WILLIAM HILL

(An Endless Night)

by Rachel Barnacle

 

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Al vecchio Buk

 

 

Qualche fottuto gatto doveva aver rovesciato i bidoni della spazzatura nel vicolo, perché si era svegliato di colpo senza sapere perché. Fuori era notte.

Il fetore della città entrava dalla finestra spalancata fino alla soglia delle sue lenzuola, gli si infilava nel naso, acre e pungente, per poi martellarlo in un punto preciso al centro della fronte. "Oh no" pensò "Al diavolo" pensò, stava cominciando a spuntargli un mal di testa nuovo di zecca.

Se ne stava lì a occhi chiusi, desiderando disperatamente di non aprirli mai più per un migliaio d’anni, ma il sudore acido del dopo sbronza già lo incollava al letto. Odiava quella sensazione, forse avrebbe dovuto alzarsi. "Col cazzo" boffonchiò. Eppure lì non poteva restare, cominciava a sentirsi immensamente infelice. Raggiunse il compromesso di voltarsi per controllare l’ora. Il mondo gli si torse davanti come uno strofinaccio nelle mani esperte di una massaia. Dai confini del suo raggio visivo lesse "0:18" nel quadrante luminoso, poi l’intera città gli si infilò nelle narici e gli esplose nel cervello.

Corse al cesso a vomitare.

 

Ricordava poco della serata prima, non aveva idea di quanto avesse dormito. "Poco" pensò, e poi "Al diavolo". Tom doveva averlo riportato a casa, o forse c’era arrivato da solo. Però Tom se lo ricordava, e anche qualcos’altro si ricordava: Rita. Chi diavolo era questa Rita. Era un nome senza faccia. Lo colpì un pensiero: "bionda". "Sarò riuscito a toccarle almeno il culo?" si chiese.

Forse avrebbe dovuto telefonare a Tom e domandarglielo.

Il culo di questa Rita non gli dava pace, era seduto davanti alla finestra con una cicca in bocca e la brezza della notte gli accarezzava le mutande, ormai ricordava che era riccia, lunghi capelli ricci e biondi. Alzò la testa e vide le stelle brillare come pazze, così lontane e belle. Era quasi l’una.

 

Doveva telefonare a Tom assolutamente, ormai si era convinto. E doveva prendere una boccata d’aria. Allungò la mano verso la bottiglia sul comodino ma la mancò di qualche centimetro. Tentò ancora stiracchiandosi più che poté, ma niente da fare. Si mise a fissare la bottiglia con intensità. Dove il lampione ci si rifletteva sopra, il vetro prendeva il colore ambrato dell’oro rosso, un tramonto infuocato prima che esploda un temporale. Era praticamente vuota.

Scattò in piedi improvvisamente e scolò quel poco che rimaneva con una sola sorsata, ma non tornò a sedersi. Lanciò la bottiglia sul letto.

Cominciò a girare per casa a piedi nudi come una tigre in gabbia "Quella era l’ultima" si disse, e poi "al diavolo", ma frugò lo stesso in ogni angolo. Andò avanti così per un po’.

Si fermò con il culo sul tavolo, curvo sul perno del suo braccio, boccheggiante, quel sudore cattivo che gli appiccicava i capelli. Doveva fare un salto da Badgens. E doveva prendere una boccata d'aria. E doveva telefonare a Tom.

No, forse prima di tutto doveva telefonare a Tom, e poi prendere una boccata d’aria e andare da Badgens. "Rita" pensò. Tornò alla finestra.

All’improvviso gli venne duro. Si guardò esterrefatto la tela ormai tesa delle mutande, senza capacitarsi "Che accidenti credi di fare?" gli disse. Per tutta risposta la tela si tese ancora di più. "Oh Cristo".

