La Mediazione PedagogicaLiber Liber

Antonio Gramsci, il tema degli intellettuali-educatori e gli strumenti del consenso educativo.
di Elisabetta Colla

3. L'intellettuale "tradizionale" nella riflessione gramsciana: il rapporto con la tradizione culturale italiana e con Benedetto Croce

Si è visto come gli intellettuali rivestano, nella realizzazione della società prefigurata da Gramsci, un'importanza decisiva: sono essi, i mediatori del consenso, i funzionari delle sovrastrutture, a detenere le possibilità future di accesso al potere di nuove classi sociali, oltre alla guida degli organismi e delle istituzioni atte a modificare, insieme alle capacità di autocoscienza delle masse operaie e contadine, il volto stesso dello Stato.

Dunque gli intellettuali sono già, intrinsecamente, degli "educatori" a tutti gli effetti, e questo nei vari ambiti in cui si muovono, apportando un contributo che è insieme culturale e morale, sociale e politico e, soprattutto, colmando quell'abisso che il vecchio tipo di intellettuale, l'intellettuale "tradizionale", aveva creato fra sé e il popolo. Si comprende il perché della necessità sentita da Gramsci di delineare un profilo dell'intellettuale tradizionale, di quello italiano nella fattispecie, così come egli lo vede e lo descrive nelle sue opere, volendo fare una sorta di revisione della realtà culturale italiana, sia di quella passata sia di quella più recente, per poi distanziarsene nella prospettiva della sua rifondazione del marxismo.

Esaminando il percorso del pensiero di Gramsci, attraverso i suoi scritti ed in particolare nei Quaderni, si comprende che la riflessione gramsciana sull'intellettuale  tradizionale o "cosmopolita" è il punto di partenza o, meglio ancora, l'argomentazione propedeutica e "sine qua non" della problematica relativa all'intellettuale "nuovo".

Si può dire che, se Gramsci si occupa diffusamente dell'intellettuale tradizionale, esaminandone i comportamenti sociali e culturali, criticandone gli errori e le "mancanze" storiche, analizzandone i rapporti coi ceti dominanti e con la grande massa del popolo, tutta questa ricerca trova il suo naturale compimento in tanto in quanto la figura che ne risulta, quella dell'intellettuale tradizionale, possa venire opportunamente oggettivata ed appaia chiaramente, alla fine dell'indagine, che da essa è necessario ormai, per qualsiasi intellettuale vivente di coscienza, prendere le distanze, in vista di un nuovo modo di essere e di nuovi rapporti di classe. Dunque una pars construens ed una pars destruens, rispecchianti un duplice modo di essere degli intellettuali: l'intellettuale tradizionale si trasforma così, fino a scomparire del tutto, in uno strumento storico atto a realizzare l'intellettuale-fine, il quale diverrà poi a sua volta nuovo strumento di comunicazione  per altri. Nasce così l'intellettuale 'metastrumentale', dove in tale definizione è racchiuso il ruolo nuovo, più consono ai tempi ed ai compiti di questo specialista-politico, che ha moltiplicato capacità ed abilità organizzative per meglio diffondere la cultura.

Sembra entrare in gioco, in questa scelta nei confronti del "vecchio" o del "nuovo", un fattore ambientale, di relazionalità attiva fra uomo e società, e fra uomo e natura, unito ad un vero e proprio fattore personale riguardante la prospettiva da assumere rispetto alla vita stessa: perciò, dai testi gramsciani che analizzano la situazione storica italiana possiamo ricavare un'immagine "negativa" dell'intellettuale, mentre, al contrario, il modello positivo viene  proposto da Gramsci all'interno delle sue varie elaborazioni teoriche, soprattutto di quelle che si occupano degli intellettuali in relazione con gruppi sociali di varia origine. Ci troviamo così di fronte all'individuazione, da un lato, di due "schieramenti", dall'altro di due "modelli", uno positivo, l'altro negativo, riguardanti l' "intellettuale gramsciano"; al tempo stesso è giusto rilevare che questo medesimo intellettuale, entrato in contatto, nella visione più avanzata di Gramsci, con gli eventi storico-sociali, attraverso un cammino di più generazioni e grazie alla pressione di intellettuali di nuovo tipo, può giungere ad unirsi, se dovutamente attratto in tale direzione, alle forze sociali emergenti, potendole arricchire di un notevole patrimonio culturale (sia pure da rivedere e da rinnovare) e ponendosi a sua volta al passo con i tempi storici in trasformazione.

