. Il latte lo si caseificava nella caldéra, un grande paiolo di rame.
Se non c'era la càmara, il lógo del fógo serviva anche per il riposo dei malghesi. Dormivano sulle binèle, i loro poveri giacigli. Nei bàiti più recenti al lógo del làte e al lógo del fógo si sono aggiunte appunto la càmara e poi, al piano di sotto, la stalla per i vitelli più giovani o le vacche malate.

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L'alpeggio descritto dai botanici
L'alpeggio sul Baldo è ricordato già nel Cinquecento dal farmacista botanico veronese Francesco Calzolari. E agli inizi del Seicento il Pona illustra i primi miseri bàiti.

L'origine della malga baldense, intesa come sistema che raccoglie pascolo e bàito, non pare antichissima. "Nella sua espressione più collaudata - scrive il geografo Eugenio Turri - è il risultato della razionalizzazione dell'allevamento che inizia nel '700, in concomitanza con le trasformazioni in senso capitalistico dell'economia rurale".
Se la grande mutazione dell'alpeggio ha effetto nel Settecento, occorre osservare che già a quei tempi era comunque la ricorrenza di San Michele a segnare ogni anno, puntualmente, la conclusione del periodo dell'allevamento in aperta montagna. "Il Monte Baldo - scriveva il Pignolati nel 1773 in una relazione per l'Accademia di agricoltura di Verona -, oltre che gli altri pregi già noti de' molti, e rari semplici ricercati da bottanici, soministra copiosi, e fertili pascoli nella state a più milliaja di bestiame d'ogni sorta, i quali poi discendono al piano a S. Michele, ed una gran parte ne passa ad isvernare altrove, spezialmente sul Mantovano per mancanza di fieni nelle nostre pianure". Pascoli sfruttati per l'alpeggio, dunque, oltre che per la raccolta dei "semplici", ossia le erbe officinali destinate a curare le più varie malattie.
Era proprio per raccogliere e classificare le erbe cariche di virtù medicamentose che s'era avventurato sul Baldo nella seconda metà del Cinquecento anche Francesco Calzolari, farmacista delle "Due campane" di Verona. È autore d'un libretto rimasto nel mito baldense: il "Viaggio di Monte Baldo della magnifica città di Verona". Ma pur prestando attenzione soprattutto alla ricerca botanica, il Calzolari ci ha lasciato anche la memoria di un "numero grandissimo di greggi et armenti, che tutta la state vi vengono a pascere". Insomma: l'alpeggio era già diffuso in quel lontano 1566.
A quei tempi sui prati del Baldo non c'era ancora, come s'è detto, il complesso sistema della malga. Esistevano invece, fra i pascoli, casupole sparse, precarie, col tetto di paglia e frasche, addossate a qualche muricciolo, a una parete di roccia. Misere spelonche destinate a dare un po' di riparo quando il cielo si apriva in temporale. Ci si conservava il latte. Ed erano conosciute con quel nome di bàito che sarebbe poi passato a identificare gli edifici in pietra delle malghe. "In questo luogo - raccontava il Pona nel 1617 - sono alcune casucce di pastori fabricate di virgulti a soffianti venti esposte, et hanno di paglia i tetti, che sono da gli habitanti chiamate il baito, sotto le quali portasi, et si conserva il latte, et i pastori dalle piogge si difendono".
Anche Giovanni Pona, così come prima di lui il Calzolari, era stato spinto sul Baldo dalla passione botanica. Ma la sua descrizione della montagna è importante, come s'è visto, pure per le notizie lasciateci in tema d'alpeggio. "Quivi - annotava ancora il trattatista veronese - hanno pastura armenti, et greggi, et all'hora in particolare quando sono gli animali guidati alla montagna, et anco quando per gli eccessivi freddi dalle più alte sommità sono costretti a discendere; et questo acciò per la repentina venute del freddo non patiscano". Coi capi di bestiame che venivano fatti tornare a valle prima che l'inverno avesse il sopravvento. A San Michele.

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Una giornata in malga

"L'orologio in malga non conta": lo dice Giorgio Gioco, grande cuoco veronese, che ha narrato una giornata sul Baldo, coi ritmi dettati dalle esigenze del bestiame, "che non ti dà tregua".

Una giornata in malga l'ha raccontata anche Giorgio Gioco, chef e patron del celebre "12 Apostoli" di Verona, sul giornalino dell'associazione degli amici di San Zeno (un sodalizio che raccoglie i proprietari delle cosiddette "seconde case" che trascorrono le vacanze nel centro baldense). La narrazione comincia all'alba. Anzi, prima dell'alba. Alle tre del mattino. Con la partenza in motocicletta. Poi ecco l'arrivo sui pascoli. "Le mucche - scrive Gioco - si presentano spontaneamente all'appuntamento. Bepi e il suo cane l'è a torghe la olta alle bestie per la grande adunata della mungitura. Le mucche una per volta leccano la pietra del sale e, con l'occhio umido, mugghiano aspettando di essere accarezzate dai mungitori". Il latte poi passa nel bàito, dove si procede alla lavorazione. Con lenta fatica. Scrive Gioco: "L'orologio in malga non conta, tutto procede sul ritmo del bestiame che non ti dà tregua: mungitura, lavaggio degli attrezzi, raccolta della legna, accendere il fuoco e non è facile se il vento è dispettoso, controllare il bestiame che non deve sconfinare in altre zone o nel pericolo del vaio". Ritmi antichi. Oggi quasi impensabili.