Ricadde a sedere sempre guardandosi tra le gambe. Forse avrebbe dovuto farsi una sega. E poi avrebbe telefonato a Tom. E poi sarebbe uscito. Ma prima la sega. Sospirò. Scostò la patta delle mutande e il pisello gli saltò in mano come un pupazzo a molla – Ah! Ah! Sorpresa! – "Stronzo" gli ringhiò.

Cominciò a menarselo soprappensiero. Si era alzata una brezza leggera che stava spazzando via il tanfo dalle strade, respirò, non era male. Cercò di ricordare di più questa Rita, possibile avesse gli occhi blu? Era possibile sì. Possibile che lo avesse spompinato? Chissà. Magari lo aveva spompinato.

Si immaginò Rita che lo spompinava. La sua boccuccia a cuore (possibile avesse la boccuccia a cuore? Mah!) che gli correva sull’asta, avanti e indietro. Non era male. Poi gli venne in mente la vicina di sotto. Era una puttana stronza sui cinquanta, ma con un paio di tette mortali. Sempre presa a guardare dall’alto in basso e a sfoggiare il nuovo straccio da mille sterline comprato dal maritino, ma che tette, cristo, che tette! Scommetteva che da schienata non si dava tante arie, la cocchina. Scommetteva che a infilzarla per bene avrebbe avuto poco di che lamentarsi, ah sì. Stava per venire. Ancora un paio di colpi e c’era. Gli venne un idea diabolica.

Si alzò di scatto e puntò il pisello verso la finestra aperta, proprio mentre godeva. Con un po’ di fortuna poteva aver centrato dritto dritto i panni stesi della stronza. Si affacciò con un sorriso malefico. C’era andato vicino tanto così. Vedeva chiaramente una chiazzetta irregolare e lattiginosa sui gerani dei Kemsley, al terzo. Pazienza, non si può avere tutto dalla vita.

Fuori era ancora notte.

 

"Pronto?" una voce di donna strascicata dal sonno. "Linda, passami Tom" – "Hank?" – "Sì tesoro, passami Tom, vuoi?" – "Sssì…un secondo". Rumori attutiti da un palmo sul ricevitore, parole ovattate. Poi sentì la cornetta passare chiaramente di mano e il "…non lo so" di Linda a distanza e

"Hank, che succede, stai male?" era Tom.

"No, tutto a posto. Senti, sto diventando matto, c’era una certa Rita ieri sera?" ci pensò un attimo "Bionda" aggiunse. "Ma non lo so, cristo santo Hank sono le due di notte!" – "Dai fai uno sforzo, amico, ci sto diventando matto" disse convinto. Sentì Tom sospirare dall’altra parte del filo.

"Senti, ti ho visto che parlavi con una tipa bionda, ma poi lei se ne è andata" – "Perché se ne è andata?" – "Che diavolo vuoi che ne sappia, eri tu che ci stavi parlando! Magari avrai tentato di farle vedere il pisello o qualche altra porcata delle tue, senti Hank, io tra quattro ore mi devo svegliare e…" – "Sì, O.K. Tom, grazie". Riappese. Farle vedere il pisello eh? Sì, poteva essere andata così. Altroché.

D’un tratto lo colpì una speranza remota. Andò ai piedi del letto e raccolse da terra la giacca con cui era uscito, cominciò a rovistarla da cima a fondo. Dalla tasca interna gli fiorì sul palmo un bigliettino stropicciato e unto. "Rita" c’era scritto, con calligrafia tutta curve e ricci "020 77936592 – 18 Gravel Lane".

Bingo.

 

Si era vestito ed era sceso in strada, c’era ancora quel venticello pulito che sapeva di buono, per il resto, nessuno. S’incamminò per il vicolo senza altri rumori che i suoi passi e sfociò in Whitechapel Road qualche minuto dopo. La città sembrava morta stecchita, "Al diavolo", pensò.

