comune di Oristano Regione
Sardegna
C.R.S.4.
Progetto Sardegna 2000
Coordinatore:
Corona Giacomo.
Collaborazione nella rielaborazione testi e
immagini > " Classe 18 - 20 ":
Arceri F.
& P., Fois C., Galgano N., Langiu M. & P., Melis D. & M. & M.,
Pischedda A., Rundeddu O., Serra A.
La grande
storia della città di Oristano
Oristano,
la
traccia urbanistica
(autrice: Maura
Falchi; tratto da
“Oristano la storia, le immagini”; editrice
S’alvure Oristano 1994)
Aristianis: un nome per le diverse realtà
urbane che nei secoli si sono organizzate e strutturate, differentemente animate
ciascuna dalle particolari evariabili relazioni tra le parti che le
componevano. E se la comunicazione è inibita dall’impossibilità di usare un
referente comune perlinguaggi temporalmente differenti, tuttavia la
continuità non si dissolve, essendo legate, le varie città, da numerosi elementi
comuni. Tra questi la luce, che da sempre immutabile inonda le strade,
che riflessa dal mare giunge, attraverso la campagna, riscaldata dal colore
dei campi ad avvolgere le case di terra e arenaria, le palme e gli agrumi nei
cortili.
Esistono poi gli elementi oggettivi di
connessione tra le evoluzioni urbane di Oristano che possono essere
ricostruiti ecomparati attraverso l’analisi urbanistica, utilizzando la
documentazione materiale, cartografica eiconografica.
Lo studio del tessuto urbano attuale,
inoltre, ci permette di rintracciare alcune conformazioni
particolari della trama e nel chiederci ragione di queste, di proporre
delle ipotesi per far luce sul periodo di formazione e di evoluzione meno
documentato, quello che dalla nascita di Aristianis arriva fino al XVIII
secolo, quando incominciano ad essere prodotte e diffuse carte catastali,
planimetrie e progetti dei singoli edifici.
La prima carta storica nota di Oristano è il
progetto per l’adeguamento delle fortificazioni della città all’uso delle
bocche da fuoco, realizzata dall’ingegnere Rocco Cappellino a complemento di una
relazione sugli interventi occorrenti nel 1552-53, nella quale è riportata
esclusivamente la planimetria delle mura esistenti e le variazioni
necessarie ai nuovi sistemi difensivi senza che vi appaia alcuna indicazione
topografica sulla conformazione urbana. La successiva planimetria utile è del
1785 redatta dall’architetto Moia e pubblicata in riduzione nel supplemento
mensile illustrato del secolo “Le Cento Città d’Italia” il 30giugno
1899, in essa sono delinea-te le strade principali e segnate le chiese più
importanti.Attualmente è stata più volte pubblicata una
“pianta della fine del ‘700” in veste grafica rielaborata: la carta fornisce il
disegno completo della trama urbana dell’area di “su pottu” (racchiusa
dalle mura) e le indicazioni toponomastiche delle strade e piazze più
importanti.Questo rilievo tuttavia mostra un errore
nella trasposizione grafica del tracciato murario in prossimità della Torre di
Portixeddache non si riscontra nella carta del Moia
mentre è presente, identico, nel successivo Catasto de Candia del 1846.Si tratta di capire se è stato il de Candia a
plagiare la carta precedente del XVIII sec. o piuttosto se durante la
rielaborazione della planimetria settecentesca non si sia utilizzata la carta
del 1846, tale dubbio sarà risolto quando la documentazione originale potrà
essere disponibile alla consultazione.
Precedentemente alla compilazione del Catasto
de Candia gli ingegneri dell’Azienda Ponti e Strade che operò in
Sardegna nel 1786 avevano realizzato un rilievo della città,
dei sobborghi e del territorio circostante per il progetto della “Strada
di Ponente” che non fu mai eseguita.
Portixedda
Questa planimetria, confrontata con i
moderni rilievi aerofotogrammetrici, appare puntuale e corretta,
rivelandosi utilissima per lo studio della situazione urbanistica della fine del
XVIII secolo.Fondamentale per la completa lettura del
tessuto urbano storico nel 1859 è la planimetria in scala 1:1000 di tutta la
città appartenente al Cessato Catasto, che descrive la situazione delle
proprietà e che ci mostra quindi la suddivisione degli isolati in cellule
edilizie. La pianta, conservata al Comune di Oristano, è disegnata su seta e si
compone di varie parti fissate su un supporto rigido con degli spilli.
Purtroppo alcuni settori della città, come
quello dell’attuale via Masones, sono andati perduti.
Sempre nell’edificio comunale è custodita una
planimetria che illustra il progetto del 1862 per la congiunzione di via
Dritta con Piazza Mercato con l’apertura della “contrada Dritta passando pel
Caffè Frau”, che permette di analizzare in dettaglio la situazione edilizia
dell’area della Torre di San Cristoforo.
Tale documentazione cartografica può
essere integrata dalle immagini fotografiche e dalle vedute paesaggistiche
dei viaggiatori ottocenteschi per ricostruire il disegno della città del
XVIII e XIX sec., prima delle sostanziali moditiche prodotte dal progresso
del XX secolo.
È possibile quindi connettere i dati
acquisiti con i documenti scritti che illustrano lo stato della città nei
secoli precedenti a partire dal XIII sec.