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Il formaggio della vacca felice
I pascoli più ricchi garantiscono i migliori prodotti caseari. E poi non è provato che la felicità della vacca alteri la composizione del latte e quindi anche la qualità dei formaggi, ma...

Aprendo questo libretto, si parlava dell'importanza d'aver vacche felici. Il perché lo dicono le giornaliste britanniche Silvija Davidson e Sarah Freeman. "Non è provato che la felicità della vacca alteri la composizione del latte - hanno scritto -, ma di certo influisce sulla sua produttività; per questo le mungitrici erano proverbialmente calme e allegre, in quanto l'agitazione e il malumore potevano indurre la mucca a non dare latte". La felicità come ingrediente della produzione lattiero-casearia? E perché no?
Ad influire enormemente sulla qualità del latte e quindi dei formaggi che se ne traggono è anche l'alimentazione dell'animale. "Una gamma più ricca di piante darà il suo contributo allo spettro dei sapori; analogamente, c'è da prevedere che un pascolo permanente conferisca maggiore sapore di un prato che è stato seminato soltanto con una o due varietà che crescono rapidamente" sottolineano le due giornaliste. E il Baldo in questo è imbattibile: è o no questa montagna conosciuta da secoli come l'hortus Italiae, il giardino botanico d'Italia, per la sua grande varietà di specie floreali?
I pascoli del Baldo hanno davvero una straordinaria ricchezza di essenza vegetali. Per questo, come scrive Paolo Berni a proposito del Baldo, "i prati caratterizzati da specie arboree svariate, comprese erbe aromatiche e medicinali a cui il bestiame attinge liberamente il proprio nutrimento durante i circa quattro mesi dell'alpeggio, rappresentano una risorsa naturale di incomparabile valore". E il buongustaio quelle sfumature date dai diversi tipi d'erba o d'arbusto le avverte poi nei formaggi.

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I formaggi del Baldo
Monte Veronese, Monte, Casàt sott'olio, casatèle giovani e fragranti: è il ricco panorama della tradizione casearia del Monte Baldo, che meriterebbe di essere rivitalizzata.

Ma quali sono i formaggi del Baldo? O meglio, visto che la produzione è proprio ridotta al lumicino, quali erano quando non c'era bàito in cui non si facesse formaggio. E quali potrebbero essere se si tornerà, come ci si augura, a caseificare con maggiore assiduità?
L'intero, ampio tratto veronese del territorio baldense rientra nella zona di produzione del formaggio Monte Veronese dop. In realtà oggi quando si parla di Monte Veronese si fa generalmente riferimento pressoché alla sola realtà produttiva della Lessinia. Eppure non è stato un azzardo quello del legislatore che ha voluto anche il Baldo nella zona tipica. Perché dai bàiti baldensi di formaggio in passato ne è sempre arrivato. E il Monte era il primo della classe, il più importante.
Il monumentale volume dedicato ai formaggi dall'"Atlante dei prodotti tipici" dell'Istituto nazionale di sociologia rurale cita oggi cinque prodotti caseari per la zona del Baldo. Oltre alle due varietà di Monte Veronese, ci sono il Monte fresco e quello stagionato e poi il Casàt gardesano. Potremmo aggiungere le casatèle, delle specie di formaggelle giovani, da consumare magari condite con l'olio.

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Il Monte Veronese
Un gioiello tutelato dall'Unione europea: il Monte Veronese è fra stato fra i primi formaggi italiani ad essere riconosciuti col marchio dop, la denominazione d'origine protetta.