L’insegna di Badgens in lontananza inondava di arancione il marciapiede lavato di fresco. Si fermò un secondo per accendersi una cicca e poi ripartì, all’improvviso tutto gli sembrava meraviglioso. Avrebbe comprato una boccia di Beam e poi sarebbe andato a dividerla con Rita di Gravel Lane. Magari lei si sarebbe sorpresa di rivederlo così presto, ma come si dice, chi ha tempo non aspetti tempo.

Fantasticava ancora sui riccioli di Rita quando entrò da Badgens. La luce al neon gli fece strizzare gli occhi. Costeggiò gli scaffali dei dolciumi e per un attimo si chiese se non era il caso di comprarle anche dei muffins o magari qualcuna di quelle tortine alla ciliegia. "Non esageriamo" si disse. Raggiunse il banco.

"Salve Lou, due pacchetti di Lucky e una bottiglia di Beam". Lou lo guardò con una faccia di carta. Poi si torse come se gli costasse una fatica terribile, arraffò dallo scaffale le Strike e le sbatté sul banco: ciaf! - "Fanno otto e sessanta" disse. "…e una bottiglia di Beam, Lou". Lou lo guardò di nuovo con quella sua faccia di carta, per un lungo secondo rimase così a guardarlo. Poi, visto che non stava succedendo un accidenti di niente di quello che Lou desiderava, e cioè essere pagato e essere lasciato solo, decise che anche se a malincuore era il caso di aprir bocca. "Hank, lo sai che non posso vendere quella roba dopo la mezzanotte". Lo disse con quel tono pacato da timorata di Dio appena abbordata: "Oh no Hank, lo sai che sono vergine".

"Gesù, piantala, la fuori è il dannato deserto dei tartari, molla il Beam".

"Niente da fare amico" disse Lou serafico "se mi beccano io chiudo bottega".

"Ma chi vuoi che ti becchi, chi diavolo ti deve beccare!" stava cominciando a innervosirsi, e quella luce accecante gli trapanava gli occhi fin dentro al cervello.

"Senti Lou, tu mi dai quella stramaledetta boccia, io me la infilo sotto la giacca, e vado dritto a casa, eh?" suonava convincente per chiunque "Abito qui dietro, lo sai, coraggio, apri quel dannato scaffale". Lou sospirò e tirò fuori il mazzo di chiavi.

"Così si fa, amico" – "Sì, ma tu fili a casa alla velocità della luce" disse Lou esausto – "Come un dannato razzo, giuro" mano sul cuore che possa morire.

"Fanno venti e sessanta".

"Senti, sarei un po’ a corto al momento, non è che tu…" – "Fuori dai piedi, sparisci di qui" – "Sei il migliore Lou, domani ripasso con i soldi" – "Levati dai coglioni Hank" – "Sì, grazie Lou". Afferrò il sacchetto di carta e s’incamminò, gli occhi di Lou appiccicati sulla sua giacca spiegazzata.

Non appena fuori dal negozio cacciò la bottiglia e se ne fece una lunga sorsata. Gli strepiti arrivarono puntuali come treni svizzeri. Era già a mezzo isolato e ancora sentiva Lou che gli dava del figlio di puttana in tutte le salse. Si mise a ridere sotto il cielo nero. Sotto quel miliardo di stelle.

 

Arrivò al 18 di Gravel Lane che erano passate da poco le tre. Aveva sentito un orologio rintoccare verso Aldgate East circa dieci minuti prima. Ora aveva davanti una palazzina di tre piani con un minuscolo fazzoletto di prato davanti. Molto ben tenuto. Civic e Ford lucidate parcheggiate fuori il vialetto. "Uh, uh" pensò. Si avvicinò ai campanelli.

C’era un F. Tramell, un C. Mozley e un R. Boyne, all’ultimo. Era la sua Rita, senza dubbio. Anche perché giusto sopra la pulsantiera c’era una piccola targa laccata con su scritto "Dott. Rita Boyne. Orario di visita: Lun. Merc. Ven. 10 – 18". "Uh, uh" pensò di nuovo.