Operando una comparazione dei contratti di
locazione registrati nel Condaghe di Santa Chiara ed in quello di San Martino e
nel Brogliaccio di quest’ultimo Convento, insieme ad alcuni documenti
testamentari di epoca giudicale, si ricava un panorama topografico e
toponomastico da sovrapporre, confrontare e collegare con
l’immagine rilevata della struttura urbana.
Inoltre avvalendosi delle conoscenze
storiche raggiunte e della documentazione archeologica pubblicata,
si può impostare una ricerca dei modelli urbanistici storici dell’epoca romana
ed altomedievale nella composizione strutturale del tessuto urbano
oristanese. Infatti se nel VII sec. d. C. Giorgio di Cipro cita Aristianis tra i
centri urbani della Sardegna, possiamo immaginare che l’insediamento avesse
ormai raggiunto una riconosciuta dignità urbana.
La considerazione che il nome della città
“Aristianis” derivi da una gens Aristia, famiglia romana di proprietari
terrieri, e che abbia connotato l’area abitata di un latifondo agricolo,
giustifica la ricerca di una “centuriatio” nel territorio extraurbano e di
una partizione ortogonale dello spazio urbano.
Lo studio attualmente in corso con Raimondo
Zucca ha fornito elementi a sostegno di queste ipotesi, soprattutto per l’area
urbanizzata dato che peril territorio sarebbero opportune ricerche
specialistiche con tecnologie specifiche.
Un certo numero di strade della città, sia in “su
Pottu” che in “su Brugu” (il borgo) possiedono andamento parallelo fra loro come
la via Garibaldi, via Parpaglia, vico Lamarmora, via Carmine, vico
Martignano, via Vittorio Emanuele [parte], via Angioj (parte) e sono
ortogonali ad altre:
via Serneste, S. Chiara, vico Ammirato, via
Goito, via Angioy (parte), via Othoca, questo reticolo è orientato verso
N.NES,S0 e risponde in tale senso all’applicazione delle regole
vitruviane sulle corrette disposizioni degli isolati rispetto al vento
dominante, il Maestrale, che imperversa per buona parte dell’anno spazzando,
violento, la pianura del Campidano.
Da questi elementi si può delineare uno
sviluppo urbano plasmato su una maglia ortogonale, che si realizza con
un’edificazione diluita, di stampo rurale, di case con grandi orti e
cortili simili al modello ancora esistente nel Campidano di Oristano.
Case di agricoltori che facevano capo ad una
villa rustica che doveva possedere un alto grado di dignità architettonica per
rispecchiare la potenza dei suoi proprietari. La scoperta di strutture
romane nella attuale via Azuni nel 1891 e la presenza di un epitaffio
romano ritrovato nell’area del convento dei Frati Cappuccini nel sec. XVII, ci
sostengono nella proposta di una tale dinamica evolutiva.
L’insediamento rurale deve essere
cresciuto in modo direttamente proporzionale al declino di
Tharros.
I ritrovamenti sotto il sagrato della
Cattedrale di tombe bizantine, realizzate nel luogo di una precedente
discarica pubblica, segnalano l’origine storica dell’edificio chiesastico e
la periferica posizione del sito rispetto all’abitato più antico.
Una riflessione sul pericolo di
inondazione che minacciava annualmente la città per le piene invernali del
Tirso, porta ad identificare nelle zone più elevate, le aree del settore sud
occidentale di “su Pottu” e nel circostante suburbio, i luoghi prescelti
per la primitiva edificazione stabile, mentre altrove saranno stati più
frequenti i ricoveri provvisori come le capanne di falasco.
Nel momento in cui la città comincia ad
evolversi verso una definita organizzazione urbana, attraverso
l’elaborazione di una zonizzazione precisa che distingue le aree pubbliche dai
quartieri residenziali, gli edifici privati dalle strutture di utilità sociale
quali: tribunale, templi, mercato, ecc., l’area destinata allo sviluppo
pianificato viene prescelta sulla base di precisi fattori ambientali.
Oltre la salvezza dalle acque esondanti del
Tirso era necessaria una particolare attenzione riguardo alla difendibilità
del sito delle aggressioni guerresche, alla salubrità del luogo e alla presenza
di acqua potabile.
La posizione doveva anche garantire il
controllo del traffico della principale via di comunicazione della Sardegna
occidentale, che superato il Tirso con il ponte romano, volgeva verso
Othoca e il Campidano Meridionale,
Il luogo dove si concentrò lo sviluppo
urbano di Oristano offriva tutti questi vantaggi: situato esattamente
lungo la strada era protetto a settentrione dalla palude di “Cea e Cuccu”
(localizzata tra le attuali vie Mazzini e Mariano IV) e da una
rete di fiumiciattoli che costituivano un ostacolo per gli assedi, l’altitudine
era sufficiente a garantire, salvo casi di eccezionale violenza
alluvionale, la salvezza dalle piene del fiume e la presenza di pozzi di acqua
potabile, testimoniata diffusamente ancora nel XV e XVI dalla toponomastica
urbana, assicurava autonomia al centro urbano, L’insediamento che raccolse agli
albori del primo millennio l’eredità di Tharros, divenendo la sede dei
Giudici d’Arborea, aveva tutte le caratteristiche per condurre una
promettente esistenza futura.
Le notizie che possiamo trarre dai
documenti storici relativamente ai primi due secoli di vita della nuova
capitale del giudicato sono limitate e poco descrittive della
situazione urbana.
Abbiamo i resti di testimonianze
architettoniche quali: la cattedrale di Santa Maria, nell’impianto
originario leggibile sotto i successivi rifacimenti, le chiese di S. Saturnino,
di S. Antonio, e dello Spirito Santo, anch’esse ristrutturate in epoche più
recenti.