Il territorio del Baldo rientra nell'area di produzione del Monte Veronese, tutelato dalla denominazione di origine protetta dell'Unione europea. Si tratta di un formaggio a pasta semicotta, prodotto con latte di vacca. Oggi lo si fa prevalentemente in Lessinia, anche se il Baldo è nella zona tipica prevista dal disciplinare.
Si dice che sui Lessini le origini della tradizione casearia risalgano al Duecento, otto secoli fa. Sarebbe stato in quel periodo che un gruppo di coloni tedeschi provenienti dall'altopiano di Asiago avrebbe ottenuto in usufrutto delle terre sulla montagna veronese, nell'attuale Lessinia. Terre sino ad allora quasi disabitate. Quei pionieri erano i Cimbri ed avrebbero portato con sé le tecniche dell'attività casearia. C'è chi vorrebbe vedere nel popolo cimbro anche il primo colonizzatore del Baldo e d'alcuni trattai di costa gardesana, ma è storia di difficile sostenibilità
La denominazione Monte Veronese è abbastanza recente. È andata affiorando nel Novecento, affermandosi dopo l'ultima guerra. Prima il formaggio delle malghe veronesi lo si è venduto come "monte grasso" o come "monte vernengo" o ancora come "grasso di monte" sui mercati di Bergamo e Brescia, oltre che di Verona. "Di questa tradizione - scriveva Giovanni Capnist nel 1987 -, oggi rimane una produzione pregiata, che vede forme tipiche di formaggio 'grasso di monte' dalle caratteristiche di alimento sostanzioso, adatto anche alla media e lunga conservazione, alimento primario, per secoli, delle popolazioni locali e oggi riscoperto quale temibile concorrente di molti celebrati formaggi di altre zone montane". Una riscoperta che ha portato prima al conferimento della doc, la denominazione d'origine controllata, e poi della dop, la denominazione d'origine protetta.

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Le tipologie del Monte Veronese
A latte intero o parzialmente scremato: sono due le tipologie previste dal disciplinare del Monte Veronese dop. La prima è pronta in trenta giorni, la seconda matura dai novanta giorni ai sei mesi.

Il disciplinare di produzione del Monte Veronese a denominazione d'origine protetta prevede due varietà, che si diversificano per la tipologia di latte utilizzato e per la durata del periodo di stagionatura. Sono il Monte Veronese a latte intero, pronto in trenta giorni, e il Monte Veronese d'allevo, che viene fatto con latte parzialmente scremato e stagiona da un minimo di novanta giorni a un massimo di sei mesi. I buongustai lo distinguono poi in Monte giovane, mezzano e stagionato. Possibilmente servendosene una porzione di ciascun tipo. Abbinando le diverse stagionature a vini in crescendo di struttura. Qualcuno ama in particolare gli affinamenti molto prolungati. "È ai due anni di stagionatura che si completa, diventa autorevole, pronto a sostenere il confronto e gli apprezzamenti anche nell'ambito dei più sofisticati cenacoli" sosteneva Alberto Zucchetta sul finire degli anni Ottanta, ma di così lunga stagionatura è davvero difficile trovarlo.
Il Monte Veronese è davvero gran formaggio, e stagionato è straordinariamente fascinoso: "Basta una scheggia di questo formaggio, piccante e ardente - diceva lo scrittore Giovanni Comisso: è Giorgio Gioco a riferirlo - per sentire il profumo di una piccola valle di prima mattina oltre i mille metri. In esso scopri la genziana, i mirtilli, i cardi, i lamponi". Poesia. Garantita da un marchio apposito, quello del consorzio di tutela: fate attenzione che ci sia il logo dell'aquila in cima alla scala, quando comprate Monte Veronese.

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Il Monte Veronese a latte intero
Pasta bianca o di color paglierino, occhiatura minutissima, sapore delicato, tendenzialmente dolce: è il Monte Veronese tratto dal latte intero. Un prodotto di notevole pregio.

Il Monte Veronese dop tratto dal latte intero ha la pasta di colore bianco o leggermente paglierino. La tipica occhiatura è minuta e uniformemente diffusa. La crosta è sottile ed elastica: ha colore paglierino più o meno intenso. La forma è cilindrica, a facce quasi piatte, con uno scalzo leggermente convesso. Il peso di ciascuna forma è compreso fra i sette e i dieci chili. Il sapore è delicato e gradevole, tendenzialmente dolce.
Viene fatto esclusivamente con latte di vacca intero, proveniente da una o due mungiture consecutive. Il coagulo si ottiene usando caglio di pellette di vitello per una quindicina di minuti. La rottura della cagliata dura pochi secondi, finché i grumi abbiano raggiunto la dimensione d'un chicco di riso. Poi si passa al riscaldamento, fino a raggiungere una temperatura di cottura tra i 43 e i 45 gradi. La cottura si protrae per una decina di minuti. Poi la cagliata sosta in caldaia per una mezz'ora. Quindi c'è la salatura, a secco o in salamoia. La maturazione dura una trentina di giorni.
È indubbiamente un formaggio di pregio, "un prodotto di grande qualità - sono parole di Paolo Scotto - che si giova di un latte di particolare pregio dovuto al fatto che i pascoli, tutti esposti a mezzogiorno, presentano un manto erboso che si preserva per tempi superiori a quelli normali di alpeggio".

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Il Monte Veronese d'allevo
Lo si fa col latte parzialmente scremato. Con la stagionatura il Monte Veronese d'allevo si fa piccantino. Da gustare a scaglie o da affidare alla grattugia. Un formaggio quasi aristocratico.

