LE
IMMAGINI
DELLA
MEMORIA:
l'utopia
della
libertà
e
la
realtà
dell'oppressione
nelle
Insorgenze
antigiacobine
italiane
PANNELLO
INTRODUTTIVO
L'identità
di
un
popolo,
la
sua
consapevolezza,
il
suo
orgoglio
passano
attraverso
la
valorizzazione
della
sua
memoria
storica,
attraverso
il
riconoscimento
di
una
esperienza
acquisita
dalla
conoscenza
della
storia.
L'esperienza
della
storia
insegna
non
solo
il
passato,
ma
il
futuro.
E'
però
necessario
leggere
la
storia
attenti
a
non
entrare
nella
spirale
dei
luoghi
comuni,
delle
interpretazioni
forzate
che
vedono
la
verità
solo
dalla
parte
dei
vincitori,
dimenticando
l'universo
di
chi
è
stato
vinto
ma
ha
combattuto,
ed
è
morto,
in
nome
della
sua
religione,
della
sua
tradizione,
della
sua
cultura,
della
sua
terra.
Così
è
stato
in
Francia
nel
1789,
come
in
Italia,
dieci
anni
dopo.
I
vandeani
come
i
sanfedisti,
i
toscani
come
i
lucani,
hanno
intuito
il
significato
irriverente
e
blasfemo
dei
simboli
portati
dalla
rivoluzione,
di
quegli
alberi
della
Libertà
piantati
davanti
alle
loro
Chiese.
Quella
società,
fatta
di
popolo
e
terra,
di
casa
e
di
pane
che
stentava
a
comprendere
le
filosoferie
su
parole
lontane
come
Libertà,
uguaglianza,
fraternità,
ha
subito
colto
la
lampante
contraddizione
di
una
libertà
astratta
che
veniva
a
privarla
delle
piccole
libertà
di
ogni
giorno,
di
una
uguaglianza
apparente
che
mutava
solo
il
padrone
a
cui
obbedire,
di
una
fraternità
illusoria
nel
cui
nome
vedeva
massacrare
ogni
giorno
i
suoi
figli.
La
fine
del
mondo
antico,
segnata
dalla
decapitazione
dei
sovrani
di
Francia,
doveva,
nelle
intenzioni
dei
rivoluzionari,
rappresentare
la
vittoria
di
quella
società
secolarizzata,
fondata
sul
culto
della
Ragione,
dell'Uomo,
della
Natura.
Nei
decenni
che
hanno
preceduto
la
Rivoluzione
Francese
il
deismo
naturale,
il
culto
della
Natura,
l'esaltazione
dell'homo
triumphans,
caratterizzavano
il
pensiero
dell'Enciclopedismo
e
delle
logge
massoniche
che
sognavano
una
civiltà
tutta
umana,
basata
esclusivamente
sulla
ragione,
divinità
di
una
nuova
religione.
La
razionalità
della
Gnosis,
doveva
sostituirsi
alla
ingenua
credulità
della
Pistis,
la
fede.
Il
tentativo
di
imposizione
violenta
di
questo
nuovo
modello
di
società
animò
la
resistenza,
nel
1799,
come
nel
1806
e
dopo
l'unificazione
nel
1860.
La
storiografia
ufficiale
ricorda
gli
uomini
che
spontaneamente
si
opposero
a
questa
invasione
come
volgari
briganti,
,
"I
nostri
avversari
che
osano
chiamarsi
patrioti
abusando
le
parole
a
piaggiare
l'oppressore
...
ci
gridano
briganti".
Brigante
un
intero
popolo,
che
ha
scritto
con
il
suo
sacrificio
un'epica,
l'"epica
del
mondo
rurale"
e
della
sua
lotta
dimenticata.
Briganti,
o
meglio
insorgenti,
per
desiderio
di
riscatto,
di
affermazione
di
un
mondo
e
dei
valori
che
lo
hanno
guidato
da
sempre.
Contrapposti
a
loro,
i
rivoluzionari
francesi
e
l'élite
giacobina
italiana
portatori
di
una
visione
del
mondo
completamente
antitetica
a
quella
del
Trono
e
dell'Altare.