Nulla può essere documentariamente
certo riguardo l’edilizia pubblica: non sappiamo dove avessero
dimora i giudici, dove fosse amministrato il potere e la giustizia e nulla
della distribuzione dei quartieri d’abitazione.
Tuttavia esiste un elemento interessante,
utile a illuminare ea delineare meglio la città di quel periodo,
che si rileva dall’analisi della conformazione del tessuto urbano
interno alle mura di Mariano II. Le planimetrie mostrano una
differenziazione di tessitura tra un nucleo di forma quadrangolare, con
angoli arrotondati, organizzato sul reticolo ortogonale descritto
precedentemente e una fascia4i coronamento esterna delimitata dalle mura
del 1290-1293 del giudice Mariano II.
Nell’area centrale potrebbe riconoscersi un
insediamento compatto, più antico, la cui espansione doveva essere stata
compressa da precisi limiti fisici come mura, terrapieni o palizzate.
Il progetto di Mariano II per la monumentale
cinta muraria allarga il perimetro cittadino, circondando il nucleo
esistente con una fascia di espansione, la cui profondità (circa 20 metri) si
mantiene costante nel settore compreso tralatorre di S. Cristoforo e la Chiesa di S.
Saturnino, mentre aumenta sensibilmente nella zona del Palazzo e dell’area
Episcopale.
La dimensione dell’ampiezza della fascia di
espansione presso la porta Mari è perfettamente misurata dall’organismo
edilizio della Corte Giudicale, costituito dal Palazzo e i suoi annessi,
la Torre e il Castello.
Tale fatto
costituisce la manifestazione delle volontà di previsione dell’ampliamento
urbano in rapporto alla costruzione delle nuove mura cittadine e ci
permette di intravedere l’aspetto della città esistente, il cui alto
grado di saturazione fondiaria rendeva necessari altri spazi edificabili.
Torre di San
Cristofero – prima; foto tartta da “ Editrice S’Alvure ’94 ”
L’intervento di Mariano esprime il segno
urbanistico più notevole nella storia di Oristano che connoterà la città
nell’immaginario degli abitanti e di viaggiatori permolti
secoli.
L’architetto artefice del progetto realizza
una corona di mura turrite incernierate da due porte monumentali, la Porta
Ponti, che si apre sotto la torre merlata di San Cristoforo e la Porta Mari,
guardata dalla torre di San Filippo.
Dopo la convenzione di San Martino,
firmata nel convento oristanese il 29 marzo 1410 a conclusione di 60 annidi
guerra tra i giudici d’Arborea e gli Aragonesi, il governo della città
passò a Leonardo Cubello, che con il titolo di marchese d’Oristano esercitava il
controllo del territorio per conto della Corona d’Aragona.
Torre di San
Cristoforo ad oggi; foto di G. Spiga
Fin dal 1350, anno in cui Mariano IVdiede inizio al conflitto per la conquista dell’intero
territorio dell’Isola, tutte le risorse della città furono sicuramente
impiegate nel sostegno delle truppe giudicali a discapito del patrimonio
edilizio ed architettonico. Lo scenario urbano non dovette subire
miglioramenti neanche durante i sessantotto anni di governo marchionale,
conclusosi con la disfatta della rivolta indipendentista di Leonardo Alagon.
La città dovette pagare duramente
l’aspirazione ad essere nuovamente la capitale d’Arborea, tanto da essere
ridotta in rovina per i saccheggi e per la ormai secolare assenza di
manutenzione.
Gli aragonesi nel 1478 si impossessarono di
un luogo segnato pesantemente dai 128 anni di guerra, che avevano annientato
l’economia, decimato la popolazione e ridotto la città nel più completo
sfacelo.
Fu successivamente necessario, rivolgere il
massimo impegno alle opere di ricostruzione anche per diffondere il
prestigio della casa Regnante della Corona d’Aragona e di Castiglia,
riunite nel frattempo dal matrimonio tra Isabella e Ferdinando il
Cattolico.
L’analisi dei documenti del periodo ci
permette di cogliere la precisa volontà politica di incentivare il
ripopolamento e la ricostruzione edilizia, attraverso concessioni ed
esenzioni fiscali.
Il ceto nobiliare aveva inaugurato il
rinnovamento commissionando nuove dimore dai prospetti eleganti nelle quali
porte e finestre erano ornate da splendide cornici scolpite secondo stilemi
gotico-aragonesi. In città si compravano dipinti e ci si adoperava per
riorganizzare la vita sociale.
È questo il clima nel quale la città di
Oristano concepì la Sartiglia, eloquente manifestazione dell’energia vitale
dei propri abitanti.
Le famiglie più importanti si chiamavano
Dessì, Vinchi, Noco, esse appaiono frequentemente nei documenti dell’epoca
al governo la città. Queste casate possedettero pascoli, orti, vigne e
abitazioni sontuose con ampie corti d’accesso.
Tra le righe dei Condaghi di S. Chiara e
San Martino si distingue una città nella quale numerosi artigiani
praticavano il mestiere nelle botteghe e abitavano nelle “domu terrestas” o
“solaiàdas”, “de matoni e quarcina” o “de latetibus de ludu” (case a
piano terra o con ùn piano superiore, di terra cruda o di mattoni e calce)
in “su pottu” o in “su brugu”.