Anche la pasta del Monte Veronese d'allevo è di colore bianco o leggermente paglierino. In genere è più bianca nel formaggio prodotto d'inverno e tende al giallo paglierino nella produzione estiva. L'occhiatura, poi, è sparsa e di norma di dimensioni attorno ai due o tre millimetri. La forma è cilindrica, a facce quasi piatte. Lo scalzo è leggermente convesso. Il peso varia fra i sei e i nove chili. La crosta è sottile ed elastica di colore paglierino più o meno intenso, ma si fa più dura e scura col procedere della stagionatura. La fragranza è quella tipica del formaggio stagionato. E non va dimenticato che il Monte Veronese d'allevo tende a farsi sempre più piccante (gradevolmente stuzzicante, inducendo alla beva di vini di razza e di passiti nobilissimi) con il protrarsi dell'affinamento.
"È usanza consumarlo fresco - diceva a fine anni Ottanta, prima della dop, Alberto Zucchetta - di tre mesi possibilmente, ma a sei è preferibile per quelle sfumature di sapore più sapido che lo rendono più 'aristocratico'". E il formaggio d'allevo a più protratta stagionatura è perfetto per essere gustato a scaglie, oppure lo si grattugia per insaporire la pasta.
Per la produzione del Monte Veronese d'allevo si utilizza latte di vacca parzialmente scremato, proveniente da una o due mungiture consecutive. Il coagulo si ottiene col caglio di pellette di vitello. La rottura della cagliata dura sinché i grumi somigliano a dei chicchi di riso: pochi minuti. Poi si passa al riscaldamento, raggiungendo una temperatura fra i 46 e i 48 gradi. La cottura prosegue per circa un quarto d'ora. Quindi c'è la sosta in caldaia per una trentina di minuti e la successiva salatura a secco o in salamoia. E comincia la stagionatura, che va dai sessanta giorni ai sei mesi.

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La zona di produzione

Comprende il Baldo, la Lessinia e il Garda: la zona di produzione del formaggio Monte Veronese è nella fascia settentrionale della provincia di Verona.

Per la produzione del formaggio Monte Veronese si utilizza il latte prodotto nella parte settentrionale della provincia di Verona. L'area di produzione è piuttosto ampia: comprende l'intera Lessinia e il Monte Baldo, includendo l'area del Garda orientale. Interessa in tutto o in parte il territorio di San Bonifacio, Soave, Colognola ai Colli, Mezzane di Sotto, Monteforte d'Alpone, Illasi, Cazzano di Tramigna, Caldiero, Montecchia di Crosara, Roncà, Lavagno, San Martino Buon Albergo, Verona, Bussolengo, Pescantina, San Pietro in Cariano, Sona, Castelnuovo del Garda, Pastrengo, Peschiera del Garda, Lazise, Bardolino, Garda, Cavaion Veronese, Affi, San Giovanni Ilarione, Tregnano, Badia Calavena, Vestenanuova, Selva di Progno, Velo Veronese, San Mauro di Saline, Grezzana, Cerro Veronese, Roverè Veronese, Bosco Chiesanuova, Erbezzo, Sant'Anna d'Alfaedo, Marano di Valpolicella, Negrar, Fumane, Sant'Ambrogio di Valpolicella, Dolcè, Rivoli Veronese, Costermano, Caprino Veronese, Ferrara di Monte Baldo, Brentino Belluno, Malcesine, Brenzone, San Zeno di Montagna e Torri del Benaco. La zona è delimitata così: partendo dall'inizio della strada statale numero 11 (la Padana Superiore) si entra nel comune di San Bonifacio, che viene attraversato, si passa per Villanova, si raggiunge San Martino Buon Albergo e San Michele, si attraversa Verona lungo la circonvallazione e si prosegue al km 297 della Croce Bianca sino a Caselle, terminando nel comune di Peschiera con i confini delle province di Verona e Brescia.

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Il Monte
Il Monte fatto nelle casére: fresco o stagionato, rappresenta una tradizione che ancora sopravvive qui e là sul Baldo, anche se la produzione ormai è davvero ridotta al lumicino.