Per un attimo rimase interdetto sul prato di Rita Boyne. Dottoressa. Poi suonò.

L’impressione fu che non avesse svegliato proprio nessuno. Quasi immediatamente l’ultima finestra in alto si illuminò e si affacciò la siluette di una donna. "Sì?" era Rita. "Errr…Sono Hank" perché gli stava battendo il cuore in quel modo? "Che razza di stronzo" pensò. "Ah, è lei, salga pure. Ultimo piano" e tornò dentro. Il portone si aprì con un clack.

La palazzina non aveva ascensore, e così si sorbì quel miliardo di scale. Aveva ricominciato a sudare, quel sudore malato. La porta dell’appartamento di Rita Boyne era socchiusa. "Rita Boyne dottoressa" pensò. E poi "Piantala". Entrò.

Doveva essere una specie di soggiorno, con la cucina a vista dietro un archetto bianco, ma lei non era ancora lì. Poltrone di pelle chiara, luci soffuse, e finestre su Christchurch. Dottoressa. "Piantala" pensò. Lo sorprese che spulciava la sua libreria. "Ama la letteratura, Hank?" ci restò secco. Aveva gli occhi blu davvero, vigili e incorniciati dal filo d’oro degli occhiali. E aveva la pelle di certe albicocche di Maggio. E aveva una vestaglia con tanti rametti di piccoli fiori. E aveva la bocca a cuore, maledizione. "Io ho portato una bottiglia" disse. Le mostrò il Beam intaccato per un quarto. Lei gli sorrise. "Molto bene" sembrava sorridere anche la sua voce "ne berremo un bicchierino insieme. Si accomodi".

Più che camminare pareva scivolasse, come se avesse dei dannati cuscinetti a sfera sotto i piedi. Scivolò in cucina. Tornò un secondo dopo con un vassoio e due bicchieri quadrati e massicci da whiskey. Poi sedette di fronte a lui.

"Mi deve scusare se mi presento così, Hank, ma davvero non speravo di rincontrarla tanto presto" versò il Beam nei bicchieri "Vuole del ghiaccio?" – "No". Solo che suonò più come un gracchio: "Na". Quella vestaglia sembrava viva. A ogni minimo movimento di lei andava a scivolare piano e a scoprire e ricoprire ogni volta nuovi centimetri di braccia, gambe, collo. La vestaglia scivolava, i suoi piedi scivolavano, tutto sembrava scivolare in lei. Si aggrappò al bicchiere e lo tracannò. Perché per la miseria, da un buon quarto d’ora gli sembrava di essere diventato scivoloso pure lui. Si sentì meglio. Lei gli rimboccò il bicchiere. "Lei è un alcolista, non è vero?" - "Senta Rita, io (mi sono fatto una sega pensando a te) le avevo per caso promesso di venirla a trovare?" – "No, lei aveva detto che non sarebbe venuto. Ho cercato di persuaderla, ma pareva fermo sulla sua posizione".

Aveva sentito proprio quello che aveva sentito? Si aggrappò al bicchiere di nuovo. Poi si alzò dalla poltrona, andò alla finestra. A terra c’era questa moquette color tortora, e sembrava morbida e vellutata, avrebbe voluto infilarci i piedi dentro. Odiava portare le scarpe. "Posso togliermi le scarpe?" – "Ma certamente". Tolse le scarpe. La moquette era proprio come sembrava.

E in quel momento non desiderò altro che Rita Boyne gli venisse – gli scivolasse – accanto, e gli abbracciasse la schiena. E rimanere così, con quella moquette sotto i suoi piedi, e le braccia di Rita Boyne intorno al corpo. "Venga a stendersi, mi sembra piuttosto stanco" – "Sì" disse lui.

