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          comune di Oristano         Regione Sardegna                  C.R.S.4.                                Progetto Sardegna 2000

 

 

 

 

 

 

 

Coordinatore: Corona Giacomo.
 
Collaborazione nella rielaborazione testi e immagini  >  " Classe 18 - 20 ": 
                  
Arceri F. & P., Fois C., Galgano N., Langiu M. & P., Melis D. & M. & M., Pischedda A., Rundeddu O., Serra A.
                                                                                                                
 
 
 

                                                                                

 

 

 

 

                                                  

 
 
 
 
 
 
La grande storia della città di Oristano
   

 

 

Oristano dal crollo del Marchesato alla fusione della Sardegna col Piemonte
(autore: Giorgio Farris; tratto da “Oristano la storia, le immagini”; editrice S’alvure Oristano 1994)
   
 

 

 
Sfortunata e patetica la storia di Oristano a seguito della scom­parsa del giudicato d’Arborea ed il crollo del Marchesato, dopo le inutili impennate degli Alagon, nel drammatico epilogo della battaglia di Macomer del 1478 contro le preponderanti forze aragonesi. Una fine prevedibile questa del giudicato, dopo la precedente e umiliante convenzione di S. Martino in Oristano, se­gnata dalle sfortunate e incalzanti vicende di quello squallido giorno del 28 marzo 1410, dove la Spagna di Pietro IV d’Aragona, per mano del luogotenente Torelles, poneva dure condizioni all’Arborea con l’imposizione di un marchesato che non era più il regno dinastico giudicale, ma che ne poneva fine, con l’inizio di una sudditanza verso la Spagna, quasi un vassallaggio rigoroso.
La convenzione di S. Martino, se aveva da una parte liquidata ogni possibilità di ri­scossa del giudicato arborense, aveva an­che assicurato a Leonardo Cubello il rico­noscimento di quasi tutto il territorio del giudicato, ma ora, solo col titolo di Mar­chese di Oristano e Conte del Goceano.
Dopo la morte di Leonardo e poi di quella del figlio Salvatore (1470) si era però spen­ta la dinastia dei Cubello ed il Marchesato fu subito rivendicato da Leonardo Alagon, figlio della sorella di Salvatore Cubello e di don Artale, appartenente, questi, ai “ricos hombres” aragonesi.
 
Leonardo Alagon
 La rivendicazione di Leonardo Alagon fu ben presto osteggiata dal Viceré Nicola Carroz, discendente di Ugone II d’Arborea per parte di madre, ma Leonardo si impose con la forza delle armi nella battaglia di Uras. L’entusiasmo in favore di Leonardo fu tale da dare lo spunto ad una rivolta nazionale che si estese dalla Barbagia al Goceano, dal Marghine al Campidano al grido di “Arborea vaia suso Aragona vaia juso”. La stessa capitale, Cagliari, sede del Viceré Carroz fu minacciata dalle truppe di Leonardo. Ma la Spagna, temendo un ri­torno del nazionalismo giudicale cercò di arginare la riscossa con forti contingenti. La battaglia di Macomer del 19 maggio 1478, doveva purtroppo segnare disastro­samente la fine e a nulla valsero l’entusia­smo e i tentativi di rivolta nazionale. Le soverchianti forze aragonesi con contin­genti di “spingarderos” e altre potenti armi di artiglieria giunte dalla Sicilia, lasciaro­no sul campo di Macomer, dopo una dura battaglia, una scena agghiacciante e de­solante con settemila o diecimila morti se­condo le diverse fonti.
Finiva così miseramente il Regno delle di­nastie giudicali, con il crollo dell’unità del­le contrade e delle masse, nel passato sem­pre determinante a risolvere situazioni e momenti ardui nella lotta redentista arborense. Un crollo fatale dovuto sicura­mente a ridotte e non più aggiornate e competitive forze militari, ma anche e so­prattutto al crollo psicologico di una na­zione non più nazione, che aveva contato fino allora sulla figura carismatica del suo judike, legislatore attento e premuroso, nonché condottiero trascinatore di masse, con alle spalle tutta una sua tradizione dinastici autorevole e garante.
Da quel momento Oristano non sarà più protagonista nella storia, dovrà anzi subi­re soprusi, umiliazioni, spoliazioni, ruberie d’ogni sorta e, come anche per tut­te le altre contrade della Sardegna, accet­tare l’amaro giogo della colonizzazione con le comprensibili conseguenze dopo tanti secoli di creatività e di libertà.
Dal superbo protagonismo passa al più squal­lido servilismo e ha inizio il feudalesimo mai prima d’allora conosciuto dalla civiltà giudicale, dove, in un clima di crescente sospetto, si accentueranno anche rivalità e gelosie nell’assegnazione dei feudi, e la storia sarà, infatti, costellata di episodi fre­quenti, tragici e brutali di vendetta.
Un amaro destino che il popolo tarda a com­prendere e ad accettare nel mezzo del di­sordine, delle angherie, del disorien­tamento, e “su Re” sarà sempre, anche nei secoli successivi, un punto di riferimento spontaneo e naturale, quasi disperata­mente cercato o sognato, perché nella mente e nel cuore del sardo si guarderà sempre alla corte giudicale anche se ora inesistente: solo il “Judike” è il sovrano, il simbolo vero perché immensamente op­posti saranno i ruoli esercitati in Sardegna dai sovrani stranieri subentrati con la for­za.
Nella mente del sardo risuoneranno sempre, nostalgiche, le parole solenni, regali dei “preamboli” delle “carte agrarie” dei sovrani arborensi che parlano la lingua dei loro sudditi, la lingua del popolo:Nos Marianus pro gracia de Deus Juyghi Arborée, Conti de Gocianu e Bisconti de Basso: considerando sos multos lamentos, continuamenti sunt istados, e sunt peri sas Terras nostrad de Arbarée, e de Logudori pro sas vingias, ortos e lavoris, chi si disfaghint, e consumant peri sa poca guardia, e cura...”.
E ancora: “NOS ELIANORA peri sa gracia de DEUS JUYGHISSA d’ARBAREE. CON­TISSA de COCIANI, e BISCONTISSA de BASSO, desiderando, chi sos Fidelis, e Sudditos nostros dessu Rennu nostru d’Arbarèe siant informados de Capidulos, ed Ordinamentos, pro sos qualis pozzant viver, e si pozzant conservari in sa via dessa veridadi, e dessa Justicia,ed in bonu,pacificu,e tranquillu istadu, ed honori de Deus Onnipotenti, e dessa gloriosa Virgini Madonna Santa Maria Mamma sua, e pro conservari sa Justicia, e pacificu, tranquillu, e bonu istadu dessu pobulu dessu Rennu nostru predittu...”.
Un orizzonte lontano, questo, quasi un miraggio per i sudditi sardi, dove la no­stalgia di un mondo ideale perduto ritor­nava ripetutamente amara. Per lunghi se­coli la “Carta de Logu” rimarrà, comun­que, in piedi come toccasana e codice insostituibile a risolvere, a garantire, a pla­care gli aspetti molteplici della giustizia. Quel Codice, con momenti autentici di una politica illuminata, con le “Carte Agrarie” volute soprattutto da Mariano IV, rimarrà per molto tempo a coprire un vuoto, a far sentire l’ombra di una giustizia che presto e spesso verrà purtroppo sostituita dall’arroganza del vassallaggio, abilissimo, questo, nella inventiva di “balzelli” e “pregoni”.
E l’isola non sarà più considerata come un Regno, ma come semplice preda, terra di esilio e di sfruttamento.
I feudatari di Car­lo V di Spagna passeranno alla storia come una classe sorda ai richiami del so­vrano e più intenta ad opprimere il popo­lo.
 
 
Il patrimonio monumentale e artistico del Regno giudicale
 
Di quel momento giudicale, possono an­cora e molto testimoniare i monumenti rimasti in piedi nell’assolato paesaggio ur­bano di Oristano, dove le cadenti incrostazioni delle aggiunte dei secoli re­stituiscono giorno dopo giorno molti brandelli di questa città giudicale, ripetutamente profanata nei secoli. Il ro­manico ed il gotico si intrecciano nelle sfaldature delle aggiunte stilistiche ed esprimono ancora il meglio di una archi­tettura che ha caratterizzato la capitale arborense, ma anche il contado con il pre­zioso patrimonio di deliziose basiliche sparse ovunque e di Cenobi con i partico­lari paramenti litici dal colore locale.
Se dovessimo per un solo momento im­maginarla questa capitale quale doveva essere, ricorrendo magari ai punti di riferi­mento: le torri che ancora incidono nel dare tono e colore al tessuto urbano, e seguendo il percorso irregolare delle mura caratterizzate un tempo dall’ampio fossato, avremmo una immagine quasi fiabesca se, all’interno, del disuguale trac­ciato perimetrico aggiungessimo il castel­lo, il palazzo di corte, le basiliche, quella maggiore e quelle minori, i Cenobi, i con­venti, le torrette e i posti di guardia, la ruga mercatorum, quelle degli artigiani, le viuzze e i giardini recintati.
Forse questa immagine così pensata avrebbe offerto lo spunto ad Ambrogio Lorenzetti per dipingere una seconda ta­vola di “Una città sul mare”, quanto quella da lui dipinta, ed ora esposta alla Pinaco­teca di Siena, che ci ricorda e ci aiuta ad immaginare questa nostra città medievale sulla laguna.
Una nota amara si aggiunge alla storia di questa antica città dopo il crollo del marchesato: nei secoli che seguirono, len­tamente, quasi a brandelli, giorno dopo giorno, cadono molti dei suoi monumenti, complice l’incuria, l’indifferenza, l’egoi­smo, la smania “per il nuovo”. Così inspiegabilmente viene demolita la “Porta a Mari”.
                                                                      
Porta a Mari (foto tratta da “editrice S’alvure’94”)
 