Il volume dedicato ai formaggi dell'"Atlante dei prodotti tipici" dell'Istituto nazionale di sociologia rurale cita, oltre al Monte Veronese, anche due varietà di più generico Monte, indicando come zona di produzione: "Monte Baldo, comune di Malcesine". Si legge che il Monte "è il formaggio tipico del Monte Baldo, di cui sono rimasti oggi pochissimi produttori, tutti nel versante gardesano. Trattasi di agricoltori, a pieno o mezzo tempo, le cui strutture di supporto consistono in piccole casere, alquanto differenti dalle tipiche malghe".
Il Monte fresco lo si ricava per circa due terzi da latte di vacca intero e per la parte restante da latte parzialmente scremato per affioramento. Lo si può produrre in tutto l'arco dell'anno, escluso l'inverno. Il latte è quello delle vacche che hanno pascolato con erba fresca. Il formaggio matura in un paio di mesi in cantine fresche ed umide, dove le forme vengono rivoltate con regolarità. Non si effettua alcuna stagionatura. Al consumo, il Monte fresco si presenta con pasta bianco avorio o paglierino chiaro, compatta e contrassegnata da un'occhiatura minutissima. Il sapore è dolce, talvolta leggermente acidulo.
Il Monte stagionato nasce invece prevalentemente da parte scremato per affioramento, e in parte (circa un terzo del totale) da latte appena munto. Il latte è di vacche nutrite prevalentemente a fieno: è dunque produzione del periodo in cui le bestie sono in stalla, d'inverno o all'inizio della primavera. "Matura in due mesi, in cantina fresca e umida, dove le forme vengono pulite giornalmente con uno straccio e girate. Si raschiano una volta" precisa la ricerca dell'Insor. Avvertendo pure che la stagionatura si protrae per un anno circa: "Durante questo periodo, le forme vengono talvolta lavate con acqua tiepida e unte da 1 a 4 volte con olio di oliva bollente". Se riuscirete a procurarvene un po', dovreste trovarlo di pasta consistente, con occhiatura piccola e rada. Il colore è paglierino e il sapore tendenzialmente dolce e aromatico.

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Il Casàt gardesano
Il Casàt gardesano: lo censisce sul Baldo l'Atlante dell' Istituto nazionale di sociologia rurale. È un formaggio fresco sott'olio. Forse sarebbe meglio parlare di strachî sot'òio...

La ricerca dell'Insor sui prodotti caseari italiani per l'"Atlante dei prodotti tipici" ha censito per il versante occidentale del Monte Baldo anche un formaggio dal nome curioso: il Casàt gardesano. Si tratta di un formaggio tratto da latte vaccino intero o scremato, crudo. Non ha particolari tempi di stagionatura. E "si produce esclusivamente per autoconsumo".
In realtà, più che di Casàt gardesano si dovrebbe probabilmente parlare di strachî sot'òio o di formagèla sot'òio, oppure anche di casatèla sot'òio. Si tratta insomma di formaggio giovane di piccola pezzatura tagliato a cubetti e messo a macerare nell'olio d'oliva. Una tradizione ormai pressoché scomparsa. Ed è un peccato, perché si tratta di una vera e propria ghiottoneria.
Riportiamo comunque la tecnica di preparazione citata nell'"Atlante", sperando possa servire a stimolare qualcuno ad un ritorno a questo genere di produzioni. Si deve portare il latte crudo alla temperatura di coagulazione, aggiungendovi del caglio. A coagulazione avvenuta, la massa viene estratta e lavorata, ottenendo un disco piatto che si taglia a pezzi e si dispone su un'asse di legno. Si devono rigirare i pezzi di formaggio sinché in superficie non appaiono asciutti. Questo è il momento di passare al matrimonio con l'olio d'oliva. I pezzi di formaggio vengono infatti messi in vasi di vetro, aggiungendo l'olio sino a colmare il contenitore. Il vaso lo si pone in cantina al fresco e al buio per un mese almeno. Poi il formaggio sott'olio è pronto da mangiare. Una variante consiste nell'aggiungere all'olio e al formaggio anche delle foglie di alloro. C'era poi chi utilizzava pure del pepe. E Marino Marini in un suo volume sulla cucina bresciana parla anche di rosmarino.

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Il formaggio sott'olio
Formaggio giovane di malga conservato sott'olio: una ghiotta consuetudine gastronomica dell'area gardesana, che accomuna la sponda d'oriente e d'occidente. Sposando le fragranze della riviera con quelle della montagna.

Il riferimento alle pratiche tradizionali bresciane del formaggio sott'olio non sembri fuori luogo parlando di terra baldense. La cucina del versante gardesano del Baldo è fortemente influenzata dalla tradizione lombarda. Tanto che fra Brenzone, Malcesine e San Zeno di Montagna si ritrovano piatti tipici delle valli bresciane, pur in parte rivisitati e a volte anche con differente nome.
La formula bresciana proposta da Marino Marini vuole che per mettere sott'olio il formaggio "nostrano" di malga lo si tagli a cubetti, lo si sistemi in vasi di vetro o ceramica e che per ogni strato si aggiungano una foglia d'alloro, un rametto di rosmarino e un paio di grani di pepe. Quindi si versa l'olio e si conserva in cantina per due mesi. "È consigliabile usare il formaggio di settembre e consumarlo a Natale" avverte Marini.
Si tratta dunque d'una preparazione che sposa le produzione dell'agricoltura gardesano-baldense. La riviera dell'olivo va a braccetto con la montagna dell'alpeggio. Olio e formaggio, Garda e Baldo. "Il connubio olio d'oliva-formaggio - scrive l'Insor - sembra rispecchiare l'analoga fortunata sintesi fra ambienti naturali assai diversi, che l'area benacense vanta come sua caratteristica peculiare".