La costruzione della nuova “Casa della
Ciudad” risale al 1563, localizzata tra le attuali piazze Eleonora e “Tre Palme”
nel luogo occupato oggi dagli uffici tecnici del Comune.
La famiglia Dessi Paderi aveva costruito poco
distante il suo palazzo che rimaneggiato probabilmente nel XVIII sec. conserva
lo stemma patrizio, visibile oggi sopra una porticina laterale dell’attuale
vico Arcais.
I Gremi si dotarono di statuti che
regolavano rigidamente la pratica del mestiere, adoperando risorse per
la costruzione o per l’abbellimento delle chiese e delle cappelle nelle
quali si venerava il Santo Protettore della Corporazione.
I monasteri esistenti ricevettero denaro per
restauri alle strutture architettoniche e nuovi ordini ecclesiastici si
introdussero nella città.
È del 1552-53 la relazione dell’ingegnere
Rocco Cappellino che illustra i lavori di adattamento delle mura urbane all’uso
delle artiglierie.
Il progetto non sarà mai realizzato
interamente per la difficoltà che incontrò l’amministrazione cittadina
nel reperire il denaro necessario per la costruzione.
Nei documenti dell’Archivio Comunale sono
registrate le richieste di denaro inoltrate al Re e le ripetute istituzioni
di tasse speciali i cui proventi dovevano essere destinati alla cura delle
fortificazioni, che sono descritte sempre in pessime condizioni.
Gli interventi furono quindi limitati in gran
parte a restauri e aggiustamenti della vecchia muraglia e i bastioni previsti da
Rocco Cappellino, necessari a coprire con il tiro incrociato dei cannoni lo
spazio antistante, rimasero sulla carta per essere sostituiti con
opereparziali, realizzate laddove ritenute strettamente necessarie.
Sappiamo che fu costruito un barbacane a Sud di Porta Mari per fortificare il
punto in cui le mura volgevano ad Est e che la successiva svolta della muraglia
fu protetta dalla torre aggettante di Portixedda, realizzata con pianta
circolare e provvista di una base a scarpa e di un corpo cilindrico in muratura
mista. È probabile che contemporaneamente si aprisse anche la porta adiacente
alla torre destinata al traffico cittadino tra “Brugu e Pottu” e che la via di
collegamento tra Portixedda e il centro della città avesse allora ricevuto dalla
nuova funzione una conformazione più rettilinea, che oggi si ravvisa
nell’andamento della via Lamarmora (per quanto riguarda la data
di apertura della porta si deve tenere conto della testimonianza del Fara che
nel 1580 menziona esclusivamente le due porte medievali).
L’influenza della Spagna sulla vita
cittadina fu sicuramente diffusa e penetrante anche se il carattere
essenziale di Oristano mantenne inalterata la sua identità.
Il flusso del tempo continuava ad essere
regolato dai cicli stagionali, con le semine e i raccolti a segnare l’arcaico
ritmo dell’esistenza.
I secoli XVI-XVII e XVIII furono funestati da
pestilenze e da carestie e la città, oltre il flagello delle cavallette che
invasero più volte il territorio, subì nel 1637 l’attacco delle truppe francesi,
che al pari delle locuste e con maggiore furia distruttiva, giunte dal mare
si riversarono su Oristano.
Il quadro di questi secoli ci mostra
l’immagine di una città austera, delineata dai cupi contrasti della pittura
di quel tempo, nella quale la luce vivace dell’aria riesce a stento a penetrare
e ad accendere il colore dorato della pietra e il verde dei giardini. Nel 1720
il passaggio della Sardegna sotto il dominio Sabaudo fu salutato dagli
oristanesi come fuga dall’oscurantismo spagnolo e ingresso nel secolo delle
riforme e dei “Lumi”.
Di fatto l’eversiva forza dell’Illuminismo
non produsse ripercussioni nell’assetto urbano della città fino alla prima metà
dell’Ottocento.
Tra gli episodi edilizi rilevanti emergono la
costruzione della pregevole architettura rococò della chiesa del Carmine,
commissionata dal marchese d’Arcais all’architetto Viana e la
residenza marchionale, nell’attuale via Dritta, che rivela nella
composizione architettonica e nel corpo cupolato l’influenza del medesimo
progettista.
Nel 1729 l’Arcivescovo Nin e la Curia vollero
rinnovare l’aspetto architettonico della cattedrale di Santa Maria, che
pure doveva essere maestosa e imponente nell’impianto romanico
abbellito dai successivi interventi gotici, adottando inizialmente un progetto
che prevedeva la totale demolizione dell’antica fabbrica e l’edificazione
di una chiesa a tre navate.
La morte dell’architetto autore del
progetto rese necessaria la stesura di un nuovo disegno nel quale alcune
parti della chiesa vennero fortunatamente conservate.
Nel 1792 nel borgo si intraprese la
costruzione della chiesa di S. Efisio che sovrastò con la sua mole barocca
le basse abitazioni di “ladiri” che la circondavano elevando al rango di piazza
lo spazio antistante.
Non si possiedono indizi tali da poter
rintracciare altre modifiche o adattamenti dell’impianto urbano tra la fine
del Settecento e i primi decenni del secolo successivo ed è probabile
che fino ad allora la città conservasse sostanzialmente inalterata la struttura
urbanistica che aveva ricevuto nel XIII secolo da Mariano II.
Un nuovo indirizzo urbanistico
incominciò a delinearsi nella prima metà del secolo scorso, rivolto ad
allineare Oristano al livello delle contemporanee realtà urbane europee.