Difficile oggi giustificare quel documento di demolizione redatto in data 27 settem­bre 1906 che inchioda molti illustri nomi del tempo sulla responsabilità dell’abbat­timento affrettato per dar luogo ad una piazza e lo sbocco diretto alla via per Ca­gliari, già del resto allora esistente attra­verso l’ampia porta giudicale.
Infatti in tale data, così Foiso Fois ci ricor­da “... per disposizione del Ministero della Pubblica Istruzione, di pugno del Ministro che esprime il suo personale rammarico, secondo il parere favorevole dell’allora Direttore del Mu­seo Archeologico, prof A. Taratnelli, del Diret­tore dell ‘Ufficio Regionale per la conservazione dei Monumenti ing. Dionigi Scano, dell ‘Ing. Civico del Comune di Oristano: Busacchi, del Prefetto Onorato Germanico, del Sindaco Al­berto Sanna, del Dott. Silvio Lippi, Direttore dell’Archivio di Stato, dell’Ing. Mariello e dell ‘Avv. Ballero Ciarello, concorde il senatore Parpaglia, veniva decretata la demolizione del­la “Porta a Mari” ritenuta di nessun valore storico ed artistico. In pari tempo veniva richie­sto, da parte dell ‘Ufficio Regionale per la Con­servazione dei Monumenti, l’impegno al Co­mune di salvaguardare da ulteriori danni le restanti mura ed i ruderi della adiacente Torre di S. Filippo”.
A ricordo di questa “PORTA”, gemella della “PORTA PONTE” di San Cristoforo, ci è rimasta l’epigrafe del 1293, così solen­nemente celebrata:
IN NOminE DomINI NotRI IHesV CHRISTI AMen. HOC OPus HVIus TURRIS POST COnFECTIOnEM/PorTE PVBLICE HVIus MVR: FACTVm FVIT Hanc TVRREm/ET FABRICAM MVRI FECit FIERI DomiNus MARIAnus VlCEcomes/DE BASSO IVDEX ARBORee QVI FELD( DIV VIV/AT ET POS(t eius) (o)BITVM IN CHRIstO QUIESCAT/PRO CVius ANIMA QVICUMQUE HAS LITERAS LEG/ERIT INTERCEDAT AD DomiNuM.
MCCXCIII. InDiCione VI. /ANNO REGnI EIvs XXVIII. (Carta Raspi, op. cit.).
Il contenuto di questo straordinario docu­mento che ha la firma, come la gemella del 1290, dello stesso Mariano II, dice tutto sulla importanza storica di questa Porta Mare, mai abbattuta dalle forze nemiche, ma sempre salda ed emblema di un gran­de giudice, ora condottiero ora costruttore edile, che progettò, disegnò e seguì con entusiasmo tutti i lavori di fortificazione della città giudicale erigendo le importan­ti porte nei punti vitali, aperte verso il ponte sul Tirso, verso il Barigadu e verso il porto, dotando, quindi, la città di salde mura con tutti gli accorgimenti strategici di una fortezza militare.
Mariano II è l’artefice di questa colossale opera, come è anche attento stratega e uomo di raffinata cultura che si attornia di celebrati artisti come Anselmo da Como, maestro lombardo educato alla scuola borgognona, che, nel 1293, edificherà la spaziosa basilica gotica di S. Pietro di Cuuri, oggi Zuri, che custodisce e com­pendia preziosissimi d’oltralpe ed in­fluenze locali, esaltando nel contempo, nei molteplici percorsi scultorei, gli aspetti sa­lienti della società giudicale.
Così nella esaltazione del “ballo sardo”, espresso nell’alta mensola esterna della basilica, come rituale simbolico, il rilievo è volto ad esprimere l’omaggio al santo pa­trono dei giurati del popolo uniti e concor­di ora, attorno alla loro basilica che fre­quentemente accoglierà le masse dei villici in determinati momenti, sia per l’ elezione democratica dei rappresentanti del popolo, sia per affrontare via, via i problemi connessi alla vita dei paesi limi­trofi confinanti col giudicato di Torres.
Ed i simbolismi continueranno nella men­sola del fianco meridionale dove si dà ri­lievo alla “scrofa” che allatta i maialetti, rimarcando in questo uno degli aspetti vitali della economia dell’epoca che assi­curava in una forma autarchica il sosten­tamento annuale della famiglia. Così pure nella mensola della “tribuna”, Anselmo da Como non a caso darà rilievo ai “fal­chetti nostrani”, predatori infallibili addestrabili per la caccia e tanto ricercati dalle corti mediterranee, europee ed orientali.
La munificenza di Mariano traspare in tutte queste opere non limitate esclusiva­mente al capoluogo.
E l’impronta del suo intuito politico era anche rappresentato dalla “Porta a Mare”, segno della importanza di crescita cultu­rale e commerciale del Giudicato arbo­rense che guardava al mare come libero ed aperto orizzonte.
Quella “Porta” non avrebbe di certo oggi sfigurato specie ora in questo contesto di crescita della città e della sua provincia, ma avrebbe ancora rappresentato il punto simbolico di una società nuova, orgoglio-sa della sua identità, che guarda ancora al mare.
Se osserviamo la bellissima litografia ese­guita nel 1827 dagli architetti Cominotti e Marchesi, dove la torre appare ancora integra con la sua porta, accanto il castello diroccato che conserva il suo perimetro ed il Palazzo Giudicale in buono stato, nel mezzo di una topografia urbana ben defi­nita e pulita che non si discosta poi tanto da quella odierna, comprendiamo ancor più il grave colpo inferto alla città agli albori del secolo. E sono scempi che hanno spazzato via immagini vere e sacre della storia di questa città. E sono immagini su cui l’uomo di oggi deve soffermarsi a me­ditare, perché non vi è progresso senza il rispetto della propria identità.
Certo non si può vivere sognando la città antica, ma è anche vero che la città moder­na ha il dovere di tutelare questa immagi­ne, e sarebbe ora che si discutesse seria­mente di questo patrimonio che appartie­ne alla gente. La storia di questa città potrà essere ancora palpitante quando la Muni­cipalità avrà finalmente riacquisito tutti quegli elementi mancanti, legati alla vita del castello e al palazzo giudicale rimasti fatalmente inglobati nelle strutture del carcere.
Come è giusto che la Basilica di S. Francesco, il cui Cenobio custodisce docu­menti straordinari della cultura e dell’arte giudicale, riottenga il suo antico Chiostro con l’annesso refettorio dove avevano luo­go le solenni ed importanti adunanze giu­dicali nella lotta nazionalistica di Mariano IV e dei suoi figli Ugone ed Eleonora d’Arborea. Riavere tutto questo signifi­cherebbe il ritorno alla “verità storica”, il ritorno ad un patrimonio che non può ol­tre rimanere ingabbiato, celato, ignorato, perché il monumento è di tutti, perché la storia è anche il monumento, e la crescita della città è nel rispetto delle radici cultu­rali che diventa orgoglio nella vita operati­va di tutti i giorni. L’appello non è soltanto di oggi, ma oggi è urgente decidere nel momento in cui la città prende coscienza ed ha una sua fisionomia ben definita di Città-guida.
Il Chiostro di S. Francesco deve essere re­stituito al suo convento per essere attivo come lo è stato nel suo passato. Deve ritor­nare ad essere “cenacolo di cultura” come lo sono quelli di Alghero, di Sorres ed altri, che sono e rappresentano nel tessuto so­ciale dell’isola non esclusivamente il “cimelio”, ma elemento vivo nella vita eco­nomica e culturale della città, del territo­rio, della regione.
Questa necessaria divagazione non ci ha allontanati dal discorso sulla presenza dell’arte nei Giudicato d’Arborea. La fiori­tura del romanico e poi del gotico, adatta­to e contenuto, quest’ultimo, nei suoi ele­menti stilistici, ci consente di ripercorrere i “momenti” particolari dei fermenti artistici che hanno animato l’Arborea. Maestri di chiara fama giungono in Sardegna e ope­rano in città e nel territorio realizzando opere architettoniche sobrie ed interessan­ti con l’impiego di materiali locali spesso anche di spoglio, che danno colore e plasticità diverse a seconda del loro impie­go.
Ad Oristano predomina l’arenaria sia nella architettura militare e civile che reli­giosa, mentre nel territorio i paramenti litici appaiono più vari: dalla trachite ros­sa ai tufo bianco, al basalto nero o grigio. Assai viva è la scuola toscana, ma non mancano gli incontri con la scuola lombar­da, con quella comacina e campionese, con la borgognona, come non sono assenti i riscontri islamici certamente limitati ad elementi decorativi ma densi di contenuti estetici. Opere architettoniche che non sono sporadiche, ma frutto di una politica amministrativa giudicale di affidare il ter­ritorio alla cura delle comunità monasti­che depositarie della cultura classica e portatrici di rinnovamento e di tecniche più aggiornate nel campo delle diverse colture: dall’agronomia all’apicoltura, dall’allevamento del bestiame all’arte tessile, incrementata, quest’ultima, soprattutto dai benedettini, Frequente anche l’attività ospedaliera in molti monasteri. Un’attivi­tà, quindi, intensa che non trascurava nul­la del territorio. Le campagne erano ani­mate giorno e notte da una intensa vita lavorativa.
 
 
La Cattedrale dei Giudici Arborensi
 
Il trionfo del gotico nel Giudicato arborense è segnato dagli elementi superstiti della Basilica di Santa Maria.
Ben poco conosciamo della sua volumetria e della suggestiva cornice che doveva caratterizzare questa basilica tan­to amata dai giudici arborensi.
La mancanza di dati scientifici non ci con­sente di andare oltre se non con la fanta­sia. Maria Manconi De Palmas, nel suo rigoroso studio dedicato a questa basilica così riferisce: “Completamente perduta è in­fatti, l’immagine di un’antica chiesa ricor­data da documenti del sec. XII e da due picchiotti bronzei che portano la seguen­te iscrizione: AD HONOReM DEI eT MARJE eT IUDICIS MARIANI PLACEN­TJNUS NOS FECIT eT COPERTURAJvI MCCXX VII ARCHIEPiscopus TROGO­TOREUS NOS FECIT eT COPERTURAm ECCLESIAE”.
E ancora Maria Manconi De Palmas, rife­risce: “... Sopra tutti l’Aleo ne scrisse con sufficiente chiarezza e attraverso le sue parole, gli storici hanno cercato di ricomporne l’aspetto, di individuarne i momenti costruttivi. L’Aleo la vide rico­perta con capriate, divisa in tre navate da due file di colonne secondo uno schema cui si informano le più importanti chiese costruite in Sardegna nei secoli XI e XII”. “Scrisse, infatti: “Esta Iglesia en su architectura muestra ser obra de Pisanos como la demas Cahcdrales de la Isla. Trazeronla espaciosa, alta y capaz en forma de cruz con tres naves que las dividen dos ordinas de colunas de una pleza depiedra mjfnerte, cosus arcos de selleria que sustentan las paredes y el maderaje del texado de la misma Iglesia. Toda la ohra dentro y fuera es de cantos quadrados de color bianco colorado jy nigro entraverados con tal arte y primay que muestra haver sido edif i­cio y obra Real muy vistosa y primorosa...”.
“Chiesa insigne, dunque, improntata a quei cromatismo che tendeva ad alleggerire i volumi spessi e conclusi del primo romanico e che si riscontra in una serie di monumenti costruiti conforme schemi e ornati di alcune chiese della Toscana”, Lasciamo ai lettori la conclusione di que­sta immagine della basilica di S. Maria, che ci viene suggerita dalle bellissime pa­gine di Maria Manconi De Palmas, che chiama in causa l’Aleo, unico testimone oculare che neI 1684, nella sua lingua spa­gnola, descrive la tipologia della Basilica e con meraviglia le sue personali impressio­ni sul gioiello gotico andato poi
distrutto.
 
Cattedrale vista dall’alto
Gli elementi superstiti, ancora suggestivi nella loro poesia architettonica, aiuteran­no il lettore a focalizzare questa sequenza così ormai lontana nel tempo.
Lo spazio, purtroppo, non consente di al­largare il discorso sul significato della pre­senza in Città e nel territorio di altre basili­che che hanno animato l’Arborea, perché tante e tutte importanti sono le testimo­nianze.
È sufficiente il richiamo alla sola elencazione e datazione di quelle della sola città-capoluogo per comprenderne il loro ruolo nei secoli: Chiesa dello SPIRITO SANTO (IX-X sec.)/S. GIUSTA (anno 1140)/Cattedrale di S. MARIA (anno ?)/ SAN PIETRO DE CLARO o SANCTUS PETRUS DE EPISCOPIU (anno 1131?)! San NICOLA DI GIURGO (anno 1182?)/ S. ANTONIO ABATE (anno 1175)/S. MARTINO (anno I228)/S. FRANCESCO (anno 1250)/LA MADDALENA (anno I325)/S. LAZZARO (1336)/S. CHIARA (1343).
 
Chiesa di S. Chiara (interno)
 
Dalla dominazione spagnola in poi: S. SEBASTIANO (I500?)/S. VINCENZO (?)/S. GIOVANNI BATTISTA EXTRA MUROS (1500)/CHIESA DEI CAPPUC­CINI (1608)/S. DOMENICO (1634)/S. SATURNINO (1500)/S. GIOVANNI EVANGELISTA (1662) nel vecchio Liceo De Castro/S. EFISIO (1660?), costruita dopo la peste del 1652-1656./CHIESA DEL CARMINE (1736)/CHIESA DELLE CAPPUCCINE (1738)/ S. CATERINA (1730) di fianco alla PORTA MANNA, fu abbattuta nel 1903/SS. TRINITÀ (anno ?), dirimpetto al Duomo, già sede dei Gremi dei ‘Terrai”, “Falegnami”, “Contadini” ./ S. LUCIA (1770)/SANTUARIO DEL RI­MEDIO (anno ?), era l’antica parrocchia di Nuracraba. Non è menzionata nella Ratio Decimarum Sardiniae (1342-1359) e nep­pure nell’Atto di pace fra Aragona e Arborea (24 gennaio 1388). Questa elencazione qui proposta può apparire esagerata per il numero delle chiese, se rapportata alla contenuta topografia urba­na della città giudicale (escludendo quelle sorte dal ‘500 in poi), ma i monasteri nel medioevo, piccoli o grandi che fossero, assolvevano ai diversi problemi che pote­va porre un territorio urbano o extra urba­no, compresi i problemi umanitari, di assi­stenza, di soccorso, di consulenza, ecc.
Inoltre la stessa corte si serviva di prelati colti per la cancelleria giudicale: per gli atti notarili, per i donativi, per le amba­sciate, per i rapporti politici con gli altri stati e con la stessa Chiesa di Roma, per i trattati, per tutti i problemi connessi alla città e al territorio, anche se le Curatorie avevano i loro rappresentanti e gli ufficiali regi.
Uno sguardo alla documentazione cancelleresca è sufficiente a dimostrare quanto questa fosse complessa e rigorosa, non solo per l’aspetto calligrafico amanuense, ma anche per l’uso frequente del latino, dello spagnolo, del sardo e dell’italiano.
In tutto questo si profila il grande ruolo svolto dalle comunità monastiche nel mondo giudicale ed il conseguente appor­to dato alla storia e alla cultura nella custo­dia dell’immenso patrimonio monu­mentale e artistico.
 