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Le casatèle
Formaggelle giovani da condire con olio, sale e pepe: un fresco piatto estivo. Se poi ci si unisce un po' di quella rughetta selvatica che cresce nei prati del Baldo...

Le chiamano casatèle. Sono formaggelle non molto grandi. Giovanissime: fanno solo dieci, quindici giorni d'affinamento. Caciottelle dolci. Sul Baldo le traggono dal latte dell'alpeggio. Oppure ce n'è buona produzione - da latte delle malghe e delle stalle del Baldo - al Centro lattiero caseario di Verona, che è nato agli inizi degli anni Settanta, rilevando però una struttura già attiva da una ventina d'anni.
Le casatelle provatele tagliate a fettine, condite con un filo d'olio extravergine della riviera gardesana, un pizzico di sale e una macinatina di pepe nero. Diventano un piatto estivo semplice e saporitissimo, un antipasto stuzzicante. Unendo i sapori del Garda a quelli del Baldo. Se poi avete avuto modo di fare una passeggiata in terra gardesano-baldense e avete raccolto un po' di quella rughetta che viene sul secco e che ha dunque foglie durette, ma piccantine, aggiungetela al vostro formaggio condito. Diventerà una specie di piatto da re, semplice, ma saporitissimo. Sapori rustici e netti, che sanno raccontare la rustica e quasi mediterranea ricchezza della loro terra d'origine.

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Il formaggio del Baldo in tavola
Con le marmellate, le mostarde e le confetture, oppure maritato alle polente: le molte maniere di gustare in tavola i formaggi delle malghe del Baldo.

Il Monte Veronese è senza dubbio un ottimo formaggio da tavola. "Classico sulla polenta", lo definisce Paolo Scotto, aggiungendo che "si presta bene, quando adeguatamente stagionato, anche all'uso di grattugia". È splendido metterlo in tavola di tre stagionature: il giovane, il mezzano, lo stagionato. Uniteci miele (di castagno e d'acacia), confetture e mostarde (di frutta, ma anche di verdure: eccellente la confettura di cipolla rossa o di pomodoro verde) e divertitevi nel gioco piacevolissimo degli accostamenti di sapori.
Ma il formaggio della montagna veronese può anche essere trasformato da ricette sapide, gustose, autenticamente popolari. Col Monte di più stagionature e le casatelle giovani di può fare la polenta carbonéra. Il Monte stagionato lo si grattugia sulla polenta cónsa, unendone la fragranza a quella dell'olio e del burro. Con la polenta e il formaggio giovane giovane si fa la balòta. La formaggella la si può friggere. Piatti da scaldar la pancia e il cuore.

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Il formaggio fritto
Era il nutrimento più ricco dei malghesi nella stagione dell'alpeggio: formaggio fritto nel burro. Una robusta, sapida variante alla monotonia quotidiana del pan e formàio.

Il formaggio era il nutrimento principale del malghese del Baldo. La sua era una dieta poverissima. Il pane si portava al monte e durava una settimana: Ci si nutriva principalmente con latte e i suoi derivati. Una variante alla monotonia del pane raffermo e del formàio a tocchi era il formaggio fritto nel burro. Piatto ricco, d'accordo. Non da tutti i giorni, ché il burro era bene prezioso, da usare con parsimonia per non toglierlo alla vendita. Piatto però robusto, di quelli da dar sazietà.
Chi non si pone problemi di dieta o di digestione, provi a farlo così: faccia sciogliere il burro (un etto per quattro persone) in padella, tagli a fette il formaggio (un etto e mezzo a testa per una bella cena) e ce le faccia friggere dentro. Semplice, ma saporito. Da fare all'aperto, perché appestereste la casa. Ah: ricordatevi di servire il formaggio fritto con la polenta calda. È piatto unico.

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Le polente caseate
Carbonéra, balòta, polenta cónsa: tre matrimoni fra polenta e formaggio narrano antiche storie di transumanze e di remote migrazioni di genti tra il Monte Baldo, le valli lombarde e la pianura veneta.