Da allora fino agli anni ‘30-40 del nostro secolo il
rinnovamento procedette con costante organicità fino a definire una nuova
città il cui carattere consisteva nella felice convivenza tra vecchio e nuovo,
priva di contrasti e di rotture filologiche.
È interessante ricercare le regole e la
logica architettonica che hanno consentito la trasformazione di una
cittadina medievale, che era stata, successivamente al periodo giudicale,
relegata ai margini del mondo civile, in una piccola e confortevole città
europea affinché se ne riceva utile insegnamento per i nostri
giorni, nei quali l’intervento edilizio produce spesso dolorosi strappi
della compagine urbana.
La produzione edilizia e le idee
urbanisti-che che nell’arco di un secolo hanno generato una nuova città
sono legate dall’uso del linguaggio classicista, misurato attraverso le
dimensioni del luogo.
Si percepisce, infatti, una costante
attenzione alla scala dell’intervento che tiene conto degli edifici
circostanti e della capacità dello spazio urbano di assorbire la nuova
architettura.
Così l’uno in rapporto con l’altro vennero
realizzati nuovi edifici che esprimevano autonomamente il proprio carattere con
l’uso diversificato di forme comuni: timpani, lesene, cornici, archi,
arabeschi di ferro battuto, in una piacevole sequenza di espressioni
architettoniche mediate dall’uso dello stesso linguaggio.
Questa particolare omogeneità consentì alle
nuove costruzioni di inserirsi anche nei contesti più marcatamente segnati
dall’edilizia medievale e spagnola, della quale si riproposero le tipologie
abitative e le dimensioni, pur modificando l’ornato superficiale.
Nel 1827 Giuseppe Cominotti, capo del Genio
Civile, aveva realizzato i cappelloni neoclassici del transetto del Duomo,
introducendo in città i principi della corrente culturale del
neoclassicismo.
Negli anni successivi la città fu interessata
dall’attività del religioso Antonio Cano, allievo del Canova e dall’opera
dell’architetto Gaetano Cima.
Il Cano aveva progettato e costruito una
grande cupola ellittica perla chiesa di . Francesco che crollò ancora
prima di essere conclusa e si era occupato della costruzione
del complesso edilizio dei Padri Scolopi (attuale edificio del Comune in piazza
Eleonora) e della ricostruzione dell’attigua chiesa di . Vincenzo da lui
concepita secondo una pianta ellittica coronata da una cupola,
anch’essa destinata a crollare anni dopo la costruzione.
Il Cima fu chiamato dai frati di San
Francesco a porre rimedio all’imperizia tecnica del Cano e risolvette la
nuova costruzione in un’architettura dalle felici proporzioni,
realizzate in forme neoclassiche.
Intervenne anche nel progetto dell’Istituto degli Scolopi organizzando le
partiture del prospetto e curando la sistemazione della chiesa di S.
Vincenzo.
Poco dopo l’architetto cagliaritano
realizzò il Palazzo Carta-Corrias subito preso a modello per le successive
architetture civili.
La presenza ditali personalità e
l’atmosfera di vivace movimento culturale che ruotava intorno alla figura
di Salvatore Angelo de Castro, unite alla propensione della società verso
modelli di vita “moderni”, fornirono l’orientamento e il motore della
trasformazione urbana in atto.
Bella foto raffigurante il
complesso della cattedrale nei primi anni del secolo.
Osservando le fotografie che ritraggono la
città ottocentesca e dei primi del Novecento si coglie la completa adesione
delle forze sociali al progressismo positivista che si manifesta fin nei
minimi dettagli dello spazio urbano.
L’agricoltura che continuava ad essere
l’attività trainante dell’economia oristanese ricevette nuovo vigore
dall’applicazione dei più elementari principi della scienza agraria. In tal
modo il notevole miglioramento dei raccolti produsse un aumento generalizzato
della ricchezza anche per la più redditizia commercializzazione dei
prodotti in un mercato più vasto servito dalla rete ferroviaria.
Durante l’Ottocento la città nella quale si
rinnovavano le dimore dei nobili e dei benestanti incominciò ad essere
interessata dalla presenza degli edifici necessari al funzionamento del
nuovo sistema socio-economico come la stazione ferroviaria, banche, scuole,
teatri, caffè e mercati.
La “Guida dell’Isola di Sardegna” di
Francesco Corona pubblicata nel 1896 ci informa dell’esistenza ad
Oristano di due alberghi, due caffè, una dolceria, tre
farmacie, di tre consolati, di uno spaccio di formaggi, di un
negoziante in cereali, di tredici negozi di generi diversi, della
presenza di otto avvocati, di tre notai, di tre medici e di tre
industriali. Inoltre esistevano in città il tribunale, la corte d’assise, il
seminario, il ginnasio, l’ospedale, il ricovero di mendicità, l’asilo
infantile, la società di soccorso e il circolo S. Martino.
Il confronto tra la planimetria del 1786, il
Catasto de Candia del 1846 e il Catasto Urbano del 1859 mostra una moderata
espansione della città lungo la viabilità esistente che produsse nel borgo la
chiusura del perimetro di alcuni isolati. Tale crescita urbana era
dovuta principalmente al miglioramento economico della popolazione
residente, infatti non si riscontra ancora un vero e proprio
processo di inurbamento, frenato dalla prevalente attività agricola delle
popolazioni del territorio circostante.