Appare
evidente
la
contraddizione
in
cui
è
caduta
la
storiografia
filo-rivoluzionaria,
liberale
o
marxista,
che
non
ha
tenuto
conto
del
paradosso
di
un
popolo
all'opposizione,
di
un
popolo
che
combatte
la
rivoluzione
emancipatrice.
Solo
superando
la
limitante
ipoteca
ideologico-politica
che
pesa
su
questa
storiografia,
e
analizzando
non
aprioristicamente
la
storia
delle
Insorgenze,
potremo
liberare
la
memoria
dal
servilismo
dell'utopia.
Se
la
storia
-
che
nel
suo
statuto
ontologico
e
nella
sua
premessa
metodologica
è
attenzione
alla
verità
dei
fatti
-
viene
letta
attraverso
le
lenti
faziose
di
una
cattiva
ideologia,
risulta
inevitabilmente
deformata
ad
uso
e
consumo
del
presente.
Diventa
strumentale
ad
interpretazioni
politiche
e
alla
salvaguardia
di
una
tesi
pregiudiziale,
che
non
tiene
in
nessun
conto,
quando
non
falsifica
apertamente,
gli
avvenimenti.
E'
quanto
accade
con
la
storia
delle
Insorgenze.
L'evidenza
dei
fatti
è
stata
prima
negata,
o
rifiutata,
adesso
abilmente
manipolata
e
falsificata
da
una
storiografia
faziosa
e
ideologicamente
avversa
il
cui
scopo
è
quello
di
ridurre
il
fenomeno
a
lotta
sociale
e
municipalistica,
scatenata
dal
cattivo
comportamento
delle
truppe
francesi.
Di
negarne
il
carattere
unitario,
descrivendo
solo
pochi
episodi
circoscritti
e
delimitati,
indipendenti
gli
uni
dagli
altri,
volutamente
tacendo
il
carattere
e
la
rilevanza
nazionale
dell'Insorgenza
e,
soprattutto,
la
motivazione
religiosa
che
ne
costituisce
la
base
fondante.
Francesco
Saverio
Nitti,
che
non
può
certo
essere
accusato
di
simpatie
sanfediste,
dimostra
chiaramente
l'intento
propagandistico
presente
in
molti
storici,
quando
scrive
"Il
cardinale
Ruffo
è
stato
descritto
come
un
ribaldo.
Egli
era
migliore
del
suo
re
e
della
sua
riputazione;
egli
fu
sotto
tutti
gli
aspetti
un
eroe.
[...
]
Noi
giudichiamo
gli
uomini
di
parte
nostra
in
un
modo,
e
gli
uomini
di
parte
avversa
in
un
altro.
Se
Ruffo
avesse
compiuto
la
stessa
impresa
per
scacciare
i
Borboni,
piuttosto
che
per
restaurarli,
se
avesse
l'eroica
e
crudele
impresa
compiuto
in
servizio
della
libertà,
egli
parrebbe
quasi
un
uomo
divino."
Il
percorso
tracciato
da
questa
mostra,
libero
sia
da
nostalgie
che
da
pregiudizi,
apre
uno
squarcio
in
quella
che
può
essere
definita
la
mitologia
storiografica
sulle
Insorgenze.
Con
una
attenzione
continua
alla
documentazione,
ai
fatti,
alle
cronache
locali,
alle
fonti
esistenti,
si
propone
di
ricostruire
una
memoria
storica
negata
che
accomuna
il
popolo
italiano,
sottolineando
la
rilevanza
nazionale
delle
Insorgenze,
pur
riservando
particolare
attenzione
alla
riconquista
borbonica
del
Regno
di
Napoli
da
parte
delle
Armate
della
Santa
Fede,
guidate
dal
cardinale
Fabrizio
Ruffo.
Il
23
gennaio
1799
i
giacobini
francesi
occuparono
militarmente
Napoli.