Sul Baldo la polenta va a nozze quattro volte col formaggio. Polenta e Monte, ovviamente, è abbinamento classico. Ma che dire della sontuosa rusticità della polenta carbonéra? Della sapida semplicità popolaresca della balòta. Del rito della polenta cónsa?
Carbonéra e balòta parlano lombardo. La polenta cónsa è di lingua veneta. Le prime due raccontano di antiche transumanze, di arcaici commerci valligiani. Narrano le gesta dei carbonai e dei taglialegna lombardi venuti a popolare il tratto settentrionale della riva d'oriente del Garda. Per sfruttarne i boschi immensi e impenetrabili. Per utilizzare i pascoli in quota. Si parla ancora dialetto bresciano e bergamasco a Brenzone e, più parzialmente, nelle terre vicine. Si mangia ancora lombardo nelle case, sposando polenta e formaggio.
Polenta e formaggio, in un connubio tipico della storia gastronomica italiana. Già all'epoca romana, infatti, quando il mais non lo si conosceva e si facevano delle "polentine" (il termine latino è "pultes") con farine di farro, di miglio o d'altro ancora, s'usava unirvi in cottura qualche altro ingrediente. "Le farinate romane - scrive Giulia Carazzali annotando un'edizione dell'"Arte culinaria" di Apicio - sono delle polentine fatte con semola, latte o acqua bollente e sale, ben mescolati, così da ottenere una pasta densa che si mangia col cucchiaio. Questa però è la preparazione di base perché, in genere, si versa in questa polentina un po' di tutto: piselli, ceci, carne, pollo, pesci freschi e conservati, erbe fini, ed altro ancora". E fra gli ingredienti aggiunti c'era anche il formaggio, per creare le polente "caseate", forse progenitrici di quelle baldensi e gardesane.

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La balòta
Un saporitissimo sandwich di polenta e formaggio giovane di malga: la gustosa e purtroppo quasi dimenticata balòta accomuna le tradizioni del Baldo e delle valli lombarde.

Tipica preparazione dei malghesi impegnati nell'alpeggio sui monti attorno al Garda, la balòta è un piatto semplicissimo che prevede l'utilizzo di un paio di fettine di polenta calda e un pezzetto di formaggio di malga, col perfezionamento della cottura da effettuare sulla graticola.
È presente nella tradizione sia del Monte Baldo che in quella di area bresciana, compresa la riviera. Proprio a proposito del Garda bresciano, Marcello Zane, introducendo un volume sulla cucina rivierasca, scrive che la polenta "una volta cotta e versata sulla tavola, viene tagliata col filo e formata con le mani a mo' di palla, avendo cura di immettere al centro un pezzo di formaggio, ottenendo il piatto detto balota. In questo modo essendo ancora il composto ben caldo, il formaggio prende presto a filare". Pellizzari la descrive come piatto della Val Sabbia. Nell'area dei laghi lombardi, inoltre, si consuma il balòt, identico alla balòta baldense e gardesana.

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La polenta carbonéra
Parente prossima della taràgna bresciana, la polenta carbonéra è la memoria dei tempi in cui i boschi del Baldo erano sfruttati da carbonai e taglialegna. Ammette una variante: l'uso, in cottura, della pasta di salame.

La polenta carbonàra - o carbonéra, come si dice in ampia parte del territorio di Brenzone - simboleggia quasi l'incontro gastronomico fra la riviera gardesana, contraddistinta dalla produzione olearia, e i pascoli baldensi, che forniscono il latte per rustici formaggi.
Si tratta di un forte, robusto, gustosissimo piatto unico, che ammette una variante: l'aggiunta o meno della salamella durante la cottura.
Certo non è il massimo della leggerezza e della digeribilità, ma merita senz'altro l'attenzione degli appassionati della cucina del territorio.
Probabilmente l'introduzione in area baldense della carbonéra è legata ai traffici intercorrenti fra le opposte sponde lombarde e venete, quando l'alto lago poteva comunicare solo per via d'acqua (la strada Gardesana orientale è degli anni Venti).
A testimonianza di quei traffici veneto-lombardi c'è il dialetto che si parla a Brenzone e Malcesine, ricco di inflessioni bresciane o addirittura bergamasche, ma anche questa polenta coi formaggi, parente prossima della polenta taràgna lombarda. Le somiglianze fra i due piatti sono infatti davvero molte, anche se sul Baldo non si discute la farina gialla, mentre nelle valli lombarde si predilige quella scura, di grano saraceno, da sola o mescolata con l'altra.
La cottura è lenta, coi pezzi di diversi formaggi che si fondono con la polenta. E poi eccola in tavola. Quel che rimane lo si può lasciar raffreddare per il giorno dopo, quando verrà abbrustolita sulla graticola, assumendo nuove sfumature di sapore.

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La polenta cónsa
Polenta condita con olio e formaggio grattugiato: la polenta cónsa è uno dei più semplici piatti della tradizione veneta. Cibo dei "villani che abitano nei confini, che determinano l'Italia dalla Germania".

Fra i classici della cucina contadina c'è la polenta condita con formaggio grattugiato e burro (od olio). "L'Italia - scrive Giorgio Gioco - è sempre stata un polo di grandi consumatori di formaggio e se noi del Nord... eravamo dei 'polentoni', è chiaro che le nostre polente bigie di grano saraceno, prima dell'arrivo del mais le accompagnavamo soprattutto col formaggio".
Polenta cónsa o consà la si chiama sulla riviera orientale del lago, dove la formula classica è quella veneta della polenta calda, appena fatta, in cui si incorpora un pezzo di burro fresco, facendo cadere sul tutto una nevicata di formàio da grattugia, oppure condendola con olio e formaggio grattugiato.
È un piatto diffusissimo in area padana, da sempre. Già da quando la polenta la si preparava con tutt'altra farina che quella gialla di mais.
Nei cinquecenteschi "Discorsi" del Mattiolo si legge che "i villani, che abitano nei confini, che determinano l'Italia dalla Germania, fanno della farina la polenta, la quale da poi che è cotta in una massa, la tagliano con un filo in larghe fette e sottili, e acconcianle in un piattello con cascio, e con butirro, et assai ingordamente se la mangiano".