 
Artisti di Corte a Oristano
 
Non deve meravigliarci la presenza di maestri di corte ad Oristano. I giudici arborensi erano nobili di casta, studiava­no in Spagna e possedevano una buona cultura non soltanto militare. Tessevano rapporti continui e diretti con tutte le corti europee e amavano anche l’arte. Ecco, in­fatti, giustificatissima la presenza di mae­stri toscani o non toscani nella Basilcia di Santa Maria, sede vescovile, ma anche punto di riferimento e di prestigio della corte giudicale fedele alla Chiesa di Roma. Ecco il toscano Nino Pisano, autore dell’Annunziata la cui immagine è vibran­te nei suoi canoni gotici, evidenziati da quel movimento corporeo spontaneo e ar­monioso che accompagna e accentua l’espressione di turbamento della Vergine, per l’improvvisa apparizione dell’Angelo Gabriele. Il gruppo ligneo policromo del Duomo appare ora smembrato e privo dell’angelo Gabriele che ha trovato la sua nuova collocazione nella parrocchia di Sagama e non si sa in quale data e circo­stanza. È probabile che questo gruppo, così stranamente composto di statue e basamenti separati, servisse a soddisfare esigenze coreografiche in determinate so­lennità religiose.
Attribuita ancora a Nino Pisano è la statua marmorea di S. Basilio del convento di S. Francesco di Oristano. Pare che la statua fosse policroma per la presenza di tracce d’oro e di altri colori che evidenziano un arabescato disegno floreale che caratteriz­za la mitra e la tunica, mentre il “rivolto” di quest’ultima è colorato in azzurro. Det­ta statua ha una forte espressività e si reg­ge su un basamento ottagonale su cui è incisa a caratteri gotici la scritta: “‘ Ninus: Magistri : Andree: De Pisis : Me Fecit”.
Ma la Basilica gotica di S. Francesco, di­ventata poi neoclassica, ci serba ancora delle sorprese con i suoi preziosi cimeli ricchi di preziosissimi decorativi: le croci astìli d’argento, reliquiari, tavole dipinte, ecc. e, soprattutto i manoscritti di canto gregoriano in “maggior parte tutti meni branacei, in pergamena (membrana ani­male, soprattutto ovino) risalenti in buona pur-te ai secoli XIV-XV”.
Ma in alcune carte di guardia (pagine nor­malmente più antiche, che f ungevano da prote­zione al cosiddetto corpus libri) sono presenti frammenti provenienti da libri risalenti al sec. XII-XIII’.
“... La scrittura musicale di queste opere rap­presenta uno dei più antichi esempi di notazio­ne quadrata documentati in Sardegna”.
 
Il discorso vale anche per i manoscritti appartenenti alla Basilcia di Santa Maria. Grande attenzione merita il Crocifisso ligneo detto di Nicodemo della stessa ba­silica di S. Francesco. E l’opera scultorea sacra più impressionante dell’arte italiana medievale, per il suo profondo realismo che prelude già al Rinascimento: il “pa­thos” dell’atroce agonia è espresso qui con rigore e l’ignoto artista crea la più rara immagine plastica del “trapasso”: la cassa toracica del Cristo si dilata, gli arti si con-traggono in un ultimo sforzo; gli occhi si velano, la bocca si dischiude per esalare l’ultimo respiro. Una immagine commo­vente, di straordinario valore artistico. E attribuita alla scuola spagnola, ma secon­do Remo Branca rivela riscontri renani (Farris, op. cit.).
 
il Crocifisso di Nicodemo
 
 
 
L’epoca spagnola
 
La sanguinosa sconfitta subita da Leonardo Alagon nell’ultima disperata battaglia di Macomer (1478), segna la scomparsa del Marchesato di Oristano e pone fine a quella lotta redentista durata un secolo e mezzo (dall’epoca giudicale) contro l’egemonia straniera. Una lunga lotta, con l’aggiunta di pestilenze e care­stie che spolperà totalmente l’isola ridu­cendola a centocinquantottomila abitanti. Avvenuta l’unificazione dell’Aragona con la Castiglia, la Spagna, sotto lo scettro dei re cattolici Ferdinando II e Isabella di Ca­stiglia, allunga la sua ferrea dominazione in Sardegna con la nomina del Viceré Ximene Perez Scriva de’ Romani, principe corrotto e venale che farà pesare ai sardi la sua politica. Ma la Sardegna peggiorerà ancora con la reggenza di Inigo Lopez de Mendoza. Ferdinando promuove azioni riformistiche che miravano però a raffor­zare esclusivamente l’autorità del governo spagnolo. In questa fase di riforme si pos­sono ricordare tre avvenimenti: il primo per la convocazione dei Parlamenti negli anni 1481-85; 1497-1511. Tali Parlamenti non produssero nulla di nuovo e di con­creto per i sardi, ma si caratterizzarono per la “corsa all ‘accapparramento dei privile­gi” fra i tre “ordini” del regno: il reale, il feudale, l’ecclesiastico.
Il secondo, perché la Sardegna vede l’isti­tuzione nel 1492 del Tribunale dell’Inqui­sizione, il terzo, perché si assiste alla espulsione della classe commerciale ebrai­ca per non essersi convertita.
Al provvedimento seguiva l’incame­ramento dei beni (le Sinagoghe) alla Coro­na. Con l’istituzione del tribunale dell’In­quisizione, gli ordini religiosi venivano a trovarsi sottoposti ai Vicari di Spagna e non più agli ordini ecclesiastici italiani.
La Sardegna era, quindi, un regno caratte­rizzato dal governo retto dal viceré resi­dente a Cagliari, ma dipendente dal so­vrano.
Il Parlamento sardo era formato dai rap­presentanti delle classi sociali dette “STAMENTI” o “BRACCI”.
Il Regno, inoltre, era costituito da città au­tonome con i propri naturali territori, rette da magistrati che, a seconda delle scelte, potevano essere capitani, vicari, podestà indicati questi dal popolo. Queste autorità erano nominate dal sovrano e dovevano offrire col giuramento fedeltà alla corona.
Città autonome erano Cagliari, la capitale, Villa di Chiesa, Oristano, Bosa, Alghero, Sassari e Castel Aragonese.
I territori, suddivisi in “Capo di sotto” e “Capo di sopra”, erano controllati da due Governatori: il primo con residenza a Ca­gliari, ed il secondo a Sassari.
Anche sotto il regno di Carlo V (1516-1556) la Sardegna non ottiene grandi be­nefici, perché continuerà ad essere sogget­ta a un regime di sfruttamento regio e feudale con qualche piccolo spiraglio di progresso. Tra le iniziative, merita co­munque una menzione la introduzione a Cagliari dell’istituto Padre d’Orfani per la assistenza agli orfanelli e ai derelitti onde avviarli verso un proficuo ed onesto me­stiere.
Sotto il regno di Filippo II(1556-1598), figlio di Carlo V, passato alla storia come il “cattolicissimo” per il suo trionfo sul prote­stantesimo dilagante e per la supremazia sull’Europa, per la Sardegna saranno anni di progresso: si sviluppa una nuova co­scienza dei sardi, migliora l’agricoltura, un miglioramento anche nella ammini­strazione della giustizia; la riforma della Reale Udienza (il massimo tribunale e or­gano consultivo per gli affari di governo del Viceré); la regolamentazione del­l’istruzione col divieto di accesso alle cat­tedre episcopali sarde di prelati stranieri. In questi quarant’anni di regno, inoltre, Filippo II si prodigò per la difesa degli attacchi barbareschi con la costruzione lungo le coste di una cortina di torri. Fu incoraggiata la cultura sostenendo inizia­tive locali di enti e di privati. Intensa, poi, l’attività artistica degli argentieri sardi e degli scultori e decoratori su legno, dediti alla creazione di “retabli”.
 
 
Il saccheggio degli Ugonotti  
 
 
Durante il regno di Filippo IV (1621-1665), Oristano dovrà subire l’orribile saccheg­gio di un corpo di spedizione francese.
L’episodio è uno dei tanti della lunga guerra dei “Trent ‘anni” che coinvolse nel 1618 i paesi della Boemia, dell’Olanda, della Germania, della Spagna, della Fran­cia e dell’Italia.
Ma la vicenda di Oristano si riferisce all’ultimo periodo, quello fran­cese, che vide, a partire dal 1635, le strate­gie contro la Spagna ad opera del Richelieu, del Condé e del Turenna.
Nell’inverno del 1637 giunse nel Mediter­raneo dall’Atlantico una potente flotta composta di quarantasette galeoni al co­mando del conte di Harcourt e dell’arcive­scovo di Bordeaux, Antonio di Borbone (Antonio Sourdis d’Escobleau secondo il La Marmora).
Compito della flotta era quello di portare soccorso al duca di Parma il cui territorio era stato occupato dagli spagnoli, ma nel frattempo il principe spodestato era stato rimesso sul trono dagli stessi spagnoli e quindi la mossa francese risultò vana. Agli ugonotti non rimase altro che ritirarsi e ripiegare sulla Sardegna, allora colonia spagnola, per colpire la Spagna in un pun­to nevralgico.
La Sardegna si trovava allo­ra assai sguarnita di milizie, in un territo­rio così vasto poteva contare su un corpo composto complessivamente di quindicimila unità di cavalleria e cinquemila di fanteria distribuito in tutta l’isola, e perciò l’impresa di conquista par­ve ai francesi assai allettante in partenza. 1121 febbraio del 1637 sull’orizzonte dell’ampio golfo di Oristano apparve l’enor­me flotta nemica di 47 galeoni che bom­bardò a breve distanza l’unica torre di di­fesa che oggi porta il nome di Torre Grande, mettendo in fuga i pochi difensori che si precipitarono in città per informarne l’alcaide.
Sulla murata della torre, nella parte alta che guarda al mare, sono ancora visibili i grossi proiettili sferici infissi. Oristano fu presa dal panico e molti ripa­rarono nei dintorni.
Il colonello don Luca Nieddu radunò la sua cavalleria e attese gli eventi sul “poggio” di Santa Giusta; altrettanto fecero il vescovo Vico, l’intero Capitolo ed il clero.
Gli invasori, in maggior parte ugonotti ti­conoscibili dalle rigonfie “brache” gialle, entrarono in Oristano senza incontrare al­cuna resistenza, capeggiati dal conte di Harcourt e dall’arcivescovo di Bordeaux. Si calcola che circa cinquemila uomini secon­do i dati storici francesi, e undicimila secon­do le notizie sardo-spagnole, invasero Oristano occupandola interamente e dan-dosi subito al saccheggio. Altrettanto fecero le altre truppe ugonotte nei paesi vicini.
Erano giorni di Carnevale e nelle case oristanesi non mancavano dolci e vernaccia, perciò le strade deserte di civili si riempirono ben presto di un esercito di ubriachi.
Questo particolare lo riferisce Diego Masones, un ufficiale sardo vetera­no della guerra di Lombardia e delle Fiandre e conoscitore della lingua fiam­minga che, travestitosi in quelle giornate oristanesi da soldato ugonotto, era riusci­to a penetrare nella città per rendersi con­to della situazione.
Subito dopo lo stesso Masones tese degli agguati e insistette sulla strategia della “beffa”, iniziata dal colonnello Nieddu, ripetendo i giri dei miliziani a cavallo at­torno al poggio della Basilica di S. Giusta, in attesa che giungessero i rinforzi.
Questa strategia allarmò gli ugonotti che credettero ad un massiccio assembramen­to di truppe e si prepararono di conse­guenza ad abbandonare la città. Nel me­desimo tempo, in un estremo tentativo, il conte di Harcourt tentò di parlamentare con l’arcivescovo Vico chiedendo come condizione alle truppe di S. Giusta di de­porre le armi.
Ma le bande del Masones e del Nieddu risposero con un assalto alle mura della città coadiuvate dalla cavalle­ria miliziana giunta improvvisamente dal Sud al comando dell’Aymerch con don Francisco Villapaderna e i capitani Fortesa e Furca. Poi sopraggiunsero quelli di Laconi e di Quirra con don Girolamo Pitzolo, Bernardino Solivera e Gaspare Pira di Oristano.
In quella notte del 26 febbraio la città, prima del ritiro degli ugonotti, subì un orribile saccheggio e non furono rispettate neppure le chiese e i monasteri. I francesi lasciarono la città carichi di bottino con alle spalle le altissimi fumate degli incendi da loro provocati.
Ma i miliziani sardi non indugiarono e passarono all’inseguimento partendo da diversi punti della pianura (Gregori, Fenosu, Benaxi) e investendo ai fianchi e alle spalle gli ugonotti. Altri attraversaro­no il guado “Bau de procus” a valle della Chiesa della Maddalena.
Nei pressi del Ponte Grande sul Tirso, in località “su palon i”, le bande del governa­tore Aragall e quelle comandate dal capi­tano Fortesa assalirono le truppe dell’arci­vescovo di Bordeaux che abbandonò il campo affidando i suoi soldati al conte di Harcourt.
Altre bande di miliziani giungevano da Pozzomaggiore al comando del Quesada che incalzava fino all’abitato di Cabras, altre ancora da Ghilarza, Aidomaggiore, Paulilatino e Abbasanta comandante da don Salvatore Madau e Giovanni Mameli. La morsa dei sardi fu talmente tempestiva che a nulla valsero i diciannove lancioni carichi di cannoncini e fucilieri francesi che, risalendo il fiume Tirso, cercavano di sbaragliare le bande sarde.
Nella battaglia le perdite furono rilevanti per ambo le parti. I francesi perdettero diverse centinaia di uomini, trentasei pri­gionieri, diversi cannoni, armi, undici lancioni e parte del bottino, e in più otto bandiere di cui quattro sono andate alla Spagna e le altre ai sardi. Quattro di questi vessilli figurano ancora oggi nelle pareti del “transetto” del Duomo di Oristano.
Ai prigionieri di guerra francesi, impiega­ti successivamente per le riparazioni delle mura di Oristano, fu assegnata la paga giornaliera di ventiquattro centesimi; al nobile ufficiale Carlo de Roussaay, co­mandante di uno dei lancioni, quella di novantasei centesimi “dopo aver ricevuto le cure mediche dal chirurgo maggiore del reggimento”.
 
