Il bene più prezioso

 

"Ci hanno rubato il nostro bene più prezioso, il silenzio..." (da "Kundun" di M. Scorsese)

Cito a memoria questa volta non avendo possibilità di riscontro immediato - dunque con un certo margine d'approssimazione quanto alla forma, alle parole, non al contenuto - una battuta dalla sceneggiatura del film "Kundun" di Martin Scorsese. Può darsi che la pellicola sia per certi aspetti discutibile, non vorrei negarlo, ma ritengo che essa abbia almeno il pregio di rilanciare con vigore la spinosa questione tibetana dopo l'invasione di quella terra da parte delle milizie della Repubblica Popolare Cinese.

Non è questo il luogo per affrontare questioni d'ordine politico e sociale che esulerebbero tra l'altro in buona parte dalla mia competenza, sebbene non possa fare mistero della mia completa deplorazione per un atto d'imperialismo che ha colpito al cuore una delle maggiori Tradizioni religiose di tutti i tempi. Ciò che mi importa ora è il senso di quelle parole (attribuite al Dalai Lama del Tibet, Tenzin Gyatso) ed il contesto in cui esse sono pronunciate.

Il silenzio della reggia-monastero del Potala è infranto dal fragore degli stupidi inni patriottici cinesi che gli altoparlanti vomitano sulla città di Lhasa. Un silenzio che fluiva da secoli attraverso le sale e i corridoi del palazzo, che permeava persino le suppellettili sacre delle cappelle dedicata alle divinità protettrici del Tibet; un silenzio che scorreva come linfa vivente materiando in sé memorie e insegnamenti segreti, illuminazioni ed oscuri giochi di potere; questo silenzio, ecco, è disintegrato e con la sua soppressione sono recise le radici che nutrivano l'albero lussureggiante della Grande Conoscenza. Ma forse esiste un furto persino più grave dell'espropriazione di silenzi fisici, ed è quello del silenzio interiore, e questo furto nessuno può compierlo senza una forma d'inconsapevole (o talvolta deliberata) partecipazione del derubato. Il Dalai Lama è stato costretto a fuggire dalla sua reggia-monastero troneggiante sulla borgata di Shöl, il Dharma di Buddha emigra verso le terre dell'ovest dove noi occidentali tecnologici ed inurbati trascorriamo la vita in contesti ove il fragore regna sovrano.

Alla stupidità degli inni patriottici cinesi si sostituiscono infinite altre stupidità, tanto è fatto acquisito che la stupidità tenda ad essere cosmopolitaŠ Dove potremmo allora ritrovare quel bene sommamente prezioso, il silenzio; quella linfa che può restituirci memorie e conoscenza, storia ed esperienze vissute, direzione e identità? Ecco: per questa estate vorrei far dono ai lettori d'un suggerimento sotto forma di poesia, un testo così discreto e sommesso da sfiorare esso stesso il silenzio, un piccolo talismano da portare con sé in vacanza sulla riva del mare o tra le valli, in viaggio e nella quiete delle stellate d'agosto:

Viandante che hai spinto il cammino

fino alle pendici boscose del T'ai-shan

chiedendo riposo per il tuo cuore

tanto anelante al Silenzio che Canta,

sospendi infine i tuoi passi e ascolta

il vento stormire tra i rami,

poiché la quiete che sempre hai cercato,

se tu la desideri, ormai l'hai raggiunta.

Per imparare a ritrovare poi il silenzio anche nel fragore della nostra vita quotidiana.

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