Si stese sul divano e chiuse gli occhi, sentiva la voce leggera di Rita a due passi da lui, quella brezza benedetta della notte sulle ciglia. "Io posso aiutarla Hank. Mi parli di se. Lei scrive, non è vero? Mi ha detto che scrive, di cosa scrive?" – " Di me. Mi accarezzi la testa". Gli accarezzò la testa, e che dita sottili aveva. "Mi parli ancora" le disse.

"Hank, io posso aiutarla". E poteva, era certo. Lei sapeva come.

Poi smise di accarezzargli la testa. Fu giusto un attimo. Solo un attimo.

"No" pensò. "E’ troppo poco. Troppo tardi". Aprì gli occhi. Rita stava seduta accanto a lui su un angolo di divano, con la mano alzata pronta a rituffarsi tra i suoi capelli. Lo fissava. Probabilmente non aveva mai smesso di farlo. Le catturò il polso e la tirò a se. Non se l’aspettava, le finì sopra senza un suono. Era leggera. Per un attimo non ci fu che il fruscio della sua vestaglia che ricadeva. Le prese il viso, quel viso che era diventato tutto occhi e la baciò. Sentiva quel petto sul suo, perfettamente incollato, sentiva quelle curve, morbide, e il suo cuore, all’impazzata, che batteva e batteva e batteva.

Rita puntò le braccia e gli si scollò di dosso con tanta foga che cadde all’indietro. Cercò un equilibrio con tutta se stessa, ma riuscì solo a rovesciare un bicchiere dal tavolo e poi finì col culo per terra. Fece forza sulle gambe e cominciò a strisciare all’indietro più veloce che poteva. Con quel viso. Tutto occhi. "Rita…"

"N…nnn…" se le stava lì per terra a sgambettare con un braccio teso contro di lui, il palmo aperto contro di lui. "Rita scusami, scusami". Scusami.

"Rita, che succede?" la voce insonnolita arrivò dalla mansarda. Lei rimase lì senza staccargli gli occhi di dosso "Nulla Dean, è tutto a posto" - "C’è qualcuno con te?" la voce insonnolita non era più tanto insonnolita. Lei esitò. "S…sì, c’è un paziente, ma sta andando via". Non gli mollava gli occhi di dosso. "Cristo" disse Dean. Poi cominciò a sentirsi un ciabattare per le scale. Un ciabattare che si avvicinava. Rita schizzò in piedi. Pensò bene di schizzare in piedi anche lui. Giusto in tempo. Dean fece la sua entrata in mutande e canottiera. Rimase un attimo a guardarli tutti e due "Questo chi cazzo è?" chiese. "Te l’ho detto chi è, datti una calmata" disse Rita. "Datti una calmata? Datti una calmata? Cristo di un dio Rita sono le quattro del mattino, sei in vestaglia e c’è un coglione nel nostro soggiorno, che cazzo hai in testa?". "Dean non ha tutti i torti" pensò.

"Beh, sto solo cercando di fare il mio lavoro" rispose lei. La sua voce era ancora calma, ma aveva gli occhi in fiamme. Si guardavano fissi. "Lo hai raccattato in qualche pub, non è vero?" si guardavano fissi. "Lo hai visto a terra e hai pensato bene di dargli il nostro indirizzo" non si mollavano un attimo. "Magari gli hai anche detto di venire quando voleva" – "Sto solo cercando di fare il mio lavoro" rispose lei. "Il tuo lavoro è dalle dieci alle sei, sei un analista, cazzo!" – "Sono un analista e STO SOLO CERCANDO DI FARE IL MIO FOTTUTO LAVORO!". Aveva gridato così forte che erano tremati i vetri delle finestre. La rabbia le incendiava le guance. Dean abbassò gli occhi e si passò una mano tra i capelli. "Io vado a farmi una doccia" disse. "Quando torno vedi che questo stronzo non ci sia più" e se ne andò da dove era venuto. Rita rimase a fissare la porta vuota. "Stava male" bisbigliò "stava così male". Solo un fruscio delle sue labbra.

