Pier
Paolo Pandolfi, 36 anni, dirige il
Laboratorio di biologia molecolare e dello
sviluppo nel Dipartimento di genetica umana
al Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di
New York, il più importante centro di
ricerca sul cancro degli USA.
In
collaborazione con un gruppo di ricercatori
dell’Istituto Europeo di Oncologia di
Milano, ha condotto la ricerca sul
cosiddetto gene della vita e ha scoperto che
disattivando questo gene nei topi di
laboratorio è possibile prolungare la loro
vita media di circa un terzo.
Gli
è stato chiesto se ne valga la pena: "Ma
è un bene o un male che un essere vivente
conquisti una maggiore longevità?"
Egli
ha risposto che la natura ha diverse
risposte su diversi livelli.
Il
primo è quello delle specie animali che non
usano la cultura per interagire con l’ambiente:
l’unico scopo è la riproduzione della
specie, ma una volta che questo è avvenuto
è nocivo allungare la vita di un individuo
che potrà solo competere con i figli. In
questo caso la longevità viene
controselezionata (cioè per la selezione
naturale questo tipo di soggetti viene
scartato).
Il
secondo livello è quello della specie
umana, che invece usa la cultura per
interagire con l’ambiente. La longevità
può essere, in questo caso, un fattore
positivo; ad esempio, nonni longevi che
badino ai nipotini quando i genitori
lavorano o non possono accudirli, permettono
ai bambini di crescere meglio.
Nello
stesso tempo, però, se la vita si allunga
troppo, nascono altri problemi: le vere e
proprie "epidemie" tumorali, l’Alzheimer
o altre patologie di oggi, sono il prezzo
che si paga per il fatto che viviamo di
più.
Non
si può ancora dire che si tratti di una
"vendetta" della natura o di una
controselezione nascosta, e già attivata,
nei nostri geni perché, se da una parte è
vero che la longevità porta ad una
competizione globale negativa ed alla
maggiore possibilità di essere
controselezionato (scartato), dall’altra
è vero che l’ aspetto culturale (per
esempio gli effetti a lunga distanza dei
progressi medici) potrebbe ancora non essere
evidente.
L’intervistatore
ha insistito: " Ma vale la pena
vivere più a lungo?"
Pandolfi
risponde così: «Qui e oggi sì, perché
vivere mi piace moltissimo, ma se fossi
malato, se il prezzo da pagare fosse troppo
alto, allora No.
E
inoltre, comunque, c’è una constatazione,
una domanda,"La domanda",
che sicuramente fra cent’anni nessuno
sarà più qui a porsi, ed è questa: CHE
SENSO HA LA NOSTRA PRESENZA QUI? PERCHÉ COMPARIAMO E SCOMPARIAMO?
PERCHÉ SOLO NOI,
FORSE IN TUTTO L’UNIVERSO, SIAMO CAPACI DI
CHIEDERCELO?
Questa
capacità di porsi "La domanda" è
un dono o forse una funzione selezionata nei
nostri geni, che ci ha permesso di
manipolare l’ambiente e potrebbe essere
controselezionata perché ci dà dolore.
Siamo
qui, intelligentissimi, sofisticatissimi,
curiosissimi, dotati di menti attivissime ma
non sappiamo perché ci siamo. E da
questo nasce il dolore universale. Anche
Albert Einstein provò a rispondere, e cosa
fece? Toccò i confini del mistero, ma li
toccò soltanto...»