                                                     Duomo di Oristano (esterno ed interno)                               
                                                                    
Fino a qualche decennio, la sera del 26 febbraio nell’anniversario di questa vitto­ria, nell’interno del duomo di Oristano si eseguiva una processione di ringrazia­mento accompagnata dal suono delle campane.
Nei “eomentarios” spagnoli dell’epoca, fa spicco il racconto di un certo “Fra Giusto” dell’ordine degli ospedalieri che ebbe un ruolo importante nella battaglia contro gli ugonotti, offrendo anche il suo coraggioso contributo nell’atterrare personalmente una cinquantina di avversari, Questa impresa, in contrasto del resto con l’abito del religioso, trova spiegazione se­guendo la lettura avvincente delle sue peregrinazioni.
Fra Giusto era un nobile di Toledo, Don Diego Duca de Estrada, un nobile hidalgo che si fece religioso dopo tante avventure costellate di incontri galanti, duelli e ucci­sioni, ma sfuggì sempre al capestro.
Come principe fu a Venezia nel 1627 e dopo a Padova dove frequentò quella Università dedicandosi poi a scritti lette­rari e filosofici.
Ebbe quindi grandi incarichi di comando e combatté in Africa, in Italia, nel mediter­raneo contro i pirati e poi in Germania, coprendo anche l’incarico di governatore della città di Frauenberg.
Dopo l’amara e improvvisa perdita della moglie e dei sei figli, entrò in crisi e si fece religioso.
È in questa veste che lo troviamo quindi a Cagliari come consigliere del viceré nell’anno corrispondente allo sbarco degli ugonotti ad Oristano. E fu proprio lui a suggerire l’attacco a sorpresa della caval­leria miliziana partecipando di persona.
Una delle tante descrizioni spagnole su questa impresa di Oristano, porta la firma di Fra Giusto Duca de Estrada, con una particolare dedica al suo sovrano di Spa­gna.
L’attacco francese contro Oristano, aveva allarmato la Spagna, tanto da indurla a progettare adeguate azioni di difesa.
Si pensò subito ad una flotta sarda, e lo stesso Aragall, capitano generale del Re­gno di Sardegna, avanzò proposte opera­tive dando l’incarico di progettazione all’ingegnere militare Alongo de Cisneros che pensò ad una costruzione di un forte presso la foce del Tirso e ad uno sbarra­mento a mare per impedire eventuali in­vasioni, (G. Sorgia, op. cit.).
Ma l’episodio di Oristano ripropose so­prattutto l’urgenza di assegnare alla Sar­degna una propria flotta di almeno otto galee.
Purtroppo, le lungaggini burocratiche e le divergenze sorte tra il sovrano, l’ammira­gliato genovese e gli Stamenti sardi lascia­rono tale opera sulla carta.
Il progetto, che stabiliva un onere per la Sardegna di una “fornitura annua di 25.000 starelli di grano, di 18.000libbre in moneta per il vettovagliamento delle navi, consistente in biscotto, vino, carni salate, tonno, legumi, olio, aceto e sale” non prevedeva, purtroppo, l’imbarco su ogni galea di allievi isolani atti ad apprendere l’arte della navigazione e non rispettava neppure le altre richieste degli Stamenti sardi che prescrivevano l’autorizzazione al trasporto di passeggeri dell’isola.
Soltanto nel 1639, dopo che Filippo IV dava l’investitura a Giovanni Andrea Doria di luogotenente e capitano generale del Regno di Sardegna, con giuramento a Cagliari, si vide la realizzazione dello alle­stimento delle prime due navi della flotta, come aveva prescritto il Consiglio di Aragona.
Ma dovettero, purtroppo, passare quasi altri vent’anni per vedere in attività la ter­za nave, con la comprensibile delusione dei sardi che avevano sognato una marineria propria.
 
 
Sotto il Regno di Carlo II di Spagna due delitti scuotono l’isola
 
Sotto il regno di Carlo II(1665-1700) si avvertono nuovi dissapori tra la nobiltà sarda e la Spagna per le continue e inutili richieste relative alle cariche e agli impie­ghi del regno che escludevano i sardi. In questo clima di tensione il Parlamento sar­do doveva decretare nel 1665 la richiesta  di un “donativo” di settantamila scudi al re di Spagna, ma don Agostino di Castelvì teneva testa al Viceré sottolineando le gra­vi condizioni di povertà della Sardegna e l’assurda pretesa di un “donativo extra” al sovrano. Gli stamenti, dopo tante resisten­ze, erano giunti ad una proposta che pare­va accettabile: un donativo ridotto al re in cambio dell’impegno di riservare ai sardi gli impieghi pubblici. Il Parlamento venne sciolto senza alcuna soluzione dei proble­mi trattati.
Dopo alcuni giorni, nella notte del 20 giu­gno del 1668, il Castelvì, ormai noto come difensore dell’Isola, fu assassinato. Il delit­to fu attribuito alla giovanissima sposa del Castelvì, Francisca Zatrillas, ultima feudataria del Montiferru, signora del ca­stello di Cuglieri, e al presunto amante don Silvestro Aymerich.
Dopo quattro settimane il Viceré don Emanuele de los Cobos marchese di Camarassa, cadeva a sua volta assassinato con venti colpi di archibugio. Questo fatto inchiodava le famiglie degli indiziati e dura fu la rappresaglia della Spagna. E come in tutte le tragedie, ecco la fatalità a premere ancora sul triste epilogo con l’af­frettato matrimonio del 1669 tra Franzisca Zatrillas e l’Aymerich che, oltre a rimarca­re i sospetti, incoraggiava i giudici ad emettere anche il secondo capo di accusa di “cospirazione organizzata” contro il Viceré. Feroce quindi la sentenza con la condanna a morte degli amanti e la caccia spietata a tutto il parentado del Castelvì che, in parte, trovava rifugio a Nizza, as­sieme alla Zatrillas condannata in contu­macia e ormai priva del suo feudo. Ma il vecchio marchese di Cea, don Giacomo Artal di Castelvì e l’Aymerich non sfuggi­vano alle milizie e venivano presto giusti­ziati con la decapitazione.
Il primo a cadere fu l’Aymerich la cui testa mozzata, infissa ad una picca fu portata in un macabro corteo lungo i paesi dell’isola come segno ammonitore, preceduto dal lugubre rullare dei tamburi. Seguiva il boia a cavallo, quindi il vecchio marchese di Cea trascinato in catene. Poi, la sera del 15giugno 1671, nella piazzetta della Torre di San Pancrazio, la mannaia staccava la testa del marchese.
Per circa 20 anni le teste dei poveri sventu­rati rimasero esposte nella Torre dell’Ele­fante, in una gabbia di ferro agitata dal vento.
Il “seicento” è un secolo amaro per Oristano. Si assiste ad un preoccupante calo demografico, del resto iniziato assai prima della fine del marchesato.
Le continue carestie sono rese ancor più gravi dalle invasioni di cavallette che piombano dal mare distruggendo le cam­pagne.
È nota quella del 1647 dove “un immenso nembo di cavallette portato dal vento dell‘Afri­ca cade sopra la Sardegna meridionale donde poi diffondersi nell‘altre parti. La quantità era così grande che nelle campagne coprivano i campi, le vie, i pantani, i tetti, i pozzi, le pareti e l’interno delle case, e quando riscaldatasi l’atmosfera si levavano a volo facean ombra sopra il suolo sul quale portavansi in grandis­simi sciami. Il danno che fecero sopra i semina­ti, le vigne, i verzieri fu incalcolabile”.
Questo flagello, che perdurò per ben cin­que anni, fu talmente grave da indurre gli abitanti a panificare con la farina ottenuta dalle ghiande del monte Arci. (R. Bonu, op. cit.).
A questo male, si aggiungeranno, poi, le scorrerie improvvise e continue dei mori barbareschi e dei briganti dei monti di Arbus, che rendevano insicuri i paesi e pericolosa la vita delle campagne.
Poi, infine, la peste bubbonica del 1652 che, perdurando per quattro anni, spolpe­rà letteralmente la città e molti altri centri, riducendo la popolazione sarda ad un ter­zo dei suoi abitanti.
Nonostante la gravità di questi eventi, a cui si aggiunge anche l’assalto degli ugonotti del 1637, Oristano è come percor­sa da un febbrile desiderio di rinascita, quello stesso che ispira i sardi con i suoi stamenti a migliorare le condizioni dell’isola.
Nel 1676, sotto il regno di Carlo II di Spa­gna, sorgono le scuole Pie Calasanziane curate dagli Scolopi grazie alla muni­ficienza del mercante oristanese Michele Pira che elargiva l’enorme somma di cinquantamila scudi per tale opera bene-merita.
Le scuole Calasanziane andavano ormai diffondendosi, dando un notevole contri­buto alla formazione dei cittadini e costituirono proprio la base storica dei futuri ginnasi dell’isola.
 