Lui era rimasto in piedi per tutto il tempo come un dannato palo della luce. Si sentiva su un altro pianeta. Rita lo guardò. "E’ meglio che tu vada Hank", gli disse. Raccattò la bottiglia di Beam dal tavolo e s’incamminò verso l’uscita. Nel passarle accanto la sentì sussultare. Si voltò a guardarla. Aveva proprio la bocca a cuore, maledizione.

 

Gli sembrava di essere sveglio da secoli. Gli sembrava di camminare da secoli. Si mise a sedere su un gradino, non sapeva nemmeno più dove cazzo fosse. Non gli fregava di saperlo. "Al diavolo" pensò. Si attaccò alla bottiglia e inghiottì quattro sorsi in una volta. Cominciò a tossire, tossì fino quasi a svenire. Poi buttò la testa all’indietro fino a sbatterla sul portone, rimase così, respirando e tossendo. Forse stava per morire. Forse stava proprio per restarci.

"Hey amico, tutto a posto?". Aprì un occhio. "Dico a te, ti senti male?". Li aprì tutti e due. Rossetto fiamma, reggiseno, minigonna, stivaloni strizzati su cosciotte cioccolatose. Una puttana. Eh sì. "Sei una puttana" disse.

"No, sono la fottuta Lady D. che ti parla dal regno dei morti". Si guardarono un attimo. Poi cominciarono a cacciar versi come vitelli alla luna. Se ne starono lì piegati in due per dieci minuti buoni senza poterci fare proprio un bel cazzo.

"O.K." disse la puttana spiritosa "mi pare che tu stia bene dopotutto". Si stava asciugando gli occhi col dorso della mano "Ti saluto" – "No aspetta Lady D, siediti un attimo, fatti un goccetto". Lei ci pensò un secondo e poi decise che sì. S’appollaiò sulle cosciotte e poi atterrò quel gran culone tondo sul gradino, accanto a lui. Le passò quel che restava del Beam. Lei si fece una bella sorsata poderosa e poi disse "Alleluia!". Rimasero un po’ lì in silenzio. Poi lei cominciò a guardarlo di sottecchi, così, con la coda degli occhiacci neri. "Che c’è?" le chiese.

"Ma che diavolo ci fai sul portone del William Hill?" – "Questo è il portone del William Hill?" – "Altroché amico, guarda da te". Hank alzò gli occhi. L’insegna rossa bianca e blu gravava proprio sulle loro teste. Era davvero il fottuto portone del William Hill. "Allora?" chiese Lady D. "Senti, se te lo racconto non ci credi. E’ tutta la notte che cerco di scopare. Mi toccherà farmi un’altra sega sui gerani dei Kemsley" – "Ti sei fatto una sega sui gerani di chi?" – "Lascia stare".

Rimasero ancora un po’ in silenzio, così. Poi lei parlò. Molto dolcemente. "Senti, se proprio vuoi scopare io sono libera, ti faccio uno sconto" gli stava sorridendo con quella bella bocca dipinta. Altroché se se la sarebbe voluta scopare.

"Sono al verde, Lady D., ho cinque sterline in tasca". Che vita miserabile. Che fottuta vita miserabile, pensò. Poi gli venne un idea.

"Aspettiamo che apra il William Hill, so per certo che oggi corre un cavallino formidabile. Tre minuti e le mie cinque diventano cinquanta. Cinquanta vanno bene, no, Lady D.?" – "Con cinquanta hai il servizio completo, tesoro" – "Allora aspettiamo, vuoi? Non val la pena neppure di tornare a casa ormai, non ci vorrà molto" – "mmm, mmm. Posso appoggiarmi alla tua spalla?" – "Ma certo zuccherino" – "Yaaaawn…" – "mmm…".

Si addormentarono abbracciati.

A Est cominciava a schiarire.



 

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Di  Rachel Barnacle