COMMENTO:
Comunque,
è ancora la politica a costituire il motivo iniziale di Vino e pane, il
secondo romanzo pubblicato da Silone, sempre in esilio, verso la fine
del 1937. Sono trascorsi quattro anni dall'uscita di Fontamara e almeno
sette dall'abbandono dell'autore dell'attività ufficiale nelle file del
Partito Comunista.
Vedremo più avanti come e in che misura tali date vanno tenute
presenti. Ricordiamone adesso la trama, che si presenta senz'altro più
complessa della precedente.
Pietro Spina, un
giovane intellettuale perseguitato dal regime e costretto a riparare in
esilio, rientra clandestinamente in Italia e raggiunge la propria terra
d'origine che, naturalmente, è quell'abruzzese. Siamo nel '35, l'anno
dell'aggressione all'Etiopia, e tale ritorno ha soprattutto lo scopo di
organizzare localmente il movimento antifascista e risvegliare le
coscienze sopite dall'oppressione. Già dai primi contatti del
protagonista con i suoi vecchi amici e conterranei ci si può rendere
conto del clima di disagio, di sospetto, di conformismo e di
rassegnazione che il regime è riuscito ad instaurare mediante
l'adulazione, il ricatto e l'inganno.
L'unico aiuto che egli riuscirà ad ottenere consiste in un vestito da
prete con cui potrà raggiungere Pietrasecca, uno sperduto villaggio di
montagna sempre negli abruzzi, dove si stabilirà per qualche tempo
sotto quelle spoglie ed il nome fittizio di Don Paolo Spada.
II resto della
vicenda riguarderà soprattutto gli incontri e i rapporti che egli avrà
con gli abitanti di quella contrada, incontri e rapporti che
costituiranno altrettante occasioni per un sempre più approfondito
esame di coscienza e, quindi, gli aspetti più o meno significativi
della sua fertile esperienza.
Che l'autore, soprattutto durante la prima stesura dell'opera (che in una
successiva ristampa, nel 1955, muterà il titolo in Pane e vino) si
trovasse ancora sotto l'influenza di certi avvenimenti determinanti
nella propria esistenza pubblica e privata, a cominciare dall'abbandono
del Partito Comunista, per finire alla tragica perdita del fratello
Romolo, assassinato dalla polizia del regime; è avvertibile già dallo
scoperto autobiografismo della vicenda.
Pietro Spina sembra dare per scontato il principio per cui:
« Ogni partito ha una sua moralità, codificata in regole.
Quelle regole sono spesso molto vicine a quelle che il sentimento morale
ispira ad ogni uomo, talvolta sono esattamente l'opposto ». In effetti,
però proprio perché s'accorge di non riuscire ad essere « senza cuore
» come la vita cospirativa talora richiede, egli si mostra sempre più
riluttante ad accettare le regole di quel gioco ed insofferente, quindi,
di quel codice morale che la politica, e per essa il partito, impone.
Quel che non gli riesce di accettare, soprattutto, è questa diversa ed
arbitraria interpretazione della morale che la prassi politica esige, ma
tale rifiuto non può risolversi, d'altra parte, per una coscienza come
la sua, nell'abbandono di quelle ragioni e di quegli obiettivi di lotta
che ormai, da tempo, ne condizionano l'intera esistenza, al di fuori di
cui « la moralità non può vivere e fiorire ».
E' in questa prospettiva che va considerata la crisi del protagonista (e
quindi dell'autore) di Pane e
vino, crisi che respinge qualsiasi tentativo d'interpretazione e di
soluzione in chiave ideologica o dottrinale per assumere un valore ed un
significato di natura essenzialmente morale.
Silone, non sembra affatto scoraggiarsi di tali conclusioni, che
certamente gli si prospettano con la stessa evidenza con cui Pietro
Spina si sente talora costretto ad anticiparle.
E' proprio l'alternarsi di questi momenti di sconforto e
di abbandono
ad altri quanto mai carichi di propositi e speranze che può indurre il
lettore a credere in un graduale immobilismo della
coscienza di Pietro
Spina, il quale può essere colto più di una volta in
atteggiamenti rinunciatari e rassegnati.
In effetti, egli non dimentica mai il fine ultimo della propria presenza
fra quella gente, ed anche se non approderà a risultati concreti, la
sua lotta isolata e solitaria continua con crescente perseveranza.
L'abito talare ed il nome di Don Paolo gli servono, anzi, per vivere
nuove e più ricche, inusitate esperienze nel contatto quotidiano con
la sofferenza e la miseria, durante il quale può sempre
sottoporre al vaglio di una severa verifica pratica i propri ideali di
giustizia e di libertà nonché le ragioni della causa per cui si va
battendo; che è, inutile ripeterlo, la causa dei poveri, degli umili e
degli oppressi, la causa dei suoi « cafoni ».
Come giustamente è stato rilevato, questo romanzo si
presenta notevolmente arricchito di propositi e istanze rispetto a Fontamara,
e gli stessi suoi risultati narrativi possono essere definiti, sotto
certi aspetti migliori.
Ciò, nonostante le considerevoli oscillazioni di tono ed i frequenti scarti
di registro inducano a credere che l'autore non abbia ancora ritrovato
un proprio stile.
Rimane anche, questa, l'opera che forse ha ricevuto un maggiore numero di
consensi, ma anche alla sicurezza e all'abilità con le quali vengono
ripresi ed approfonditi certi motivi già incontrati in Fontamara,
come ad esempio quello dell'influenza egemonica esercitata dalla
città nei confronti della campagna e, quindi, quello dell'esasperazione
dei rapporti fra « cafoni » e autorità:
I traslochi e i cambiamenti venivano sempre dalla città. I commissari, i
controllori, gli ispettori, i vescovi, i direttori delle carceri, gli
oratori delle corporazioni, i predicatori per gli esercizi spirituali
erano mandati dalla città con « direttive » aggiornate.
I giornali, le canzonette, « Tripoli bel suol d'amore », « Valencia
», « Giovinezza », « Faccetta
nera », i grammofoni, le radio, i romanzi, le cartoline al bromuro,
arrivavano anche dalla città ...
In Vino e Pane troviamo problemi
che in quegli anni la parte più responsabile della società era
chiamata a risolvere ed affrontare, problemi che coinvolgevano
l'intellettuale come l'operaio e il « cafone », il politico di
professione quanto il sacerdote.
E' sintomatico fatto, a questo proposito, che se da un lato troviamo un
Pietro Spina tutto preso dal conflitto fra la fede in certi ideali e la
necessità di rispettarne l'integrità nella lotta per la loro
affermazione pratica, dall'altro possiamo seguire le vicissitudini
interiori di un prete, Don Benedetto, impegnato in un confronto sempre
più severo fra certo cattolicesimo convenzionale e conservatore ed una
concezione più moderna ed operante, più viva e aderente alla realtà
quotidiana, della carità cristiana.
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