                                                                       Comune di oristano & statua di Eleonora
 
Quella di Oristano, funzionante nell’anti­co edificio degli scolopi, oggi sede del Co­mune, perdurerà fino al 1866 dopo la sop­pressione che darà luogo al Regio Ginna­sio.
Questo tipo di scuole, caratterizzate dal rigore degli studi, formeranno studiosi come Vittorio Angius e Tomaso Napoli.
Come si ricorderà, le Scuole Pie Cala­sanziane erano sorte a Roma dopo la peste del 1590 che aveva falciato la città lascian­do sul lastrico una moltitudine di ragazzi sbandati. Un umile monaco spagnolo di grande cultura e umanità, Giuseppe Calasanzio, figlio di un “hidalgo”, don Pedro de Calasanz, giudice Conciliatore di Peralta de la Sal, li aveva raccolti amore­volmente in collegio, creando le Scuole Pie e avviando così i giovani ad un avvenire sicuro.
Oristano già vantava scuole di istruzione popolare di discreto rilievo, come la “Scuola di grammatica” annessa al conven­to francescano di S. Giovanni Evangelista la cui sede si trovava proprio di fronte al palazzo giudicale.
L’edificio fu abbandonato dai frati nel 1866, con la legge dell’incameramento dei beni ecclesiastici, stabilendo la nuova sede, su bolla dell’arcivescovo Bua, nel convento della Maddalena, anch’esso dei minori osservanti già dal 1459 con bolla del Pontefice Pio II su richiesta del mar­chese Salvatore Cubello e indirizzata all’Archiepiscopo Arborensi Jacobo De Albareale.
 
 
 
 
 
La storia di Oristano è inglobata in quella della Sardegna.
(autore: Giorgio Farris; tratto da “Oristano la storia, le immagini”; editrice S’alvure Oristano 1994)
 
 
 
La breve dominazione austriaca in Sardegna
 
 
Complessi gli avvenimenti che hanno fa­vorito l’ingresso della Signoria austriaca in Sardegna.
Deceduto Carlo II di Spagna e privando il regno di eredi diretti, si scatena la guerra di successione (1700-1713).
Tutto partì da Vienna, quando l’arciduca Carlo d’Asburgo, secondogenito dell’Im­peratore Leopoldo, facendosi forte del di­ritto dinastico, si proclamava re di Spagna col riconoscimento di importanti stati come la Germania, l’Inghilterra, e i Paesi Bassi.
La Spagna contestava la pretesa dell’Austria sostenendo il diritto alla succes­sione di Filippo di Borbone, nipote del Re Sole, perché designato alla successione per testamento inviolabile. La guerra divi­se anche la nobiltà sarda, specie per i rap­porti sempre tesi tra Capo di Sotto e Capo di Sopra. Ma Carlo III, che nel frattempo era passato in Spagna, occupò la Sardegna il 13 agosto 1708 dopo un bombardamen­to su Cagliari della flotta anglo-olandese al comando dell’ammiraglio Lake.
Le ferite della battaglia sono ancora visibi­li nelle facciate dei grossi palazzi del Ca­stello che guardano al mare, La pace di Utrecht (1713) ed il successivo trattato di Rastadt (1714) decisero della sorte dell’iso­la che passerà all’Austria.
La Signoria Austriaca nulla diede in otto annidi governo alla Sardegna, se non altre tasse.
Nel frattempo Filippo V, che dai prece­denti trattati aveva ottenuto la Spagna, occupò nuovamente l’isola, ma nel 1718 il Trattato di Londra che poneva fine alla guerra, stabiliva una definitiva suddivi­sione: la Spagna restituiva la Sardegna all’Austria che doveva a sua volta cederla alla Casa Savoia in cambio della Sicilia assegnata all’Austria.
Per la Sardegna, così lacerata e contesa, doveva iniziare un ennesimo calvario sot­to un regno ancora diverso. L’umore dei sardi non era certamente alto poiché la speranza si mischiava alla diffidenza, seb­bene il “Trattato di cessione” si presentas­se garante per i sardi in quanto sanciva il rispetto assoluto di tutti gli ordinamenti e i privilegi che la Spagna in quattro secoli di dominazione aveva concesso all’isola.
   
 
Il Duca di Savoia assume il titolo di Re di Sardegna
 
Vittorio Amedeo II, duca di Savoia, con­formemente al Trattato di Londra prende possesso dell’isola assumendo il titolo di Re di Sardegna. È l’otto agosto del 1720. L’undici settembre, Don Filippo Guglielmo Pallavicino, barone di S. Remy, prende possesso dell’isola con la carica di primo Viceré Sabaudo.
Il Viceré ereditava una Sardegna in preda all’anarchia, lacerata dalle discordie e dalle fazioni generate dall’odio politico. I pae­si erano in preda a bande armate che sac­cheggiavano e uccidevano per rancori personali in nome di occasionali e assurdi pretesti politici.
Sotto questo clima languiva la classe emarginata dei pastori e dei contadini, im­poveriti dalle rapine dei “donativi” straor­dinari per spese di guerra e dalle “decime” al clero.
Il nuovo governo iniziò con una amnistia e con una amministrazione saggia e di tutela del cittadino, tanto da placare gli animi e riportare la serenità nelle campa­gne e nei villaggi.
Anche Carlo Emanuele III (1730-1773), nei suoi 4 anni di regno continuò la medesima politica del padre promuovendo riforme e inviando in Sardegna due Viceré: i mar­chesi Rivarolo e Valguarnera, per combat­tere le bande che spadroneggiavano nell’ isola.
È nota l’ordinanza del Viceré marchese di Rivarolo contro l’uso della barba pena il pagamento di quattro scudi o un mese di carcere.
Tale ordinanza del 1738, doveva agevola­re i gendarmi piemontesi nella indivi­duazione dei banditi resa assai difficile, appunto, dalle foltissime barbe, dall’uso delle lunghe capigliature e del costume maschile uguale dappertutto.
L’argomento meriterebbe più spazio per comprenderne il problema del ban­ditismo che non era un fenomeno esclusi­vamente sardo, ma che nasceva dalla sfi­ducia dei sudditi verso lo stato e la giusti­zia, e dalla miseria dilagante.
Fu soprattutto il ministro Bogino a presta­re maggiore attenzione ai problemi della Sardegna, nonostante la sua fermezza nel combattere la delinquenza, con la ricostituzione dei Consigli Civici e Comu­nali onde renderli più operativi nell’inte­resse dei cittadini che volevano uno stato più premuroso. Ricostituì anche le due Università con l’aggiunta di nuove catte­dre e rinomati docenti. Pose mano all’isti­tuzione scolastica con l’uso obbligatorio della lingua italiana. Favorì l’agricoltura e pose il riordino dei Monti Frumentari. In­coraggiò l’affluenza nell’isola di coloni ita­liani dalla cui opera sorsero i centri cittadi­ni di Calasetta, Carloforte, S. Antioco, Montresta e l’Asinara.
La popolazione dell’isola in 62 anni passe­rà da 300.000 a 436.000 abitanti.
 
 
La forca piemontese contro i ribelli e i banditi
 
Per meglio comprendere la grave dimen­sione che aveva assunto il banditismo in Sardegna, sono sufficienti ricordare, tra i tanti, due soli episodi. Quello dell’ 734 che vede entrare in azione, dopo i diversi ten­tativi dal 1722 in poi, un esercito di truppe regolari chiamato ad assediare il Monte Cuccaro presso Aggius in Gallura, teatro poi di tante battaglie.
In questo monte granitico, stupendo nel suo paesaggio, caratterizzato da grotte, labirinti e anfratti naturali, si erano rifugiati duecento banditi con le rispettive famiglie provenienti dai centri del Logudoro, Goceano e Gallura. Vivevano di contrab­bando con la vicina Corsica, L’episodio del 1734, frutto della politica del Rivarolo, vide gran parte dei banditi impiccati sul posto.
Ma nel 1745 i dragoni piemontesi veniva­no disastrosamente sbaragliati lasciando sul terreno un centinaio di morti, anche grazie all’intervento degli abitanti di Aggius in favore dei ribelli. Tra questi si segnalava la presenza di diversi esponenti della nobiltà sarda ostile alla dinastia sabauda: donna Lucia Delitala di Nulvi con i fratelli don Pietro, don Antonio e don Francesco, poi Giovanni Fois di Chia­ramonti, Pietro Mulas di Orosei e Leonardo Marceddu di Pozzomaggiore. Questo aspetto, tanto discusso dagli stori­ci, mette in rilievo la ampiezza del proble­ma perché vede un “movimento” orga­nizzato di opposizione (non soltanto po­polare) allo Stato Sabaudo. Secondo il Co­sta il centro operativa del “movimento” contro lo Stato era Nulvi (Logudoro) dove la famiglia Delitala, avversa ai Savoia, aveva entusiasmato i villici tanto da creare un piccolo esercito disposto a lottare. Ri­mane, quindi, aperto il problema se quelli del monte Cuccaro appartenessero al banditismo o ad un “movimento antipie­montese”.
Nel 1749 il “pregone” del Viceré VaI­quarnera metteva al bando i capi nobili, invitando i sardi alla loro cattura. L’attacco decisivo al Monte Cuccaro, sem­pre teatro della feroce rappresaglia, fu infetto grazie alla strategia di due espo­nenti della borghesia sarda: Gerolamo Dettori di Pattada e don Giovanni Valentino di Tempio, entrambi funzionari di polizia fedeli ai Savoia.
Furono impiegate truppe regolari con l’appoggio di tre galeotte armate a guar­dia delle coste settentrionali, La feroce repressione costò la vita ad oltre trecento ribelli, tra cui molte donne, che furono impiccati lungo la strada che da Aggius conduce a Tempio.
Ma il banditismo in Sardegna era fatto anche di altri tristi episodi: frequenti le scorribande, dette “bardane”, con decine e decine di briganti armati di archibugio e a cavallo, che scendevano dai monti semi­nando il terrore nei villaggi, con spari a salve, e poi assaltando le abitazioni di per­sonaggi facoltosi o ritenuti ricchi con lo scopo di sottrarre loro “s ‘ischisorgiu”, cioè il denaro in contanti custodito frequente­mente in piccoli forzieri o in astucci di latta murati nelle pareti o sotto il pavimen­to. E per scoprire i nascondigli i banditi non esitavano a torturare i malcapitati con tizzoni accesi o spiedi roventi. Frequenti le incursioni alle canoniche perché spesso assicuravano un buon bottino.
Rubare in questo modo o in tanti altri era ormai cosa frequente, quasi un passaggio obbligato, una abitudine per “sopravvive­re” ed il fenomeno scaturiva indubbiamente dallo stato di abbandono e dimise­ria. Purtroppo le “bardane” erano definite dal popolo anche imprese coraggiose det­te appunto “ominias”, cose da uomini, e divennero presto materiale prezioso per i racconti dei nonni e dei padri nelle serate invernali, attorno al focolare domestico, per tenere desta l’attenzione del solito ed immancabile uditorio composto di fan­ciulli.
Durante il regno di Vittorio Amedeo III (1773-1796), vengono potenziate le rifor­me introdotte in Sardegna dal Bogino, an­che dopo il suo allontamento dalla carica di ministro. È un periodo di regresso e di malcontento per l’isola anche per la care­stia del 1780 che aveva visto la perdita dei raccolti e una immensa moria di bestiame. Perla fame a Sassari vi fu un saccheggio ai magazzini frumentari e al Comune che subito il governo represse violentemente. È di questo periodo la fondazione delle colonie della Maddalena e di Gonnesa e l’istituzione dei Monti Nummari per favo­rire il credito agricolo.
Ma il regno di questo sovrano fu turbato dagli eventi francesi della Rivoluzione che, dopo aver detronizzato Luigi XVI e istituita la Repubblica, l’esercito aveva in­vaso il Piemonte.
Le mire di conquista della Francia rivolu­zionaria colpirono conseguentemente an­che la Sardegna.
L’albero della libertà repubblicana france­se, piantato a Carloforte dopo lo sbarco nell’isola di S. Pietro dell’8 gennaio del1793, ebbe una brevissima durata per il divampare di una guerra che ebbe quasi un carattere religioso e che vide i paesi dell’isola, soprattutto costieri, impegnati sotto l’incitamento del clero locale, con ini­ziative organizzative ed anche strategi­che, improvvisate ma efficaci.
Tale resistenza ai francesi, in contrasto con le nuove idee europee, è da ricercarsi so­prattutto nella paura della penetrazione nell’isola delle idee illuministiche che tan­to avevano influito nella nuova coscienza delle masse desiderose di eguaglianza, fraternità e libertà ed in questo frangente la voce carismatica dei vescovi di Cagliari e di Alghero, appartenenti entrambi alla aristocrazia piemontese, ebbe notevole rilevanza nell’incoraggiare i sardi alla “re­sistenza”.
L’Episcopato ed il Clero non elemosinaro­no offerte cospicue per contribuire alle spese militari; si scomodarono persino i “santi patroni” chiamati a protezione del­le azioni belliche, non mancarono “simbo­li religiosi” e canti di “laudi sacre” ad ac­compagnare le milizie e si videro persino parroci e monaci partecipare direttamente ai combattimenti come semplici reclute o a posti di comando perché acclamati dai soldati.
Tutti aspetti significativi, questi, circa il ruolo della Chiesa Sarda in quel clima cul­turale-politico che “facilità ai Savoia di man­tenere l’isola come riserva ben controllata e isolata dal resto della cultura europea e dai suoi fermenti più vivi che la Restaurazione aveva repressi ma non soffocati”.
Cagliari subì a più riprese dei bombarda­menti navali, il 28gennaio del 1793 ed il 14 e 16febbraio, mentre a Quartu S. Elena sbarcavano cinquemila repubblicani re­spinti duramente dai miliziani. Vista la resistenza, la flotta francese riprendeva il largo rinunciando all’impresa.
Lo stesso Napoleone Bonaparte, allora an­cora capitano, dovette subire l’umiliazio­ne della sconfitta nell’isola della Mad­dalena gloriosamente difesa dagli abitanti guidati da Domenico Millelire.
L’eroismo dei sardi dimostrato contro l’in­cursione francese non valse a far cambiare la politica piemontese in Sardegna, e mol­te richieste degli Stamenti, compresa quel­la relativa all’assegnazione degli impieghi ai cittadini sardi, nonché il rispetto degli antichi privilegi e la convocazione perio­dica dei Parlamenti Sardi, che mai fino allora erano stati riuniti, vennero clamoro­samente e arrogantemente respinte dal so­vrano.
 