Gli interventi architettonici dell’epoca
determinarono principalmente una nuova definizione di porzioni della città
esistente. L’area che fronteggiava la torre di San Cristoforo si trasformò in
una piazza urbana per la costruzione dell’edificio attualmente sede
del Banco di Napoli (allora Albergo Eleonora), del mercato e dei caffè che si
sostituirono alle piccole case di “ladiri” esistenti.
L’ampio spazio venne disegnato con
aiuole alberate e arredato con panchine e lampioni, si costruì una
tettoia, sul modello dei mercati francesi, per ospitare i banchi degli ambulanti
e fu edificata anche l’edicola per la vendita dei quotidiani, nello stesso
luogo dove ancora oggi esiste la rivendita di giornali vicino alla Torre.
NeI 1862 si demolirono alcuni edifici
adiacenti alla Torre di San Cristoforo per realizzare il collegamento
tra la piazza Mercato e la via Dritta.
Da quel momento cominciò la dissoluzione
del concetto di “dentro e fuori città” e la piazza della Torre divenne di
fatto una piazza della nuova città di Oristano.
Altre demolizioni condussero al medesimo
risultato con l’intento di promuovere il “decoro” eliminando “vecchiume e
rovine
Scomparvero così intere porzioni delle
antiche mura e nel 1906 fu raso al suolo il complesso giudicale della Porta
Mari per realizzare un’ordinata piazza di fronte all’austero edificio del
Carcere, l’antica Reggia Giudicale, irriconoscibile sotto il nuovo
prospetto.
Nel 1806 il Re Vittorio Emanuele I aveva
voluto promuovere il prosciugamento della deprecata palude di “Cea e Cuccu”
nella quale proliferavano le pericolose zanzare portatrici del plasmodio della
malaria. Questo fatto permise la costruzione di edifici lungo i due lati
della strada (ora via Mazzini) che fiancheggiava a nord la muraglia.
Il viottolo extraurbano, anticamente poco
frequentato, nel quale fino al 1786 si affacciava solo uno sparuto gruppo
di abitazioni raccolte ai piedi della Parrocchiale di San Sebastiano, si
trasformò in un’elegante via cittadina ornata dai prospetti classicisti
dèlle nuove dimore borghesi.
Gli interventi edilizi che nell’Ottocento e
nei primi decenni del novecento interessarono Oristano, cambiandone
profondamente la fisionomia, non furono mai regolati da una
progettazione globale a scala urbana. In città, forse date le sue piccole
dimensioni, non si seguì l’esempio di pianificazione che in quei tempi
stava trasformando la trama urbana delle grandi capitali europee.
Il primo piano regolatore per il
centro della città fu elaborato in epoca fascista nel 1930.
Il progetto aderisce perfettamente
all’ideale urbanistico di quegli anni con proposte per il riordino del
tessuto edilizio e di ridefinizione degli ambiti urbani per ottenere spazi
magniloquenti.
Il nuovo disegno doveva essere realizzato con
sventramenti degli isolati, demolizioni dei vecchi edifici e attraverso la
nuova costruzione di adeguati fronti strada qualificati da edifici di
rappresentanza. Il piano non venne mai realizzato.
Dall’ultimo dopoguerra molte variabili
contribuirono alla trasformazione radicale della città, variabili che si
inseriscono in processi evolutivi ancora in divenire.
Lo sviluppo dei centri urbani italiani nella
seconda metà del nostro secolo costituisce un argomento controverso della
riflessione urbanistica contemporanea che non ha ancora individuato
chiaramente una graduatoria fra le dinamiche interagenti. La materia necessita
di molteplici approcci dato che le ragioni economiche dell’evoluzione
di Oristano si mescolano con quelle politiche, le correnti di pensiero e
del gusto devono correlarsi alla pianificazione urbanistica la quale a sua
volta è costretta dalla burocrazia a non essere quasi mai al passo con i
tempi, e così via.
Il groviglio dei possibili modelli
interpretativi renderebbe necessario un approccio multidisciplinare
nell’indagine urbanistica degli ultimi 50 anni di vita della città; in
questa sede sarà opportuno limitarsi a fornire un panorama generale dello
sviluppo recente senza privilegiare punti di vista specifici.
Nel 1942 fu emanata la legge urbanistica n.
1150 che prevedeva l’obbligo per alcuni comuni di dotarsi di uno strumento
urbanistico attuativo esteso all’intero territorio comunale.
Il primo piano regolatore di Oristano fu
realizzato nel 1960 dall’architetto Fernando Clemente e attualmente è
ancora lo strumento attuativo di riferimento, pur avendo subito numerose
varianti ed ampliamenti.
Le scelte progettuali, permeate dal
funzionalismo, diffuso in quei tempi, sono volte all’adeguamento della
situazione urbana esistente ai moderni standards abitativi attraverso
modifiche e allargamenti della trama viaria e alla realizzazione di aree di
nuova espansione e di completamento in relazione al previsto
incremento della popolazione e alla conseguente dotazione di servizi e
attrezzature sociali. Alla relazione storica allegata al piano, che coglie
correttamente i caratteri salienti della struttura urbana storica, non fa
seguito un’adeguata proposta progettuale attenta alla salvaguardia del
“carattere locale”.
Nonostante che in quell’epoca la
riflessione urbanistica avesse già prodotto documenti come la “carta
di Gubbio” nella quale veniva riconosciuto l’alto valore ambientale e
culturale dei centri storici, l’antico suburbio venne considerato
semplicemente una fascia periferica da risanare: il piano Clemente ne
ridisegnava gli isolati, frantumando i fronti compatti delle case di terra
cruda, per consentire la penetrazione della viabilità di servizio alla
residenza, distruggendo orti e cortili per creare
frammentari spazi di verde pubblico.
