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La
cosa più bella di una storia è che te la possono raccontare in
molti modi. Te la mettono lì nuda e cruda, a voce, e a te resta
solo da ascoltare. Oppure la infilano in un libro, e allora te la
puoi godere per pagine e pagine. Oppure ci costruiscono attorno un
film, e paghi il tuo biglietto perché ti facciano entrare nella
trama. Oppure ancora te la raccontano in teatro e allora - se lo
spettacolo è ben riuscito - per me è il massimo.
L'opera sta in quest'ultimo mucchio, è un modo di raccontare una
storia a teatro, con la differenza che la gente invece di parlare
canta e intorno, al posto del silenzio, c'è un'orchestra che suona.
In sé, a pensarci, quello dovrebbe essere un modo bellissimo di
raccontare una storia. Poi però, spesso, uno muore di noia. Perché?
Intanto è una questione di tempi. Le opere che di solito ci fanno
ascoltare, quelle di Donizetti, Verdi, Puccini, sono state scritte
in epoche in cui per andare da Torino a Milano ci mettevi un giorno,
a fare pranzo impiegavi un'ora e mezza, la volta che facevi il
bucato eri impegnato per un intero pomeriggio e tutte le mattine
potevi permetterti il lusso di andare dal barbiere a farti radere. E
allora startene lì due ore a farti raccontare una storia era
diverso, perché oggi quella stessa storia ti può arrivare con
l'e-mail mentre addenti un cheeseburger dopo esser sceso da un aereo
proveniente da Chicago sul quale ti sei fatto la barba col tuo
bilama e con la lavatrice nella stanza accanto che si preoccupa di
fare i conti col contenuto del tuo zaino. Dunque uno a questa cosa
deve pensarci, perché poi, se ci ha ragionato un momento, un'opera
se la può godere e scopre che è uno spettacolo bellissimo.
La seconda questione è che l'opera, a dir la verità, non racconta
la storia che dice di raccontare, quella stampata sul libretto (che
i più appassionati si portano in tasca e - roba da matti - leggono
con una piletta durante lo spettacolo). L'opera racconta tutto ciò
che non si può dire in un altro modo, l'amore trepidante e la
rabbia feroce, l'invidia, la tensione e la felicità, la paura, la
potenza. Tutte cose che la musica di un'orchestra che suona e la
voce dei cantanti ti vanno a mettere direttamente nel cuore e nello
stomaco, senza nemmeno sfiorare il cervello, e allora quando entrate
ad ascoltare La Traviata o Tosca dovete sapere che le parole che
faticate a capire hanno la loro importanza ma che il bello dello
spettacolo - quello che dà punti al cinema e ai romanzi più
travolgenti - sta in ciò che vi si infila dentro senza che sappiate
dire da dove è entrato.
E se state a guardare i movimenti scelti dal regista, le scene, i
costumi, le luci, se guardate i vestiti esagerati delle madame alla
prima e ascoltate la meraviglia che vi soffiano nelle orecchie dal
palcoscenico le voci più fascinose, capite che l'opera è uno
spettacolo complesso, molto più complesso di un film o di un libro,
e che per innamorarsene le prime volte bisogna fare un po' di fatica
ma poi, capite le regole del gioco, la si va a mettere tra le cose
belle della vita. |
Non solo l'opera è
lenta ma, in più, le storie che racconta di solito non assomigliano a
Pulp Fiction né a Star Trek. Anche lì, bisogna abituarsi un momento.
Certe storie che si ascoltano all'opera, però, hanno addosso una
bellezza incredibile e sono storie che fa piacere imparare. Più di
tutte a me piace quella di Don
Giovanni, che sta dentro
un'opera di Mozart. Don Giovanni, come dice la parola stessa, è un
donnaiolo impenitente, un playboy di quelli tosti che non si fermano
di fronte a nulla. Le sue squinzie si chiamano Donna Anna, Donna
Elvira, Zerlina, e lui le fa girare come vuole, aiutato dal
maggiordomo Leporello (che gli sciorina certe paternali senza senso ma
poi, in quanto a donne, va al traino dal padrone). Fidanzati e mariti
delle squinzie vorrebbero fare il tombino a Don Giovanni, ma lui è un
furbacchione e riesce sempre a cavarsela. Finché da un cimitero viene
fuori nientemeno che la statua del padre di una delle bambole e, dopo
aver invano suggerito a Don Giovanni di farsi furbo, lo fa sprofondare
all'inferno con soddisfazione di tutti i presenti che si mettono a
cantare - ricordatevi che siamo in un'opera - "Questo è il fin
di chi fa mal…".
Ma
perché, uno si chiede, quelli cantano a quel modo, che sembra
si strozzino e stiano sempre per schiattare? La questione è
che una volta - quando è nata l'opera, quando si è
sviluppato il belcanto - non c'erano microfoni, mixer e casse,
e i teatri erano grandi, e la gente tanta, e insomma per farsi
sentire si è inventato quel modo di cantare lì (che in realtà
permette ai cantanti di non sgolarsi e far arrivare la voce
lontano). Poi, a esser sinceri, una bella voce
impostata (si dice così)
è una cosa piacevole e certe volte la melodia di un soprano
ti sconquassa lo stomaco manco fosse Mina. Oggi che esiste
l'elettronica, però, molti compositori scelgono di
interrompere la tradizione e scrivono opere per voci non
impostate, come quelle della musica leggera o quelle che si
usano per cantare musica antica (che non aveva ancora esigenze
di "amplificazione naturale" perché le sale erano
piccoline); e insomma certe opere di oggi sembrano più un
concerto dei Neri per caso che una replica di Aida.
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