Silone scrive nel 1930, in una casa di cura di Davos, in Svizzera il suo
primo romanzo Fontamara. A motivare tale decisione sono la necessità di
confermare pubblicamente il proprio impegno politico a favore e in
difesa dei suoi << cafoni >>,
il bisogno di chiarire anzitutto a se stesso, il senso di un
contributo personale ed isolato alla lotta per questa causa, il
significato del proprio atteggiamento, del proprio gesto nei confronti
del Partito da cui è uscito.
Si presenta, inoltre, l'occasione di denunziare lo stato di
avvilimento e
di prostrazione in cui si
trova la provincia italiana sotto il regime fascista e quindi di
riscattare la stessa da quell'immagine convenzionale e di comodo che in
Italia e all'estero molti sono andati facendosi.
Infine, con l'opportunità di aiutare la propria gente nella presa di
coscienza della condizione in cui si trova, il momento propizio per
ricordare agli intellettuali italiani la propria parte di responsabilità
nell'attuale stato di cose, indicando loro quello che può essere un
primo passo per porvi rimedio, vale a dire rompere con certo linguaggio
da e per soli letterati, tradizionale espressione non soltanto della
borghesia più retriva ma anche di una cultura ed una letteratura del
tutto estranee alla presente realtà storica e sociale.
La vicenda di Fontamara è ambientata nella Marsica, vale a dire nei
luoghi d'infanzia dell'autore.
La ragione è egli stesso a spiegarcela:
vi era nella
mia ribellione un punto in cui il rifiuto e l'amore coincidevano; sia i
fatti che giustificavano l'indignazione, sia i motivi morali che
l'esigevano, mi erano dati dalla contrada nativa.
Il passo
dalla rassegnazione alla rivolta era brevissimo: bastava applicare alla
società i principi ritenuti validi per la vita privata. Così mi spiego
anche perché tutto quello che finora m'è avvenuto di scrivere, e
probabilmente tutto quello che ancora scriverò, benché io abbia anche
viaggiato e vissuto a lungo all'estero, si riferisca unicamente a quella
parte della contrada che con lo sguardo si poteva abbracciare dalla casa
in cui nacqui, e che non misura più di trenta o quaranta chilometri in
un senso e nell'altro.
Il periodo in cui si svolgono i fatti narrati corrisponde a quello
dell'assestamento del regime che, con la graduale e violenta
eliminazione d'ogni residuo di libertà, ha favorito il ritorno del
prepotere dei notabili e dei proprietari, i quali allo squallore
tradizionale dell'ambiente hanno aggiunto il sopruso e l'ingiustizia
elevati a sistema.
Tratta di una
storia semplice e lineare, che affronta la vita della provincia
meridionale inserendola nel processo storico che in quel periodo
mortificava l'intero paese. C'è un impresario (che ai fontamaresi
ricorda tanto il lontano feudatario e il più vicino vescovo) il quale,
forte dell'appoggio della Banca, delle autorità centrali e dei
carabinieri, cerca di strappare ai paesani del luogo le acque di un
ruscello che ha finora costituito una delle loro poche e principali
risorse, in quanto se ne servivano per irrigare le proprie terre ed
abbeverare quei pochi capi di bestiame che ancora erano loro rimasti.
I fontamaresi,
che sulle prime avevano tentato di opporsi a tale tentativo con
suppliche e proteste, finiranno col soccombere, vittime di un raggiro
che riesce perfettamente, grazie soprattutto alla complicità di Don
Circostanza, tipico notabile del luogo il quale gode e può quindi
tradirla con maggior facilità della loro fiducia.
A guida dei « cafoni » in un loro tentativo di sfida all'impresario e
alle autorità è il giovane paesano Berardo Viola che, intuita ben
presto l'inutilità di qualsiasi forma d'opposizione legale, indica
nella rivolta la sola maniera valida per sottrarsi al sopruso di cui sta
per cadere vittima la contrada. Quando Berardo Viola s'accorgerà di non
avere seguaci a meno sul piano pratico, in questa sua proposta,
anziché abbandonarsi con gli altri ad una passiva rassegnazione,
preferirà emigrare in città per proseguire la battaglia in difesa
della causa dei suoi compaesani. La su adesione al movimento clandestino
di opposizione al regime è talmente spontanea e generosa da spingerlo a
dichiararsi autore di un attentato politico avvenuto proprio il giorno
del suo arrivo in città, ed a farsi arrestare senza neppure conoscere i
veri responsabili dell'attentato.
Fin dalle prime
righe è evidente l'ispirazione polemica del libro.
Un polemica animosa e serrata in difesa dei poveri, dei « cafoni »,
contro tutti i responsabili e complici più o meno consapevoli delle
misere condizioni i cui essi versano; una polemica, quindi, che investe
motivi d'ordine politico e sociale, culturale e religioso, in
un'alternanza di toni ora ironici ora drammatici eppur sempre vigorosi e
convincenti. Abbiamo detto che l'autore si propone di trovarvi la
soluzione a certi problemi e la risposi a parecchi interrogativi.
Naturale, quindi, la sua insofferenza per qualsiasi forma di
descrittivismo e di compiacimento formale. Certa sua incuranza
stilistica, tuttavia, perde notevolmente di spontaneità ogni qualvolta
egli si prova ad accentuare il ruolo emblematico di taluni personaggi e
le singolarità di certe situazioni.