 
I moti angioiani
 
Dopo le disperate richieste degli Stamenti Sardi respinte dal Sovrano sabaudo, il malcontento doveva presto condurre il ‘popolo alla esasperazione tanto da giun­gere ad una rivolta generale.
Cagliari insorse per prima, disarmò le truppe e costrinse il viceré ed il suo segui­to a lasciare precipitosamente la capitale. A questo punto gli episodi si moltiplicaro­no in tutta l’isola. Tra gli insorti si crearono purtroppo due schieramenti distinti con orientamenti diversi: il Pitzolo, successi­vamente nominato con astuzia dal Sovra­no Intendente Generale, uomo capace e sostenuto dal popolo, intendeva continua­re il moto di rivolta in una “ferma ma ordi­nata contestazione”.
Giovanni Maria Angioy, nativo di Bono, giudice della Reale Udienza, figura cari­smatica sostenuto dalla milizia popolare, incoraggiava invece ad una azione oltranzista, Purtroppo il Pitzolo, diventato capo dei conservatori dopo la nomina a Intendente Generale, pagherà con la vita questo suo atteggiamento non condiviso dal popolo.
Gli eventi precipiteranno, perché ancora una volta sorgeranno divergenze tra Capo disotto e Capo di sopra per quella antica e cronica rivalità tra le due importanti città opposte.
Sassari pretendeva l’indipendenza da Ca­gliari perché il” Capo di sopra” si sentiva emarginato e quindi, in un momento favo­revole e di grande esaltazione, si procla­mava indipendente con proprio Parla­mento, In questo frangente, il Viceré, che già si era insediato a Cagliari, usa la strategia di “fomentare” una rivolta del Capo di sopra contro i feudatari sassaresi. L’insurrezione attecchisce e Sassari viene presto occupata dalle bande antifeudali nel dicembre del 1795.
Il problema, diventato ora assai più grave, spaventa il governo che invia a Sassari Giovanni Maria Angioy come Alter Nos, cioè con pieni poteri, come rappresentante dell’ordine legalmente costituito.
Ma la sensibilità dell’Angioy ai problemi della Sardegna lo porterà presto a schie­rarsi con i rivoltosi del Capo di sopra in­tenzionati a liberarsi finalmente dei feudatari che affliggevano i paesi con im­possibili “balzelli”.
Da quel momento la rivolta antipie­montese che aveva interessato tutta l’isola, diventerà antifeudale e la forte personalità dell’Angioy infiammerà i sardi che costi­tuiranno in breve tempo un vero esercito di cavalieri armati e decisi ad occupare Cagliari.
Questa rivolta generale era stata precedu­ta nel tempo da numerosi episodi di spo­radiche rivolte popolari contro gli abusi continui dei feudatari a cui non mancava il grano e speculavano, arricchendosi alle spalle di famiglie ridotte alla fame dalle conseguenze della carestia. E queste rivol­te avevano mteressato molti paesi: dalla Marmilla al Logudoro, dall’Anglona al Campidano, con i centri di Baressa, Ittiri, Thiesi, Sennori, Osilo, Ploaghe, Donigala, Nulvi Sedini, ecc.
Forte dell’adesione popolare, l’esercito dell’Angioy si ingrossa di bande di rivolu­zionari e percorre la Sardegna infiamman­do i sardi come ai tempi dei giudici arborensi e dell’Alagon.
Ma per una mala sorte questo esercito composto non di fanatici, ma di autentici sardi decisi a sradicare il malcostume, le ruberìe e l’arroganza, sarà irreparabil­mente sconfitto proprio ad Oristano. Le forze Piemontesi passeranno senza in­dugiare alla spietata rappresaglia, brac­cando i rivoluzionari e spingendosi fin sot­to al paese di Bono, roccaforte rivoluziona­ria del Goceano, che dovrà subìre un pe­sante cannoneggiamento ed il saccheggio. L’Angioy riparerà in Francia ove morirà esule a Parigi il 17giugno del 1797. Dopo la morte di Vittorio Amedeo III (1796), sale al trono Carlo Emanuele IV, uomo fragile, più dedito alle pratiche reli­giose che alla politica. Sotto il suo regno Torino fu occupata dai francesi che conce­devano al sovrano di trasferirsi in Sarde­gna. Ma l’isola non lo attira e nomina il fratello Carlo Felice Viceré di Sardegna abdicando dopo appena due anni, nel 1798, lasciando il trono al fratello secondogenito Vittorio Emanuele I (1802-1821) che prenderà dimora a Cagliari vi­vendo nella Corte di Castello dal 1806 al 1814, fino alla caduta di Napoleone. Per i Savoia scacciati dal Piemonte fu un momento assai difficile e preoccupante e, per i sardi, di vero squallore. In questa fase la Sardegna dovrà subire un blocco navale operato dagli inglesi con gravi con­seguenze nel commercio. Durante una epidemia di vaiolo, muore a Cagliari il principino sabaudo Carlo Emanuele di soli 3 anni che verrà sepolto nel Duomo. Poi morirà il duca di Monferrato Maurizio Giuseppe di 37 anni che verrò tumulato  nel Duomo di Alghero. Poi toccherà al conte di Moriana principe Benedetto Pla­cido sepolto nel Duomo di Sassari, e infine a Giuseppina Maria Luigia, regina di Francia, deceduta a Londra e sepolta a Cagliari. Il suo monumento funebre nella cripta del Duomo è opera di un artista discepolo del Canova.
E di questo periodo (1802-1821) la tassa dello “spillatico” in base allo spazio abitativo a disposizione imposta ai sardi. Nella misurazione i gendarmi o i funzio­nari preposti includevano anche gli angu­sti “sottani” delle povere case. Lo spazio veniva misurato con una pertica graduata da cui il detto arguto cagliaritano: “sa pettia misura fammi”. Il “balzello” escogitato, suggerito alla regina reggente Maria Teresa l’austriaca, moglie del sovra­no Vittorio Emanuele I, che assicurava alla stessa un appannaggio per la vita di corte e per l’avvenire, era opera del Sisternes, un prelato senza scrupoli che aspirava con l’appoggio della sovrana alla nomina di vescovo.
Questa sovrana non era bene accetta dal popolo per il suo carattere di superbia e di disprezzo verso tutti i sardi. Odiava a tal punto Napoleone che lo fece raffigurare sul fondo del suo “pitale” d’oro. Racconta il Manca che Maria Teresa: “malgrado il pitale d’oro era sempre a secco di contanti”. Figurarsi se non accolse con entusiasmo l’idea dello spillatico, incurante delle condizioni del popolo.
Era l’anno 1812, paurosamente ricordato come “s ‘annu dosci” per la grave carestia che aveva colpito la Sardegna. Mancava la farina di grano, ed il pane, specie in Ogliastra, veniva impastato mischiando alla farina della finissima argilla. Questo ripiego rimase poi come usanza, tanto che in Ogliastra lo si usa ancora oggi per la preparazione di un dolce squisito che non tutte le donne sanno confezionare.
Dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele I (1821) sale al trono Carlo Felice (1821-1831), già Viceré di Sardegna in due di­stinti periodi 1799-1806; 1815-1816.
Come Viceré eseguì le seguenti opere: rea­lizzazione di una amministrazione più funzionale, restaurazione dell’ordine pub­blico; incremento delle colture; promozio­ne degli studi; fondazione nella capitale di una società agraria di economia; creazione del Museo archeologico; fondazione, a spese del viceré, del Collegio “Carlo Feli­ce” per l’avvio agli studi dei giovani pove­ri e meritevoli, Durante questo suo man­dato, si era circondato di sardi come consi­glieri e per meglio conoscere le realtà dell’isola.
Come sovrano pose mano a molte riforme che segnarono momenti di vero risveglio in Sardegna: ampia attuazione dell’Editto delle Chiudende, opera del predecessore Vittorio Emanuele I e mai attuato, che mi­rava a diffondere l’agricoltura mediante l’introduzione della piena proprietà pri­vata con la libera recinzione di fondi demaniali. Purtroppo questo editto gene­rò gravi disordini soprattutto in Barbagia e nel Goceano per gli abusi dei grossi pro­prietari che penalizzavano i poveri pastori costretti a vagare in cerca di pascoli. Istituì in tutti i comuni le scuole primarie. Favori il sorgere di fabbriche di manufatti; diede mano alla politica stradale con i lavori dell’arteria principale Cagliari­Portotorres che divenne poi la “Carlo Feli­ce”. Pubblicò il codice unico “Leggi civ. e crim. del Re Carlo Felice per il Regno di Sarde­gna”, raccogliendo in esso tutta la legisla­zione civile e penale sarda escludendo tantissimi istituti medievali. Negli anni della vicereggenza aveva toccato dal vivo i problemi veri dell’isola e da sovrano era riuscito in parte a risolverli. Per questo Carlo Felice fu amato dal popolo e Caglia­ri gli dedicò il suo monumento.
L’età di Carlo Alberto (1831-1848) fu ugualmente proficua anche perla presen­za di una classe dirigente sarda che si era formata. Dei 24 deputati eletti dalla Sarde­gna alla prima Camera Subalpina, quasi tutti appartenevano alla nuova classe che andava prendendo coscienza. Erano que­sti, uomini come il Manno, il Martini, l’Angius, l’Asproni, il Siotto Pintor, il De Castro, il Tola.
Carlo Alberto favorì l’agricoltura, l’indu­stria, il commercio, la sanità; riordinò il sistema giudiziario; realizzò la riforma dei Comuni, il sistema monetario e quello dei pesi e misure. Riconobbe la proprietà pri­vata ed incoraggiò iniziative atte a sve­gliare l’economia. Scompare così la pro­prietà collettiva che tanto aveva caratteriz­zato la società sarda. Purtroppo durante il regno di questo sovrano, nel 1847, un av­venimento imprevisto toglierà ai sardi ogni possibilità di autonomia: un plebisci­to popolare di spontanea rinuncia all’au­tonomia, e i sardi ci rinunciano non tanto per le manifestazioni studentesche delle città inneggianti all’unione col Piemonte e che esaltavano gli ideali di unità naziona­le, quanto per la paura di rimanere soli come regno autonomo e senza alcuna pos­sibilità di riforme.
La deputazione sarda pressata anche e so­prattutto dai problemi dell’isola stremata dai cattivi raccolti, chiedeva al sovrano “perfetta eguaglianza e fusione della Sardegna con gli stati sabaudi”. Così il 1 ottobre del 1848, finiva di esistere il Regno di Sardegna e la figura costituzionale del viceré inter­rompeva per sempre il suo mandato auto­nomo. All’esempio di fratellanza dei sardi il ministro Cesare Balbo aveva esclamato:
“Tra i meravigliosi fatti del Risorgimento italiano, questo è uno dei più belli”.
Ma questa fusione al Regno Sabaudo, la­sciava la Sardegna ancor più lontana, in balia di se stessa, con l’aggiunta di tasse sempre gravose: basti pensare che nel 1860 l’isola era debitrice verso lo Stato, per imposte non versate, della impressionante cifra di quattromilioni e mezzo di lire, L’iniziativa privata senza l’intervento del­lo Stato non poteva essere sufficiente a superare la crisi del “trapasso” ad una real­tà diversa.
Soltanto nel 1857, Cagliari salutava il sor­gere della prima filiale della Banca Nazio­nale con immediato successo nel settore commerciale. Ma il problema fondiario ri­maneva ancora un grosso problema. Torme di forestieri prendevano in mano le risorse dell’isola intascando i profitti sen­za nulla lasciare alla Sardegna.
L’isola rimaneva ancora con le sue inutili ricchezze e priva di capitali.
Per meglio inquadrare i “momenti” che animarono la vita dei parlamentari sardi tesi tutti a difendere la Sardegna, sono sufficienti due soli nomi presi tra i tanti del panorama politico dell’ottocento: il primo è quello di Giorgio Asproni, l’ex canonico di Bitti e poi deputato della sini­stra, sostenitore accanito della democrazia repubblicana del Risorgimento. Nel suo Diario Politico si staglia una Sardegna an­cora mortificata da uno stato sordo alle suppliche e lontano e distratto per i suoi grossi problemi interni da risolvere: la cri­si dello stato, le ruberie dei ministrt l’arro­ganza di chi detiene il potere e le ingeren­ze sottili e minacciose delle forze economi­che.
La seconda figura di parlamentare che merita essère ricordata, anche per il con­tributo offerto alla nostra città, è quella dell’oristanese Salvator Angelo De Castro, eletto deputato.
Sono gli anni dell’esplodere in Sardegna del­le ribellioni contro lo Stato (1847-1848), con più focolai di rivolta che vedevano coinvolte svariate classi sociali, dai pastori ai contadi­ni, dai piccapedres agli artigiani, ecc.
Oristano stessa, esasperata dalla fame, in­sorge contro il Reggente per chiedere la distribuzione del grano ammassato nel Monte Granatico.
Il De Castro durante questi frangenti è eletto deputato, e in Parlamento, dal suo scanno di Centro Sinistra, leverà frequen­temente la voce a favore dell’isola sempre più afflitta da immensi problemi e care­stie.
Era uomo instancabile, zelante religioso, pensatore, pubblicista, difensore del patri­monio storico e culturale della sua isola.
Racconta Giuseppe Murtas che il De Ca­stro faceva parte della schiera dei preti rivoluzionari”, come venivano spesso chiamati i preti liberali e quanti erano solidali con i vari movimenti indipendentisti. Essi tentavano una distinzione tra Stato Pontificio e Chiesa di Cristo, rischiando la scomunica cui era con­dannato chi avversava il potere temporale del Papato. Il De Castro, come altri religiosi, si limitavano, per esprimere le loro idee liberali, ad abbracciare il programma politico-democra­tico del Gioberti che includeva una rivalutazione del ruolo del Papato come segno di unità”.
E ancora il Murtasa sottolineare il faticoso cammino politico dell’AsproniI la cui azione è insidiata ingenerosamente dallo stesso Clero sardo, e, soprattutto, da “una fazione di canonici nuoresi, come il Ghisu, che avevano iniziato a perseguitarlo già dal 1847, e poi continuarono a combatterlo ed a procla­marIo “a postata” per le sue idee, ma soprattut­to per la sua parola severa di censore del Parlamento subalpino italiano”.
“In molte lotte parlamentari il De Castro è al fianco di A/proni che sentiva vicino e sempre amico malgrado la sua collocazione di estrema sinistra”. E tale amicizia si mantenne inte­gra anche dopo il mandato parlamentare del De Castro.
Insomma, il De Castro si fece sostenitore delle tensioni democratiche del suo tem­po, contribuendo all’Unità d’Italia con i suoi tempestivi ed intuitivi interventi scritti, aprendo la strada, nel contempo, alla valorizzazione della cultura e della storia della Sardegna.
Difensore strenuo della democrazia, si fa­ceva forte come deputato del programma del Gioberti e in più “aggiungeva di suo una viva partecipazione ai drammi della propria gente, alla quale voleva sentirsi legato, e solo di essa si considerava rappresentante”. (Cfr. G. Murtas, op. cit.).
Alcune frasi di un discorso del De Castro agli elettori di Oristano, evidenziano que­sta sua fede nella “democrazia” e l’attacca­mento alla sua gente: “io sono l’ultimo dei vostri deputati, né do torto a quelli che mi tacciano per questo verso, o a quegli altri che mi dicono uomo di poca esperienza, se per questa intendono l’esperienza del malfare. Ho però un cuore che sente profondamente le miserie del popolo, schiavo una volta, poi servo molti anni, ma sempre oppresso, ma sempre taglieggiato, ma sempre munto;e quando si tratta di proteg­gere la sua causa, il sentimento supplisce all’ingegno, mi addoppia il coraggio, e mi è di lieve momento qualunque sacrificio. Ho un cuore sinceramente democratico, se per demo­crazia si intende un governo indirizzato con sicure e stabili istituzioni al maggior bene del maggior numero dei cittadini..”.
Coerente nella linea politica scelta, e forte dell’amicizia con Gioberti, Lineo e Rattazzi, ha più occasioni in Parlamento di parlare di giustizia e di libertà.
E molteplici sono i suoi interventi sulle leggi in discussione: da quella dell’inse­gnamento universitario in Sardegna alla legge per l’abolizione delle decime al clero sardo, a quelle del lavoro, a quelle dell’iso­lamento, a quella della disastrosa situazio­ne economica della Sardegna con le intol­lerabili imposizioni fiscali che avevano fatto esplodere nel 1849-50 la rivolta di Sedilo e poi quella del nuorese e del sassarese.
Come tuffi i parlamentari sardi, il De Ca­stro viveva in Sardegna e si muoveva in un ambiente seminato di spie regie. Ma la sua vocazione alla libertà e alla verità lo portava ad essere sempre più in “prima linea”, collaborando con la stampa locale e nazionale.
Ecco sulla “Meteora” apparire i suoi saggi sui problemi della scuola sulla diffusione della cultura, sul lavoro, che lo trova sem­pre intuitivamente pronto e impegnato. Poi l’enorme dispiacere per la sospensione del visto di stampa della “Meteora”, per la sua “ode” a Eleonora d’Arborea, conside­rata dallo Stato “poesia estremamente peri­colosa per lo spirito politico dominante in essa” che poteva favorire la diffusione di idee miranti al “sovvertimento dell’ordine so­ciale”.
Perseguitato dalle censure regie del potere sabaudo, continua indifferente la sua stra­da e fonda nel 1857 “La Gazzetta di Oristano” ottenendo la solidarietà di uo­mini insigni della cultura.
La sua attività di pubblicista non lo distrae dai suoi impegni di Cattedra dove, presso l’Università di Cagliari, tiene lezioni di Di­ritto Canonico.
Purtroppo, negli ultimi anni della sua vita si troverà coinvolto nella vicenda oscura delle “Carte false d’Arborea). E la sua proverbiale buona fede lo porterà fino alla morte a difendere questi “Nuovi codici d’Arborea” da lui considerati la più gran­de scoperta storico-letteraria che molto poteva far sperare alla Sardegna.
 
