Enrico Bellone

Enrico Bellone, I corpi e le cose. Un modello naturalistico della conoscenza, Milano, Bruno Mondatori, anno 2000, pagg. 160, Lire 20000.

Enrico Bellone, storico della scienza presso l’Università di Padova, con questo saggio prosegue una ricerca orientata verso una “naturalizzazione” della conoscenza iniziata con la pubblicazione di opere quali il “Saggio naturalistico sulla conoscenza” (Bollati Boringhieri, Torino, 1992), “Spazio e tempo nella nuova scienza” (NIS, Roma, 1994), “Galilei” (Le Scienze, Milano, 1998).

Utilizzando una procedura di analisi che tiene conto di come opera l’evoluzione da un lato, e di come si realizza la percezione del mondo a livello neurofisiologico dall’altro, l’autore si muove per mettere in crisi una ”abitudine”, per contrastare un “pregiudizio” e da ultimo per far emergere una “constatazione”.

Esaminiamo l’abitudine: “gli esseri umani tendono a descrivere il proprio ambiente dicendo che esso è formato da cose corporee disposte qua e là nello spazio tempo”.

Su questa abitudine si innesta il pregiudizio: “credere che il linguaggio sia un veicolo grazie al quale la mente umana cattura idee e significati, nell’ipotesi che idee e significati siano entità non materiali, trasportabili da una mente all’altra per mezzo di parole o segni d’altro genere”.

La constatazione infine è: “le sensazioni che abbiamo nell’esplorare l’ambiente e le descrizione di quest’ultimo…si realizzano grazie a processi che avvengono nei nostri corpi e che, nella stragrande maggioranza dei casi, sfuggono completamente alla nostra consapevolezza”.

L’autore, utilizzando un linguaggio semplice, privo di lati oscuri o peggio noiosi, il più adatto ad un affinamento del senso comune quale deve essere la scienza (così riteneva Einstein!), indica precise risposte al perché il mondo ci appaia diviso in oggetti collocati nello spazio, all’interno di una continua evoluzione temporale.

Alla base del nostro pregiudizio troviamo la convinzione che “l’apprendimento sia responsabile di tutto ciò che facciamo e di tutto ciò che siamo, compreso il nostro modo di pensare e la nostra personalità”. In realtà, come convincentemente illustrato, i nostri comportamenti vengono determinati il più delle volte da precisi processi biologici di cui spesso ignoriamo l’esistenza. In questa prospettiva è particolarmente significativo riportare, insieme all’autore, quanto affermato da Steve Pinker: “La ragnatela non è stata inventata da uno sconosciuto aracnide geniale e non dipende dall’educazione ricevuta o da un’attitudine all’architettura e alla costruzione. In realtà il ragno tesse ragnatele perché ha un cervello da ragno, che gli fornisce la spinta a tessere e le competenze per farlo”. Eppure tra dispositivi che gli animali fabbricano per sopravvivere e “strumenti tipici” realizzati mediante il risultato di comportamenti umani, quali il linguaggio o un manufatto di terracotta, esistono analogie dirette e profonde.

Facendo proprie le posizioni espresse da Hermann von Helmholz si giunge quindi a riconoscere come la “conoscenza sia una procedura che si organizza in quanto gli organi di senso generano non immagini più o meno fedeli degli oggetti, ma gruppi di segni (o segnali) che il cervello interpreta e mette alla prova con controlli effettuati dal corpo sull’ambiente circostante”.

In questo processo di raccolta l’uomo non è un semplice recettore passivo che registra, in maniera meccanica, le presenza di stimoli esterni. La nostra struttura biologica, la fisiologia stessa delle fibre coinvolte nella dinamica dell’apprendimento, hanno un ruolo decisivo in questo processo. Così, ad esempio, i nostri sensori ottici producono “sensazioni che chiamiamo luminose” se stimolati da opportuni agenti esterni che possono essere luci ma anche pressioni o correnti elettriche. Questa posizione attiva e creativa è testimoniata poi dalla considerazione che i segnali generati dal nostro sistema sensoriale non hanno “alcuna somiglianza con gli oggetti che usualmente individuiamo come cause esterne delle nostre sensazioni. Sono segni, non immagini.”