Un primo limite del romanzo che lascia subito perplessi, ad esempio,
consiste nella rappresentazione del contrasto tra cafoni e cittadini,
contrasto che assume ogni volta e bruscamente gli aspetti di uno
scontro, più che di un confronto, in quanto reso da una visione
unilaterale dei due mondi.
Risulta evidente, cioè, l'assenza di un'impostazione dialettica dei
rapporti umani, e quindi delle classi, secondo un'analisi più
approfondita ed equilibrata.
Questo perché
l'autore si preoccupa ostinatamente di fornirci un quadro il più fedele
e aderente possibile di certa realtà, nel proposito di smentire
definitivamente quella concezione folcloristica e di comodo che della
provincia meridionale in Italia e all'estero ci si era andata facendo,
nonché di porre nella sua luce più cruda una condizione politica e
sociale fra le più mortificanti. Di qui quel suo sottoporre i
personaggi ad una deformazione sovente grottesca, quel suo esasperarne
certi tratti caratteristici fino a rischiare il semplicismo e la
contraddizione, come nella narrazione delle trattative fra l'impresario
e i paesani, dei quali è accentuata la buona fede al punto da far loro
accettare con estrema ingenuità il marchingegno basato sull'assurda
ripartizione delle acque contese in << tre quarti e tre quarti
>>, mentre fino a
qualche pagina prima l'ironia, non sempre ben filtrata, delle loro
considerazioni e dei loro discorsi lasciava presumere in essi una certa
dose d'intuito e di saggezza.
E' in questo palese intervento dell'autore nella fase conclusiva della
storia di Berardo Viola che si riflettono gli echi della crisi che
travagliando Silone, il quale, se da una parte auspica il maturarsi di
una presa di coscienza della realtà da parte del protagonista - e
quindi dei cafoni - nonché della volontà di opporvisi anche col
sacrificio personale, dall'altra non nasconde la propria preoccupazione
di vederlo prima o poi risucchiato nelle spire del l'organizzazione
politica cospirativa, per soccombere a tutto un altro genere di soprusi
e tirannie non meno umilianti.
È, questo, uno degli interrogativi che Fontamara lascerà senza
risposta e in eredità alle successive prove narrative di Silone.
Quanto ai risultati positivi più evidenti di Fontamara, crediamo che il
romanzo, in ultima analisi, possa sostenere ancora oggi, a distanza di
oltre trent'anni, più di un confronto anche in sede di valutazione
meramente estetica. La sua struttura sufficientemente salda e unitaria,
la sua felice rappresentazione dell'ambiente e della vita dei «cafoni»,
il suo paesaggio , nido, niente affatto idillico, unitamente alla
stringatezza de dialoghi ed alla sapiente fusione del ruolo di coro con
quello di protagonista del popolo fontamarese, garantiscono di un esito
narrativo chiaramente raggiunto e notevolmente sicuro.
Proprio la politica, invece che con le sue esigenze sembrava sulle prime
aver prevalso sulla narrativa, è in effetti quella che esce sconfitta
dal romanzo. Basti pensare alle reazioni di un Peppino Goriano e dello
stesso Berardo Viola, durante le scorribande in città sui camions messi
a disposizione del regime che li ha mandati a prelevare per una delle
solite manifestazioni «spontanee», egli fronte alle accoglienze «politicizzate»
dei cittadini, oppure alla diffidenza e all'ostilità incontrate dagli
attivisti della città durante i loro tentativi di disciplinare
l'afflusso e la partecipazione dei «cafoni» alla manifestazione.
Naturalmente la
pubblicazione del romanzo, avvenuta nel 1933, non poteva attirare
l'attenzione degli italiani, ma l'interesse con cui fu accolto in molti
altri paesi, l'autorità dei consensi che ricevette in ogni parte del
mondo ricompensarono l'autore dell'obbligato silenzio del nostro
pubblico e della nostra critica.
Nonostante un Trotzky, tuttavia, avesse rilevato che « Fontamara è un
libro di appassionata lotta politica ma la passione rivoluzionaria qui
si solleva all'altezza dell'opera d'arte», la maggior parte di quanti
parlarono o scrissero di questo libro lo fecero quasi esclusivamente in
chiave politica, col risultato di preparare il terreno alle
incomprensioni e alle diffidenze che la critica italiana doveva
mostrare, subito dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, nei
confronti dell'autore.
Silone, con
questo romanzo corale, ci consegna un messaggio coraggioso e
provocatorio: la proposta di un impegno che non si regga sugli schemi
tradizionali dei conflitto di classe, ma che nasce e si sviluppa nel
profondo di ogni coscienza prima di diventare rivendicazione collettiva.
Fontamara è un paese dei sud dove i "cafoni" che lo abitano
sono da secoli assuefatti alla sofferenza.
A un certo punto si risvegliano: il podestà e un'accolta di proprietari
dei vicino capoluogo hanno fatto deviare l'acqua di un ruscello per
irrigare le loro campagne. Nelle foro sofferenze, i fontamaresi che si
ribellano, rappresentano l'uomo che attinge a un nuovo livello di dignità,
proprio perché si sente
spinto alla lotte contro la violenza e le mistificazioni; mentre l'acqua
assume il significato del simbolo vitale, dei diritto naturale e sacro
alla libertà, al quale l'uomo non può rinunciare e non rinuncia.