I tipi abitativi proposti per l’edificazione
nelle aree periferiche furono localizzati in zone disposte con il criterio di
rompere la monotonia tipologica e volumetrica, alternando aree di densità
edilizia differente. Questa impostazione generale ha provocato
un’inarrestabile devastazione nella continuità del tessuto urbano esistente e
la miscellanea diffusione di tipi edilizi estranei alla cultura
locale.
Il piano regolatore doveva essere seguito
nelle direttive dai vari piani particolareggiati di zona, che avrebbero
potuto correggerne l’impostazione eccessivamente tecnica, recuperando
le valenze ambientali di aree importanti nella storia della città, come quelle
di “su Brugu” e di “su Pottu”. Purtroppo le lungaggini burocratiche hanno
impedito che il piano venisse completato in tutte le sue parti e oggi a
trent’anni di distanza Oristano non possiede ancora un ordinato sistema di
norme con il quale sia possibile controllare positivamente lo sviluppo
edilizio.
Dopo il ‘45, si avviò lentamente il
fenomeno dell’inurbamento, un numero sempre maggiore di persone lasciava il
paese natale per vivere in città, richiamato dalla disponibilità di posti
di lavoro nel commercio, nell’ambito amministrativo e scolastico, in
quell’insieme di attività che viene definito con un brutto termine “il
Terziario”. Questo processo ricevette una vigorosa accellerata nella
metà degli anni ‘70 in corrispondenza alla designazione della città come
capoluogo della IV Provincia Sarda.
Contemporaneamente si risentiva anche ad Oristano
del benefico influsso del cosiddetto “boom economico” degli anni ‘60. Il
tenore di vita si era elevato e le esigenze abitative erano mutate in
rapporto alle maggiori disponibilità economiche. I nuovi interventi edilizi
furono caratterizzati dall’uso del “linguaggio stilistico
internazionale” che comprende una vasta e non ben definita congerie di segni architettonici tratti
dalla produzione del Movimento Moderno.
Torre
di S. Cristoforo chiamata anche Torre di Mariano II.
Il primo edificio concepito secondo la
“poetica” del “Modernismo” è il palazzo Sotico, progettato nel 1955,
dall’architetto Vico Mossa, costruzione emblematica sia per la sua
localizzazione, la piazza Roma al lato occidentale della Torre, sia per
il rapporto che instaura con la città esistente. Poiché ogni intervento
architettonico va inquadrato nel periodo che lo ha generato, deve riconoscersi
nel progetto del palazzo Sotico un uso
grammaticalmente corretto, del linguaggio
compositivo, mentre non si può riscontrare altrettanta correttezza
linguistica nella sintassi del discorso urbano. Il luogo di costruzione non
poteva assorbire tanta massa volumetrica senza subire una grave
disarticolazione spaziale, ma gli interessi economici, dovuti all’alto
valore fondiario del lotto edificabile, decretarono diversamente.
A quei tempi tuttavia l’edificio aveva
suscitato tra gli oristanesi ingenui moti d’orgoglio per l’esistenza
anche in città di un moderno palazzo di ben sette piani, quasi un
“grattacielo”.
Gli interventi di rinnovo
urbano che successivamente interessarono l’area centrale di Oristano
riuscirono raramente a misurarsi con l’intorno e in generale
produssero gravi dissesti nell’organicità dell’ambiente urbano.
È il caso del palazzo sede della Sip e del
contemporaneo palazzo antistante che compromisero gravemente la spazialità della
piazza Eleonora che in quel punto si accostava, restringendosi, al fronte
neoclassico di San Francesco.
Anche nelle zone di nuova espansione la
confusione nell’uso degli elementi architettonici dello stile internazionale
produsse un ambiente urbano poco qualificato. Si perse così l’occasione di
temperare con l’uso di architetture omogenee la discontinuità imposta dal
piano regolatore.
Molti degli ampliamenti previsti furono
attuati con l’edilizia agevolata e sovvenzionata che aveva già
prodotto alcuni insediamenti negli anni ‘50, per il forte impulso ricevuto dalla
legislazione emanata all’indomani dalla fine del II conflitto
mondiale.
I primi interventi Ina-casa, legati alla
legge Fanfani del ‘49, si localizzarono negli isolati quadrangolari
delimitati dalle vie Sardegna e Lombardia, ottenuti dalla partizione di aree
ancora coltivate a orti e giardini enei pressi della stazione Ferroviaria in
via Vittorio Veneto.
Nelle vicinanze dello scalo, in quella
porzione di territorio periferico delimitata ad est dai binari, era sorto
in epoca fascista un raggruppamento di casette a schiera chiamate “case
minime”. La stessa zona vide anche la proliferazione nel dopoguerra di
un’edilizia spontanea sparsa che perle caratteristiche di precarietà venne
chiamata Corea (tale denominazione dei quartieri periferici più disastrati si
diffuse, in tutta Italia, per l’accostamento di questa edilizia con le immagini
di degrado e povertà del paese asiatico che in quell’epoca erano pubblicate
dalla stampa).