 
Il Regno d’Italia
 
 
Solo nel 1862 si ebbe la legge per il completamento della rete stradale cui se­guì nel 1863 quella per la costruzione della linea ferroviaria Cagliari-Golfo Aranci, ma furono le uniche cose poco appaganti:
i problemi di fondo rimanevano insoluti. La “questione sarda” premeva con urgen­za: il frazionamento della terra creava di­spendio di forze e di moneta ma non pro­duceva un bene sostanziale. Miseria, quindi, e malcontenti, con tante commis­sioni di inchiesta e problemi insoluti e sempre più gravi. La proclamazione del Regno d’Italia, con tante regioni annesse, aveva tanto preoccupato il re Vittorio Emanuele II per il pericolo di nostalgie e conseguenti focolai di rivolta, per cui la Sardegna così lontana doveva essere la prima a pagarne le conseguenze, in uno Stato più attento invece alle altre regioni più vicine, Da questa incredibile situazio­ne scaturiva la violenta reazione dei parla­mentari sardi: nel 1867 Giovanni Battista Tuveri lanciava una violenta accusa allo Stato, ponendo, con la sua nota e nobile oratoria, la mano sulla piaga dell’isola, so­stenendo: “un ‘isola qualunque non può prosperare ove non si governi da sé e non abbia tutta l’indipendenza che può conciliarsi con le prerogative del potere centrale” il più limita­to”.
E ancora: “Però la Sardegna non è allo stato in cui si trova solo perché dipende da un gover­no che né è, né vuole essere col popolo, ma perché questo governo ne dista le centinaia di miglia, e non conoscendoci e disdegnando co­noscerci, vuole imporsi su tutto e su tutti, parte per gelosia di potere, parte per avidità di pecunia.
Già dal 1856 Garibaldi è a Caprera dove stabilisce la sua dimora. Eletto deputato nel Collegio di Ozieri, aveva ripetu­tamente in Parlamento levato la sua voce a difesa della Sardegna mettendone in risal­to l’indigenza, le doti di ospitalità, di intel­ligenza, di fedeltà, di laboriosità e di co­raggio dei sardi.
La stampa sarda andava mostrando la sua ostilità a Cavour colpevole di aver fatto poco o nulla per la Sardegna, anzi lo addi­tava come responsabile di aver peggiorato la precaria situazione esistente con quella imposta fondiaria che colpiva la proprietà di fondi improduttivi e di nessun valore.
In queste misere condizioni la Sardegna veniva colta allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. E dopo la vittoria, che tanto aveva pesato nell’isola per il sacrifi­cio di tante forze giovani, doveva ancora gravare l’amara delusione dell’indifferen­za dello Stato: la miseria dilagante, la fame, lo spopolamento, la solitudine.
Tutti elementi non marginali, ma che fece­ro nascere e maturare gli ideali di aspira­zione autonomistica, quegli ideali di sem­pre rimasti sopiti, dove ora il Bellieni, Lussu e tanti altri andavano conducendo una battaglia democratica per il giusto ri­scatto dell’isola.
 
 
I momenti della creatività artistica
 
Durante il settecento e l’ottocento, sotto il governo piemontese, Oristano, nonostan­te i problemi che l’affliggono, è come per­corsa da un desiderio di rinnovamento edilizio che ha interessato non esclusiva­mente l’edilizia religiosa.
Nel 1729 si dà mano alla demolizione del­la basilica romanico-gotica di Santa Maria le cui condizioni strutturali ormai fatiscenti avevano allarmato l’arcivescovo Antonio Nin e tutto il Capitolo arborense, trovando la piena disponibilità e la pron­tezza delle autorità regie per la costruzio­ne di una nuova e imponente cattedrale. Il regio architetto Antonio De Vincenti non solo approvò il progetto, ma suggerì la soluzione a unica navata che trovò il con­senso di altri operatori, in parte architetti militari che avevano il controllo del setto­re cui fanno spicco per il loro molo nella fabbrica i nomi del generale Castellalfiere, del conte Moretta, del Garrucciu e dell’Arieti.
Dell’antica basilica furono risparmiati la Cappella del Rimedio, il Battistero e il Coro che divenne più tardi archivio del capitolo. Lo schema planimetrico a pianta latina con transetto, tiburio e sovrastante cupola trova lo spunto dai canoni baroc­chi del Vignola ormai diffusi e frequenti in tutta Italia.
Il campanile ottagono è l’altro elemento superstite, anche se poi coronato da una cupola, rivelando nelle sue linee essenziali il momento felice dell’architettura del XIV secolo in Sardegna. Molte altre opere, come le cappelle delle testate del transetto, furono eseguite molto più tardi ad opera del Cominotti. Per le dettagliate notizie e i raffronti si rimanda all’interessante testo di Maria Manconi “La Chiesa di S. Maria Cattedrale di Oristano”.
 
