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Scoperta italiana allunga la vita: Trovato il gene dell’invecchiamento:

"Abbiamo ottenuto topi più longevi di un terzo"

di Tanya Liberatore

Un pappagallo vive ben 120 anni, una farfalla solo un giorno o poco più, un cane e un gatto al massimo una ventina d’anni, un uomo più o meno 80 anni.

Che cos’è quello strano "comando" della natura, che determina l’invecchiamento e poi la fine?

Questo "comando" è un gene, chiamato p66shc. Lo hanno tolto a dei topi, ed è stato scoperto che vivono un terzo in più di vita, rispetto ai topi a cui non è stato tolto.

É stato l’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, insieme ad altri ricercatori, a scoprire questo gene, in modo casuale, durante una ricerca sul cancro.

É la prima volta che si dimostra che la vita dipende da un gene, o probabilmente da un gruppo di geni. L’ hanno scoperto con un esperimento che hanno dichiarato inoppugnabile. Da 10 anni si sapeva che in certi vermi e moscerini la durata della vita è controllata da un gene, ma non si sapeva che la stessa cosa valeva nei mammiferi. Questa scoperta non si può subito sperimentarla sugli uomini, perché se ne deve sapere di più. Infatti pare che questo gene abbia prima di tutto un ruolo nella proliferazione cellulare dei tumori. Poi si è scoperta la funzione bis: quel gene influenza il meccanismo dell’ ossidazione cellulare, cioè la formazione dei famosi "radicali liberi" che danneggiano la cellula e fanno invecchiare lei e noi.

Questo danno, l’ossidazione cellulare, è in realtà provocato da fattori esterni all’organismo (ad es. i raggi ultravioletti, i raggi gamma o ciò che si mangia, oppure da processi interni, come la respirazione stessa) e durante l’invecchiamento questo danno aumenta. Ma il gene p66shc controlla una proteina che governa la risposta cellulare allo "stress" ossidativo, perciò togliendo il gene che costituisce questa proteina, il processo di ossidazione rallenta e la vita si allunga.

Presto si arriverà anche al farmaco che allunga la vita?

UN GIORNO O CENT’ANNI IN PIÙ,

 VALE LA PENA DI VIVERLI?

di Veronica Clarin

Pier Paolo Pandolfi, 36 anni, dirige il Laboratorio di biologia molecolare e dello sviluppo nel Dipartimento di genetica umana al Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York, il più importante centro di ricerca sul cancro degli USA.

In collaborazione con un gruppo di ricercatori dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, ha condotto la ricerca sul cosiddetto gene della vita e ha scoperto che disattivando questo gene nei topi di laboratorio è possibile prolungare la loro vita media di circa un terzo.

Gli è stato chiesto se ne valga la pena: "Ma è un bene o un male che un essere vivente conquisti una maggiore longevità?"

Egli ha risposto che la natura ha diverse risposte su diversi livelli.

Il primo è quello delle specie animali che non usano la cultura per interagire con l’ambiente: l’unico scopo è la riproduzione della specie, ma una volta che questo è avvenuto è nocivo allungare la vita di un individuo che potrà solo competere con i figli. In questo caso la longevità viene controselezionata (cioè per la selezione naturale questo tipo di soggetti viene scartato).

Il secondo livello è quello della specie umana, che invece usa la cultura per interagire con l’ambiente. La longevità può essere, in questo caso, un fattore positivo; ad esempio, nonni longevi che badino ai nipotini quando i genitori lavorano o non possono accudirli, permettono ai bambini di crescere meglio.

Nello stesso tempo, però, se la vita si allunga troppo, nascono altri problemi: le vere e proprie "epidemie" tumorali, l’Alzheimer o altre patologie di oggi, sono il prezzo che si paga per il fatto che viviamo di più.

Non si può ancora dire che si tratti di una "vendetta" della natura o di una controselezione nascosta, e già attivata, nei nostri geni perché, se da una parte è vero che la longevità porta ad una competizione globale negativa ed alla maggiore possibilità di essere controselezionato (scartato), dall’altra è vero che l’ aspetto culturale (per esempio gli effetti a lunga distanza dei progressi medici) potrebbe ancora non essere evidente.

L’intervistatore ha insistito: " Ma vale la pena vivere più a lungo?"

Pandolfi risponde così: «Qui e oggi sì, perché vivere mi piace moltissimo, ma se fossi malato, se il prezzo da pagare fosse troppo alto, allora No.

E inoltre, comunque, c’è una constatazione, una domanda,"La domanda", che sicuramente fra cent’anni nessuno sarà più qui a porsi, ed è questa: CHE SENSO HA LA NOSTRA PRESENZA QUI? PERCHÉ COMPARIAMO E SCOMPARIAMO? PERCHÉ SOLO NOI, FORSE IN TUTTO L’UNIVERSO, SIAMO CAPACI DI CHIEDERCELO?

Questa capacità di porsi "La domanda" è un dono o forse una funzione selezionata nei nostri geni, che ci ha permesso di manipolare l’ambiente e potrebbe essere controselezionata perché ci dà dolore.

Siamo qui, intelligentissimi, sofisticatissimi, curiosissimi, dotati di menti attivissime ma non sappiamo perché ci siamo. E da questo nasce il dolore universale. Anche Albert Einstein provò a rispondere, e cosa fece? Toccò i confini del mistero, ma li toccò soltanto...»

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