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Arlecchino e la polenta cónsa
La polenta cónsa e il teatro: la ricetta di Rosaura per l'affamatissimo Arlecchino nella "Donna di garbo" di Carlo Goldoni.

Quando parliamo di classicità della polenta cónsa di tradizione veneta, possiamo rifarci anche a riferimento letterari. Come quello che si rintraccia nella "Donna di garbo" di Carlo Goldoni.
Rosaura dice ad un sempre affamatissimo Arlecchino: "Senti: aspetteremo che tutti sieno a letto, ed anche quel furbo di Brighella, ch'io non posso vedere; poi pian piano tutti e due ce ne anderemo in cucina. Io già avrò preparato il bisogno; onde del bello accenderemo il fuoco, empiremo una bellissima caldaia d'acqua, e la porremo sopra le fiamme. Quando l'acqua comincierà a mormorare, io prenderò di quell'ingrediente, in polvere bellissima come l'oro, chiamata farina gialla; e a poco a poco anderò fondendola nella caldaia, nella quale tu con una sapientissima verga andrai facendo dei circoli e delle linee. Quando la materia sarà condensata, la leveremo dal fuoco, e tutti e due di concerto, con un cucchiaio per uno, la faremo passare dalla caldaia ad un piatto. Vi cacceremo poi sopra di mano in mano un'abbondante porzione di fresco, giallo e delicato butirro, poi altrettanto grasso, giallo e ben grattato formaggio: e poi? e poi Arlecchino e Rosaura, uno da una parte, l'altro dall'altra, con una forcina in mano per cadauno, prenderemo due o tre bocconi in una volta di quella ben condizionata polenta e ne faremo una mangiata da imperadore; e poi? E poi preparerò un paio di fiaschi di dolcissimo, preziosissimo vino, e tutti e due ce li goderemo sino all'intiera consumazione. Che ti pare, Arlecchino, anderà bene così?". E non c'è dubbio che ad Arlecchino andava benissimo.

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Le ricette

La balòta

Ingredienti per 4 persone
8 fette di polenta abbastanza dura, quasi fredda
150-200 grammi di formaggio grasso di malga
4 cucchiai di olio extravergine d'oliva del Garda
parmigiano o formaggio grana grattugiato

Preparazione
Stendete quattro fette di polenta e cospargetele di formaggio di malga tagliato a scaglie.
Coprite con una fetta di polenta ciascuna delle fette già spolverizzate di formaggio grattugiato.
Prendete uno per volta questi "sandwich" e manipolateli formando delle palle che porrete sulla graticola, lasciandole abbrustolire per circa mezzora, girandole di tanto in tanto.
Servite le balòte di polenta cospargendole di formaggio grattugiato e irrorandole d'olio extravergine d'oliva.

La polenta carbonéra

Ingredienti per 4 persone
200 grammi di formaggi misti (dolci e piccanti), mezzo litro di olio extravergine d'oliva del Garda, sale, pepe, cannella, 200 grammi di farina gialla di granoturco, tre quarti di litro circa d'acqua, 10 grammi di sale grosso

Preparazione
Preparate una polenta facendo bollire l'acqua salata con un goccio d'olio e stemperando quindi la farina gialla.
Fatela cuocere per circa tre quarti d'ora, incorporando poco per volta i formaggi, che avrete precedentemente tagliato a dadolini e cosparso di pepe e cannella. Aggiungete quindi anche l'olio rimasto.
È importante continuare a mescolare la polenta durante la cottura.
A cottura completata, versate la polenta carbonéra in terrine singole.
Va consumata come sostanzioso piatto unico. Le fette di polenta rimaste, possono essere riscaldate successivamente sulla graticola.

La polenta cónsa

Ingredienti per 4 persone
200 grammi di farina gialla, tre quarti di litro di acqua, 10 grammi di sale grosso, 125 grammi di burro, 150 grammi di formaggio grattugiato, olio extravergine d'oliva del Garda, sale

Preparazione
Preparate una polenta facendo bollire l'acqua salata con un goccio d'olio e stemperandovi quindi la farina gialla. Cuocetela per circa tre quarti d'ora. Incorporatevi quindi metà del burro a fiocchi.
Rovesciate la polenta sul tagliere (panàra), copritela con un panno umido e lasciatela intiepidire. Tagliatela poi a fette, disponetela nei piatti, spolverizzatela col formaggio grattugiato e conditela con burro fuso od olio extravergine di oliva.

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Bibliografia

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