IL PESCATORE DI FIUME

Nel medioevo il lavoro del pescatore era redditizio, ma dal secolo scorso è diventato un lavoro ingrato. Capitava spesso che i contadini andassero a pescare di persona; non esisteva una vera e propria categoria di pescatori, ma alcune persone passavano con il pescato vendendolo. Alla fine dell’ottocento gli abitanti di Solesino iniziarono un vero e proprio commercio acquistando il pesce localmente o sul Garda per spedirlo dalla stazione ferroviaria di Sant’Elena anche a Venezia.

La pesca di fiume era regolata da leggi, regolamenti e ordinanze del sindaco che stabilivano, con precisione, periodi, strumenti, misure del pesce. In genere il nostro pescatore era abbastanza ligio alle leggi e solo qualche sconsiderato faceva uso di qualche pasta stupefacente per intorpidire l’acqua. A parte le rane, che si prendevano nelle notti scure di primavera e d’estate con la lampada al carburo e con un filo di lana, non vi erano molte specie di pesci nei nostri fiumi. Tra le altre: tinche, lucci, gamberi, pesci gatti, carpe, anguille e lo storione che i giornali del primo ‘900 dicono risalisse il Brenta. La tinca si prendeva durante la Fregola (la deposizione delle uova) in estate più con la fiocina che con la rete, diversamente dal barbo, mentre il luccio era una preda difficile. C’erano poi pesciolini di fiume o di canale, nella sinistra del Piave ad esempio erano chiamati: brussoe, marinasse, s’gardoe che non arrivavano a 10 cm.

Gli attrezzi utilizzati erano poveri e costruiti manualmente. Nella Bassa gli attrezzi più usati erano: el balanzin (una grande rete legata agli angoli da quattro fili e sospesa da una pertica che veniva immersa e poi alzata) i tremaci (una lunga rete sugli 80 cm d’ altezza a doppia maglia, resa verticale in alto da tappi di sughero e in basso da piombi o da altri pesi) la paradela (una rete rotonda conica fissata sul fondo con due forconi di legno) lo stascino (una specie di tramacio trascinato da due pescatori immersi fino alle cinture ai bordi del canale) il lamore (una rete lunga costituita da una cima fissata da poli ai due lati del corso d’ acqua sulla quale si mettevano ami con l’ esca) i bartovei (una specie di nassa con bacchetti verticali che si possono muovere e controllare con un gancio detto la ciave per non essere, in inverno, sempre con le mani in acqua, o la sorbera che è una rete a tre maglie). Per la pesca di movimento invece si usava il tramaglio (in particolare per le tinche i lucci e le carpe) lo strassin (sempre per le tinche con due uomini che, tenendo i capi della rete camminavano lungo la riva del canale) e lo schiral (che assomigliava ad un acchiappa farfalle). Il batuz e la furiga una specie di pertica di legno con la quale si batteva l’ acqua per spaventare il pesce e farlo entrare nelle reti; oppure per pescare i gamberi senza esca si usavano le fascine o mattoni forati, infatti il gambero, da curioso, cerca gli anfratti bui così quando si tirava fuori la fascina uscivano tutti i gamberi.

All’attività del pescatore collaboravano tutte le famiglie per fare o per conservare il buono stato delle reti. Quelle di cotone erano poco resistenti, quelle di lino costavano troppo ed erano perciò fuori dalla possibilità economica del pescatore e poiché nella bassa si coltivava la canapa, con questa il nostro pescatore faceva le reti. Queste tessute dalle donne durante le lunghe ore d’ inverno venivano poi tinte per prolungarne la durata. Le maniere più facili per ottenere un trattamento protettivo consistevano nel farlo bollire in acqua, dove si mettevano in genere da una a dieci scorze di castagne secche.