La zona che dalla stazione si estendeva fino
alla via Amsicora fu chiamata in seguito Sacro Cuore dalla chiesa
parrocchiale edificata nel 1958. L’area era stata prescelta fin dalla metà
degli anni ‘50 per l’edificazione di altre residenze popolari, le case bipiano
di via Tempio e via Milis, seguite dalla costruzione di appartamenti inseriti in
complessi abitativi multipiano. Nel 1967 e 1968 vennero individuate nuove
aree per l’edilizia economica popolare nell’estrema periferia Nord, verso il
fiume, il quartiere Torangius e a Sud, verso lo stagno di Santa
Giusta, il quartiere di San Nicola. Le modalità di realizzazione di questi
quartieri ricalcano il tipo di periferia “dormitorio” diffusa nelle grandi
città, del quale già all’epoca della previsione erano noti gli aspetti negativi
in campo sociale e urbanistico.
Una tipologia abitativa che si diffuse ad Oristano
dagli anni ‘50 fino ai nostri giorni è quella delle case a schiera con giardino
destinate ad una utenza medio alta. Inizialmente le case realizzate in
“cooperative” si localizzarono soprattutto nel settore occidentale della
città (via Campanelli, via XX Settembre, ecc.), lungo la fascia più esterna,
inoltrandosi nella campagna circostante, successivamente questo tipo
insediativo si diffuse laddove erano disponibili aree libere per
l’edificazione (Via Marconi, via Carissimi ecc.).
Nel 1970 si avviò la costruzione del
“centro amministrativo” previsto dal piano tra via Cagliari e l’area dei
Cappuccini. I palazzi costruiti dalla Bastogi si innalzarono lungo la via
Cagliari proprio di fronte al complesso Episcopale, imponendosi con forza nel
rapporto con gli ampi spazi retrostanti il Seminario e la Cattedrale.
I parallelepipedi bianchi entrarono
immediatamente in conflitto con la svettante architettura del Duomo
tarpando lo slancio verticale del campanile edella cupola con
l’orizzontale sovrapposizione delle fascie dei piani.
La città compatta dei palazzi da qui si è
estesa fino al margine urbano occidentale di Sarrodia, con una soluzione di
continuità dovuta allo spazio verde nel quale si inseriscono, secondo i
dettami del Movimento Moderno, l’edificio del Tribunale, il Liceo de Castro
e l’Istituto Tecnico Mossa, espandendosi fino al più recente giardino pubblico,
dove fu edificata negli anni ‘70 la Biblioteca Comunale, che ne costituisce il
confine settentrionale.
Di segno opposto il quartiere di Cuccuru e’
Portu che inizia a definirsi tra il ‘70 e l’8O, compreso tra le ultime
case del Sacro Cuore a Nord, il complesso e sportivo e scolastico ad
ovest, la via Cagliari e il territorio di Santa Giusta a Sud e ad Est.
Questa zona viene prescelta per l’edilizia
residenziale di lusso costituita da case con giardino raccolte in gruppi attorno
a brevi strade e a piazzette.
È di questi ultimi anni la costituzione del
nuovo “centro direzionale amministrativo”, nel quale si sono trasferiti i
principali uffici cittadini che precedentemente erano localizzati nei palazzi
Saia (ex Bastogi) in via Cagliari e via Carducci.
Il complesso edilizio, dove incominciano a
manifestarsi elementi stilistici “post-moderni”, si inserisce tra il
Cimitero e la strada che collega la città con il “nucleo industriale”,
rivoluzionando, per il suo decentramento, i flussi di mobilità interna
giornaliera della popolazione che qui lavora o che vi si reca a utilizzarne
i servizi. Alla fine degli anni Ottanta l’edilizia multipiano comincia ad
invadere le aree verdi interne ai grandi isolati dei borghi storici, attuando le
indicazioni del piano redatto trent’anni prima. Gli spazi ampi orizzontali che
avevano connotato “su Brugu”, nella dimensione stradale e in quella dei cortili
e dei frutteti interni all’isolato, vengono turbati dagli altri parallelepidi di
cemento, assolutamente estranei alla geometria del luogo.
Le scelte di localizzazione di questi tipi
edilizi, costruiti all’interno degli isolati, provocano disagio sia agli
abitanti delle basse case superstiti di ladiri, sovrastati dalla mole delle
nuove costruzioni, sia a chi deve abitare in questi appartamenti
racchiusi da una opprimente recinzione di
case di terra cruda e sia a chi abitando ad Oristano è costantemente offeso dal
sovvertimento delle più elementari regole del buon senso e del buon gusto.
La città, come ci appare oggi nel caos dell’
“eclettismo” edilizio ed insediativo, è quindi il prodotto dei nostri tempi,
privi di certezze ideologiche e dominati dall’individualismo della civiltà
dei consumi.
Molte responsabilità devono essere ascritte
alla pianificazione vigente che vincola l’uso del suolo urbano con direttive
viziate da un’eccessiva fiducia nei modelli matematici di lettura del
territorio, incurante del rispetto del “Genius Loci” (il carattere locale)
con la quale si pretende di assicurare un generico benessere collettivo e
in realtà si realizza solamente una produzione edilizia valutata in termini
di superficie e di volume edificato, di larghezze stradali e di massime altezze
consentite.
Chi guarda oggi questa città dalla
campagna, sospesa sulle lucide superfici delle risaie allagate, tuttavia la
riconosce nella scansione dei serbatoi dell’acqua potabile, delle cupole
iridescenti delle antenne metalliche, dei campanili e delle palme
svettanti: Oristano, una delle tante città che in quel luogo e con questo nome
si sono succedute tra le acque, i canneti e l’aria mediterranea.