La Chiesa di S. Maria Cattedrale di Oristano.
                                                          
 Non desidero entrare nel merito di questa grave decisione dell’Arcivescovo Nin nel 1729 di demolire totalmente l’antica basili­ca, ma il desiderio del nuovo a tutti i costi cancellando totalmente il passato, è un aspetto che ha fatto perdere la testa più volte, nella storia di tutti i tempi, a coloro che in determinati momenti erano chia­mati a decisioni immediate di scelta.
La Basilica di S. Maria, comunque, nel suo scrigno di innesti felici ed armoniosi, cu­stodisce preziosi cimeli artistici che rimarcano gli incontri culturali dell’Arborea avvenuti nei secoli con la Tosca­na e la Spagna. E sono opere varie: dalle statue litiche policrome a quelle lignee, dai peducci pensili alle edicolette, ai plutei marmorei; dalle tavole pittoriche agli arre­di in argento; dai preziosi antifonari miniati agli arazzi, alle pergamene, ai leg­gii intarsiati. Tutte opere ancora integre, protette gelosamente nei secoli dalla furia degli eventi bellici e dai saccheggi, sotto la custodia di quel “Capitolo Arborense” consapevole della sua funzione di istituto depositano.
Il fervore edilizio in Oristano continuerà poi grazie alla munificenza di don Damiano Nurra Conca, un facoltoso signorotto scaltro e capace nella ammini­strazione feudale sia nel Mandrolisai che nel Campidano, tanto da ottenere nell’ 762 il titolo di marchese della peschiera d’Arcais, da cui il titolo gentilizio, dietro il pagamento annuo allo stato di 54 mila scudi sardi e in più uno sborso di 176 mila lire all’atto dell’approvazione della “paten­te”, più 40 mila dopo due anni di attività amministrativa.
Ma il marchese già dal 1748 era uomo di spicco nei campidani con tanto di contrat­to di acquisto e diploma regio per l’eserci­zio di curadore dell’alto ufficio della “insi­nuazione” che assolveva giuridicamente ai problemi relativi ai passivi fallimentari e alla autenticità e validità dei “trapassi im­mobiliari”. E ad Oristano il marchese appa­rirà come “mecenate” quando nel 1776 darà il mandato all’architetto Giuseppe Viana di costruire, accanto ad un suo preesistente palazzo di cui ancora si con­serva lo stemma gentilizio nel vicolo Arcais, il monastero che darà ai carmelitani. Prosegue quindi alla edifica­zione del bel palazzo residenziale del marchese (oggi della Provincia), con l’aereo lucernario a cupola.
E lo stesso modellato a “calice moresco” lo ritroviamo nelle due cupole della Chiesa del Carmine innalzata dallo stesso Viana negli anni 1783-85.
È un’opera felice, questa del Carmelo, di grande respiro, che mette in rilievo la sen­sibilità dell’architetto piemontese.
Qui l’arte Rococò raggiunge la sua delica­tezza aristocratica nei dosati e pacati toni del colore a tempera e nel modellato delle partiture che ricamano gli spazi dando sfogo alla luce che precipita (G. Farris, op. cit.), mentre “caratteri di capriccio hanno le quattro tribunette che alte si affacciano sul presbiterio e le due che compaiono in ciascuna cappella”.
La Chiesa del Carmine è quindi opera rococò straordinaria e, dice il Pau: “... oggi con tanta indifferenza verso i monumenti architettonici e con tanti pervertimenti nella percezione dell’arte, si passa spesso frettolosi e indifferenti di fronte a edifici che da soli costi­tuirebbero il vanto di una città”.
Riferendosi alla personalità e alle espe­rienze del Viana come architetto, Mario Loi nelle sue interessanti “Note” sul “Complesso del Carmine, riferisce: “la sua attività professionale denota una matrice juvarriana (partecipò ai lavori di completamento della palazzina di caccia di Stupinigi) cui sovente si aggiungono apporti e richiama neopalladiani e classicisti”.
E su quanto scritto dal Loi, io aggiungo senza alcun timore: nella fabbrica del Carmine, in quel già ridotto spazio a di­sposizione, l’architetto doveva pur dosare rapporti ed equilibri, e nella riuscita solu­zione compositiva dove tutti gli elementi si dipartono in una fuga lirica verso l’alto, intessendo una trama di delicati raccordi, il Viana compie qui il suo capolavoro e si rivela maestro del “rococò”.
                                   Portale di Vitu Sotto
 
 Questo filone culturale del “rococò” in Oristano, trova ancora la sua alta espres­sione nel bellissimo portale che porta il nome del suo signore, il marchese Vitu Sotto, contemporaneo dell’Arcais e dece­duto nel 1783.
Non si hanno notizie certe di questo si­gnore, ma il portale principesco che se­gnala l’ingresso ad una grossa proprietà certamente dotata di “foresterìa”, in territo­rio di Donigala, indica la potenza del prin­cipe e la sensibilità all’arte. Il portale, co­struito in arenaria, è a forte strombatura con cancellate ben ricamate, appare imponen­te nella sua mole ben modellata. Il frontone curvilineo terminante a spirale offre lo spazio allo stemma araldico inter­vallato da una croce a raggera apicale. Ai lati due strette paraste, una a bugnato e la seconda scanalata, decorate entrambi da rosette intervallate. Due graziose volute laterali ne racchiudono il prospetto che appare coronato da quattro elementi cuspidati con cariatidi. Tutti gli elementi decorativi sono modellati in trachite rossa mentre il resto della struttura è in bionda arenaria.
Questo bel portale, che non trova riscon­tri, meriterebbe di essere inserito nei testi di storia dell’arte, perché nel suo insieme rappresenta l’esempio più classico del gu­sto “rococò” rivolto alla architettura rurale. E nella sua oasi di verde costituisce una immagine di rara bellezza stilistica.
Vertilicalismo e virtuosismo si fondono e si armonizzano nel morbido plasticismo che modella i passaggi dei molteplici con­tenuti decorativi, e la luce si infrange pa­cata e soffusa insieme, nelle stemperate apparecchiature dal coloro nostrano. Non sembra proprio un portale di un sem­plice fondo rustico, ma l’emblema di una dimora principesca, l’ingresso di un parco aristocratico, raffinato, adatto ad un costu­me di vita mondana e lontano nel tempo che prende l’avvio da Versailles, poi per­corre Stupinigi e quindi l’eco giunge qui ad Oristano dove evidentemente l’alta no­biltà piemontese aveva trovato tra le lagu­ne ed il verde dei prati il suo mondo ideale legato indubbiamente, il tutto, a grandi interessi commerciali i cui momenti aurei sono così sporadicamente espressi in que­sti esempi di architettura “rococò”. Dopo il “rococò” la cui presenza è model­lata negli angusti spazi di quel centro sto­rico prescelto e nulla stravolge, ma si adat­ta nella sua pacata grafia architettonica al colore locale, ecco più tardi apparire nel 1847 in Oristano la corrente neoclassica guidata da Gaetano Cima che trasformerà totalmente la preesistente basilica gotica di S. Francesco, avviando nel contempo la topografia urbana a soluzioni più spazio­se e scenografiche che, con l’armonia della “rotonda” neoclassica della Casa Corrias ed il rifacimento della Chiesa di S. Vincen­zo caratterizzata dalla sua “meridiana”, aprono la piazza verso due direttrici che hanno come fondali il S. Francesco ed il Duomo ed armonizzano insieme l’am­biente così raccolto e salottiero. Non entriamo anche qui nelle complesse vicende che hanno indotto nel 1835 alla demolizione della cadente basilica gotica di S. Francesco, come non vogliamo soffermarci troppo sulle tormentate fasi della nuova fabbrica funestata dal crollo della cupola per imprecisi o affrettati cal­coli delle “spinte” ad opera del Cano, epi­sodio presto dimenticato per il successivo e felice intervento del Cima che portò a termine l’opera neoclassica.
Quel frangente rese ancor più povero quel glorioso Cenobio per le ingenti spese, tan­to da indurlo a svendere e privarsi di pre­gevoli opere d’arte come la bellissima ta­vola della “deposizione della croce” di Pietro Cavaro oggi nella pinacoteca ca­gliaritana.
In quest’ultimi secoli, Oristano è immersa in grossi problemi anche di sopravviven­za per l’abbandono del territorio e la insa­lubrità del luogo che portarono anche come conseguenza, alla soppressione nel 1807 della Prefettura trasferendola per ol­tre vent’anni a Busachi.
Pur afflitta da tante difficoltà, la città ebbe la forza di reagire avviandosi verso il pro­gresso. Soltanto alla fine del secolo verran­no portati avanti i lavori di bonifica delle paludi.
Dal Cinquecento all’Ottocento sorgono nuovi palazzi dall’impronta signorile e si moltiplicano le chiese anche fuori le mura. Così la bionda arenaria della seicentesca chiesa di S. Efisio darà tono alla piccola piazza e al borgo che si dilata fuori le mura. E la città, pur rispettando in parte l’assetto urbano giudicale, assume via via una nuova fisionomia che nell’Ottocento la ve de più dinamica e funzionale. Sorge il Seminario Tridentino, sobrio nelle sue li­nee e caldo nel colore dei suoi paramenti invecchiati.
La città sarà caratterizzata e servita in que­sto ultimo secolo da tante caratteristiche fontanelle pubbliche e non mancano nei dintorni gli abbeveratoi, ma la gente conti­nuerà a servirsi dell’acqua contenuta nelle ampie cisterne perla grande comodità che esse rappresentavano. Ecco il pubblico la­vatoio, ecco i selciati delle strade e dei vicoli interni della città.
E l’impronta del Cima aggiungerà ancora una nota signorile in tutto il contado della città, con gli eleganti portali neoclassici a timpano, completi di garitte interne incor­porate e sopraelevate, che aprivano i viali alberati dei fondi rustici e si aggiungeva­no così ai già preesistenti portali barocchi, eleganti anch’essi nelle armoniose volute, costituendo insieme un ricco patrimonio di architettura rurale che evidenziava non; unicamente l’antica vocazione all’agricol­tura, ma soprattutto il prestigio economi­co della Città.
Una pennellata di civetteria mondana e culturale sarà offerta dal Teatro San Martino, un piccolo scrigno neoclassico, col suo timpano, l’interno ovattato con i minuscoli e armoniosi palchetti decorati:
esempio, questo, significativo ed eloquen­te del nuovo fervore di vita.
A caratterizzare ancora la città saranno i cortili e i giardini sopraelevati ravvivati dalle chiome dei mandarini sporgenti dai recinti murari, lungo i labirinti tortuosi della topografia urbana, e ancora i balconcini arabescati in ferro battuto, te­stimoni di un’arte ormai scomparsa.
Oristano era questa, non una grande città, ma piccola, ancora giudicale nel suo peri­metro irregolare, signorile e civettuola, aperta agli influssi culturali, animata da una profonda anima contadina orgoglio­samente ostentata nelle sagre, nella sua Sartiglia, nel fervore dei suoi sobborghi, nelle sue ampie case di fango o di pietra dagli ampi cortili che ricordavano il “patio” spagnolo, dove i cavalli riposava­no e trovavano ristoro all’ombra delle ar­cate e dei pergolati.
Una città un tempo capitale di un regno, lacerata dalla stremante lotta contro le grandi potenze medievali per i più alti ideali di libertà.
Una città che ha tanto sofferto, scampata all’egoismo e poi alla incuria, e del lento suo morire mostra ancora le ferite che par­lano di una straordinaria storia che ha ora il sapore tutto di una leggenda.

 

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