La nostra eredità culturale che si rifà alla tradizione di pensiero tracciata da Galilei, Cartesio, Locke, Newton, secondo la quale “il mondo sia rappresentabile con precisione, a patto che siano posti sotto controllo i dati sensoriali” viene analizzata alla luce di una congruità logica di ogni singola affermazione, in riferimento a quanto oggi ben conosciuto in campo biologico.

A questo proposito è opportuno ricordare che lo schema Cartesiano dell’apprendimento, distinto in fasi successive, mediante le quali, stimoli esterni producono mutazioni all’interno dell’uomo che generano immagini in progressione successiva fino a giungere alla ghiandola pineale dove la mente attribuisce valori e significato, è chiaramente connesso con le conoscenze anatomiche e fisiologiche dell’epoca.

“Galilei, Cartesio, Newton, Locke e Berkeley prestano attenzione alle conoscenze scientifiche sulla sensazione e muterebbero molte delle loro opinioni se potessero, oggi, studiare i libri e le riviste specializzate dove sono resi pubblici i risultati delle ricerche”. Oggi sappiamo che tutti gli stimoli che giungono dal mondo esterno sono rielaborati in soli due segni, attribuibili a variazioni di potenziale elettrico nelle membrane che circondano le cellule. Tali segni, formano un linguaggio universale essendo utilizzati dalle cellule nervose di tutti gli animali conosciuti.

“I segni da soli o in sequenze, non assomigliano alle cose del mondo esterno e alle loro proprietà, così come la parola gatto non assomiglia ad alcun gatto”.

Una domanda viene dunque spontanea: “…come facciamo allora a distinguere un colore da un profumo, un suono da un sapore?”. Sembra che esista una sola risposta. Il significato di una sequenza di segnali non sta nella loro sequenza, ma nelle fibre nervose che la sequenza percorre e nelle interconnessioni tra i neuroni coinvolti.” Questa chiave di interpretazione “fisiologica” della realtà ci consente di giungere a convincenti conclusioni anche per quanto riguarda concetti assai spesso di difficile comprensione quali lo spazio ed il tempo. Nel mondo esterno a noi, spazio e tempo, così come rappresentato nella teoria della relatività ristretta di Einstein, rappresentano quattro dimensioni unite tra di loro. Ma tale unità si rompe fatalmente a contatto con l’individuo:

“l’ordine si spezza nelle manifestazioni distinte dello spazio e del tempo. Un individuo è un oggetto quadrimensionale di forma molto estesa; nel linguaggio ordinario diciamo che possiede una grande estensione nel tempo ed un’estensione insignificante nello spazio”.

Considerando il concetto tempo secondo le attuali conoscenze sulla modalità di funzionamento del nostro cervello, possiamo formulare la ragionevole ipotesi che “il tempo soggettivo non è una prerogativa della coscienza o della mente o di un omuncolo nascosto chissà dove nel cervello, ma è il prodotto di quei processi di categarizzazione che il cervello così bene realizza quando assegna un colore o un profumo”.

In una prospettiva di sviluppo biologico di tipo evolutivo e non intenzionale, possono essere ricondotte anche la formulazione di teorie scientifiche e l’acquisizione di nuove capacità tecnologiche. “Molte scoperte sono indubbiamente il frutto di previsioni ragionevolmente confortate da ipotesi teoriche preesistenti, ma moltissimi eventi notevoli di scoperta sono, invece, il risultato inatteso di programmi di ricerca che erano stati pensati per scoprire altre cose o per controllare risultati già ottenuti…Siamo dunque costretti a prendere atto dell’evoluzione non intenzionale dei dispositivi teorici e sperimentali che noi costruiamo”.

Si può quindi tracciare una linea di conclusione osservando come tutti gli organismi viventi riescono ad organizzare i dati sensoriali generati da perturbazioni provenienti dal mondo esterno, grazie ad una “specie di conoscenza innata” che riconosce e assegna significato a tali eventi.

Questa significazione è determinata in massima parte dalla struttura biologica e fisiologica dei diversi sistemi sensoriali attraverso cui si propagano i segnali stessi. Questo significa in definitiva che “la maggior parte della conoscenza, in tutti gli organismi, è incorporata nella loro struttura biochimica e rappresenta un adattamento ad un ambiente in parte ignoto”.

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