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Enrico Deregibus

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L’ORGOGLIO

Il libro si intitola ‘Folk geneticamente modificato’, sottotitolo ‘Musiche e musicisti della moderna tradizione nell’Italia dei McDonald’s’. L’ha pubblicato Stampa Alternativa, costa 18 euro, ha 246 pagine, ma anche un CD allegato. L’autore si chiama Luca Ferrari.
Inizia con un’analisi appuntita di quel che è, vuole essere, potrebbe essere, dovrebbe essere, il folk italiano oggi. Seguono una serie di schede su un altissimo numero di gruppi e musicisti che fanno - in qualche modo e ognuno a suo modo - musica tradizionale italiana, una dozzina di interviste a musicisti e addetti ai lavori, varie appendici. Si potrebbero fare le pulci a questo volume, trovare qualche svarione, qualche imprecisione, qualche confusione, ma non abbiamo nessuna intenzione di farlo. Questo è un lavoro fatto bene, con serietà, con diligenza, con attenzione. Ci sono opinioni non condivisibili, ma quel che va riconosciuto a Ferrari è che sono assolutamente separate dai fatti. E poi, al di là di tutto, questo libro è tremendamente importante. Di più: è fondamentale per chiunque si occupi di musica (qualsiasi musica) nel nostro paese. Perché, signore e signori, pare incredibile ma questo è il primo testo che si occupa in modo pressoché esauriente della attuale scena folk italiana, del povero ma onesto mondo del piri piri nostrano, quello che - fuori da una neanche tanto ristretta cerchia di appassionati - nessuno conosce, di cui nessuno sa niente, di cui nessuno vuole sapere niente. Noi italioti ci andiamo a perdere dietro all’ultima band di Minneapolis invece di (ri)trovarci con quel che cantavano e suonavano i nostri nonni, bisnonni, trisnonni e che si spera canteranno e suoneranno i nostri nipoti. Ci esaltiamo per una chitarra elettrica e non sappiamo che, tanto per dire, uno strumento come la ghironda può avere e dare la stessa potenza evocativa; a mo’ di Berlusconi con Bush e Blair stiamo lì a braghe calate di fronte a quel che c’arriva da oltreoceano e oltremanica. Che va anche bene, per carità: viva Beatles, Stones, Dylan e discendenti, ci mancherebbe. Ma guardarsi dentro, ogni tanto, non fa male.
L’Italia musicale dovrebbe imparare ad essere orgogliosa. Ecco cosa ci manca. Perché la scena folk italiana è ricca, molto ricca, si continua a rinnovare, continua a tirar fuori cose interessanti e da tutte le parti del paese. Ma anche qui c’è qualcosa che ci sfugge: perché quel che succede nel centro e soprattutto nel sud ha più eco di quel che accade in settentrione? Tutto il Norditalia ha cose belle e buone, da non confondersi assolutamente con celtismi, leghismi e compagnia bella. Di un altro tipo di orgoglio, dicevamo. Non di quello ottuso.
Al di là della geografia, resta il fatto che ad esempio i CD di folk non si vendono. Le poche volte che qualche album arriva a 15000 copie (come è successo ad esempio a Riccardo Tesi, organettista) si stappano bottiglie. Quelli sono i picchi, e sono rari.
Un attimo. Pensandoci bene però un disco di folk italiano che ha venduto molto di più - dieci volte tanto - c’è: “Il fischio del vapore” di De Gregori e Giovanna Marini. Uno pensa: che bello, uno come De Gregori mette il suo nome al servizio di una nobile causa, rimette in circolo Donna lombarda, O Venezia che sei la più bella e altre splendide cose, saran contenti quelli che fanno musica folk. E invece no: abbiamo visto bocche storte, dita puntate. E ci è spiaciuto trovare “FolkBullettin”, il mensile di riferimento della musica tradizionale italiana, in prima fila. Roberto Sacchi, il direttore, è una persona intelligente, competente, stimiamo molto e da molto tempo lui e la sua apertura mentale. Ma in questo caso ha scelto la linea dura e pura, ha attaccato quel disco fra le righe ma anche apertamente ospitando nel dicembre dello scorso anno un intervento firmato da (rulli di tamburi)…Luca Ferrari. Il quale se la prende con chi ha parlato bene del “Fischio del Vapore”, ad esempio infilando “il vestito bello della retorica di rito di certa sinistra piccolo borghese” a Gino Castaldo di Repubblica.
Ora. Quel disco al vostro rubrichista piace molto. Ma non è questo il problema. Si può tranquillamente dire che De Gregori sbraca, che Giovanna Marini stona, che il repertorio non è omogeneo, che la musica è raffazzonata. Va bene tutto. Però ci sarebbe piaciuto leggere su FB che “Il fischio del vapore” è un lavoro fatto senza alcuna concessione ai canoni commerciali, con rispetto evidente, con passione e coraggio (altrimenti De Gregori avrebbe inciso un album di cover di Ramazzotti). Certo, non è un’idea rivoluzionaria. Fabrizio Poggi (armonicista blues con gli attributi) ha fatto un’operazione simile poco prima, “Turututela”, e non ha certo avuto l’esposizione mediatica de “Il fischio del vapore”. Ed è un peccato.
Ma è chiaro che De Gregori mobilita di più. E sta proprio qui il punto: anche per questo il disco con Giovanna Marini è o può essere un giro di boa. Ha dimostrato che almeno 150000 persone in Italia amano quelle parole, quelle musiche, quelle emozioni, hanno scoperto di averle sempre conservate dentro, e magari, chissà, dopo aver comprato quel disco andranno a comprarne altri. Grazie a quel cinquantenne romano e al suo nome messo su quella copertina rossa, cari amici di FB e folkettari intransigenti.
Ci spiace, questo non è orgoglio, è autolesionismo. Anche perché ci rifiutiamo di credere che sia (o che sia solo) un fatto di invidia, umanamente stra-comprensibile, una cosa del tipo “arriva lui bello ricco e famoso, e ci frega le canzoni”. Il punto è che De Gregori ha “rubato” ai ricchi per dare ai poveri, non viceversa. Ma forse la contestazione nasce semplicemente dal fatto che, come ognuno è terrone di qualcun altro, è anche purista rispetto a qualcun altro.
Il mondo della musica tradizionale ha la sua bella testa, cocciuta. Ma non gliene vogliamo per questo. E se (consiglio per gli acquisti) comprate “Folk geneticamente modificato” e “Il fischio del vapore” metteteli nello stesso scaffale. Staranno benissimo insieme. Oh yeah.

 

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