La
città
che
avrebbe
dovuto
vederli
come
liberatori,
al
contrario
armò
sedicimila
uomini,
che
disputarono
palmo
a
palmo
ogni
via,
difesero
ogni
casa
"in
una
lotta
disperata".
Sono
i
lazzaroni,
il
popolo
di
Napoli,
il
"popolo
di
Dio".
Questi
uomini
offesi
e
ignoranti,
stretti
alle
spalle
dai
giacobini
napoletani
che
da
Santelmo
li
tradiscono
e
di
fronte
dalle
baionette
dei
francesi,
sono
pronti
a
morire
per
la
propria
terra,
la
propria
famiglia,
il
proprio
Re,
il
proprio
Dio
come
i
contadini
vandeani,
veronesi
o
toscani:
"Quando
i
reggitori
della
Repubblica
di
San
Marco,
tremanti
di
paura
alle
minacce
francesi,
strappavano
le
gloriose
insegne
del
leone
alato,
e
supplicavano
pace,
i
contadini
del
Veronese,
gridavano
Viva
San
Marco!
e
morivano
per
esso
in
quelle
Pasque
che
rinnovarono
i
Vespri.
Quando,
sotto
il
cumulo
di
umiliazioni
patite
da
prepotenti
francesi
e
da
giacobini
paesani,
Carlo
Emanuele
avvilito
abbandonava
Torino,
i
montanari
delle
Alpi,
i
contadini
piemontesi
e
monferrini,
continuavano
disperatamente
la
resistenza
allo
straniero.
Quando
nella
Lombardia
gli
Austriaci
si
ritiravano
incalzati
dai
Francesi,
i
contadini
lombardi
a
Como,
a
Varese,
a
Binasco,
a
Pavia,
osavano
ribellarsi
al
vittorioso
esercito
del
Bonaparte
sfidando
la
ferocia
della
sua
vendetta.
Quando
il
mite
Ferdinando
III
di
Toscana
era
licenziato
dai
nuovi
padroni,
e
i
nobili
fuggivano,
e
i
Girella,
democratici
improvvisati,
venivano
fuori
con
la
coccarda
tricolore,
i
contadini
toscani
insorgevano
al
grido
di
Viva
Maria!
Quando
nelle
Marche
scappavano
generali
e
soldati
pontifici
e
il
vecchio
Pontefice
arrestato
era
condotto
via
da
Roma
sua,
non
i
Principi
cattolici
osarono
protestare,
non
Roma
papale
insorse,
ma
i
contadini,
dai
monti
della
Sabina
alle
marine
marchigiane,
caddero
a
migliaia
per
la
loro
fede
e
per
il
loro
paese.
Quando
vilmente
il
Re
di
Napoli
con
cortigiani,
ministri
e
generali
fuggiva
all'avanzarsi
dello
Championnet,
soli,
i
montanari
degli
Abruzzi,
i
contadini
di
Terra
di
Lavoro,
i
Lazzaroni
di
Napoli
si
opposero
all'invasore
in
una
lotta
disperata
e
sanguinosa.
Come
appare
superiore
per
dignità
umana
e
nazionale
il
più
rozzo
di
quei
popolani
d'Italia,
che
muore
combattendo
lo
straniero,
a1
confronto
del
letterato
che
giura
di
morire
per
San
Marco,
e
che
il
giorno
dopo
acclama
in
versi
lo
straniero.
Orbene,
tutto
questo
che
è
dignità,
fierezza,
spirito
di
sacrificio,
è
stato
considerato,
specialmente
per
l'Italia
meridionale,
fanatismo
e
brigantaggio.
Perché
il
popolo
ha
scelto
di
combattere
all'insegna
di
una
bandiera
con
la
croce?
Che
significato
ha
gridare
Viva
Maria,
gridare
Viva
San
Marco?
E
la
difesa
delle
Chiese?
E
i
proclami
in
nome
della
sacrosanta
religione
cristiana?
Alla
base
della
Insorgenza
vi
è
la
dignità
culturale
di
un
mondo.
Questa
dimensione
che
è,
in
prima
istanza,
religiosa
è
quella
in
cui
è
immerso
l'uomo
che
abbatte
l'albero
della
libertà
per
instaurarvi
al
suo
posto
la
croce.
L'epica
del
mondo
rurale
attinge
la
sua
forza
e
la
sua
consapevolezza
dalla
concezione
del
mondo
tradizionale,
dal
senso
di
appartenenza
a
quel
mondo
da
cui,
al
contrario,
rimangono
in
larga
parte
esclusi
i
ceti
intellettuali
e
borghesi,
tanto
sicuri
della
loro
missione
salvifica
e
liberatoria,
da
non
vedere
neppure
le
baionette
di
un
esercito
invasore.
Tale
contrapposizione
sfugge
a
chi
cerca
di
ridurre
la
storia
nelle
strette
catene
del
materialismo
dialettico,
a
chi
vede
l'uomo
mosso
solo
da
istanze
sociali,
logorato
in
lotte
tra
classi.
A
chi
volutamente
ignora
la
possibilità
di
una
vita
concepita
come
un
approssimarsi
al
divino,
di
un
tempo
scandito
dal
rito.
L'ateismo
rivoluzionario
è
anti-teismo,
rancore
verso
il
mondo
cristiano.
Gli
avvenimenti
più
importanti
della
vita
sono
laicizzati,
il
tempo
sacro,
scandito
dal
suono
delle
campane,
che
anima
il
mondo
tradizionale
viene
sostituito,
nell'intenzione
dei
rivoluzionari,
da
un
tempo
completamente
secolarizzato:
il
calendario
viene
riformato
prendendo
come
modello
gli
avvenimenti
naturali,
i
matrimoni
giacobini
vengono
celebrati
girando
intorno
all'albero
della
libertà,
i
funerali
spesso
degenerano
in
orge.
La
nuova
mitologia
rivoluzionaria
eleva
a
riti
i
"giuramenti
pubblici",
la
spoliazione
delle
Chiese,
la
profanazione
degli
arredi
sacri,
le
processioni
derisorie,
le
mascherate
anticristiane,
i
cortei
iconoclasti
e
carnevaleschi.
Ma
il
popolo
napoletano,
toscano,
lucano;
il
popolo
di
Roma,
di
Verona,
di
Venezia
comprende
il
senso
intimo
di
questa
rivoluzione
e
si
ribella.
Il
sacrificio
di
Lagonegro,
di
Lauria,
di
Viggiano
dove,
nel
1806,
vengono
uccise
centinaia
di
persone
inermi,
serve
a
riscattare
le
astrattezze
filosofiche
e
anticristiane
di
una
minoranza
che
si
crede
"eletta"
e
copre
con
l'alibi
della
liberazione
dal
tiranno,
il
terrore
e
la
violenza
che
suscita.
"Il
sistema
della
menzogna",
la
cortina
di
silenzio
tace
queste
morti
scomode,
per
celebrare
solo
i
"martiri"
della
rivoluzione,
coloro
che
hanno
consegnato
la
patria
nelle
mani
di
un
invasore
straniero.
Trecentomila
persone
in
anni
insorsero
contro
la
Rivoluzione
Francese
e
i
principi
che
essa
propugnava.
Il
sacrificio
di
centomila
persone,
che
nell'Insorgenza
persero
la
vita,
fa
risorgere
le
ragioni
del
riscatto.
Il
riscatto
del
mondo
degli
umili,
abituati
a
dormire
con
il
Crocifisso
sopra
al
letto,
dei
vinti,
dei
briganti
nascosti
tra
gli
alberi
e
le
montagne.
Di
un
mondo
che
racconta
una
storia,
quella
"storia
bandita",
volutamente
taciuta
e
negata,
portatrice
di
valori
che
si
radicano
nell'abisso
del
tempo.
Una
verità
che
riaffiora
dall'oscurità
sotterranea
cui
era
stata
costretta
solo
per
riconciliarsi
con
il
passato,
per
evocare
una
atmosfera
in
cui
percorrere
i
luoghi
della
memoria,
recuperare
il
senso
dell'identità,
e
dell'appartenenza.