Se nella formazione di Gramsci aveva avuto una certa importanza anche il primo diffusore del marxismo in Italia,  Antonio Labriola21 (in quanto punto di riferimento obbligato nella storia  del movimento operaio), sia Sorel che Bergson, con il loro pensiero, erano considerati da Gramsci validi strumenti di rottura rispetto alla cultura esistente, tanto che sull' "Ordine Nuovo" più volte egli aveva difeso l'originalità e la carica rivoluzionaria di questi pensatori contro le accuse mossegli, da parte dei socialisti riformisti, di essere "bergsoniano" e "volontarista"22. 

Naturalmente questi movimenti culturali dell'epoca, questi tentativi di vario ordine per opporsi alla cultura ufficiale, subivano, almeno in campo filosofico, l'egemonia culturale del grande protagonista dell'intellettualità dell'epoca, Benedetto Croce.

Gramsci vede in lui, per certi versi, un personaggio-chiave nei confronti della cultura, capace di realizzare un'operazione di svecchiamento del passato, soprattutto verso un certo tipo di cultura proposta dalla Chiesa, capace insomma, come diceva Togliatti, di "svegliare molti dal sonno". Ma, per altri versi, Gramsci sarà un grande oppositore di Croce ed anzi si potrebbe dire che egli dia tanto spazio al pensiero di Croce proprio in quanto vuol scrivere un 'anti-Croce' (che sia anche un 'anti-Gentile'): prima di tutto perché questi appariva chiaramente schierato con la classe sociale al potere, con l'alta borghesia industriale, in secondo luogo perché Gramsci si opponeva radicalmente all'atteggiamento intellettuale di Croce, questo sì perfettamente in sintonia con la "secolare" tradizione italiana, quella del cosmopolitismo, dell'intellettuale distaccato dal microcosmo-massa, disinteressato e lontano dalle esigenze nazionali e popolari, esprimente, quindi, solo una cultura d'élite. E' negli anni giovanili, attraverso gli scritti giornalistici, soprattutto nell' "Ordine Nuovo", che Gramsci polemizza aspramente con gli intellettuali liberali, primo fra tutti, per l'appunto, Benedetto Croce, seguito da molti altri personaggi o movimenti di pensiero, le cui potenzialità politico-culturali Gramsci aveva visto fallire giorno dopo giorno. Gli intellettuali liberali si sono ben inseriti nel sistema liberale stesso, cercando poi di diffondere una tacita accettazione di esso e, al tempo stesso, hanno assunto un atteggiamento paternalistico di educazione-istruzione nei confronti delle masse (ad esempio attraverso le Università popolari), in realtà offrendo loro nient'altro che sottocultura23. Gramsci cerca invece di opporre le posizioni più avanzate della pedagogia idealistica, cioè i "concetti di autonomia, di formazione interiore, di educazione spirituale"24, contemporaneamente, le esigenze del "movimento operaio".

Come ben sottolineato dal Garin, sono questi gli anni in cui: "Il problema della "cultura" come problema degli "intellettuali" si definisce…proprio nell'affrontare il problema di una cultura socialista come presa di coscienza dello stesso movimento operaio. Gramsci si trova nella necessità di riesaminare la propria concezione della cultura e la posizione degli "intellettuali" (di tutti gli intellettuali di carriera)"25.

Gramsci rimprovera ai liberali italiani di non aver lottato neppure per iniziare quell'opera educativa che i liberisti inglesi hanno invece tentato di realizzare con ogni mezzo26. In un articolo del 1918, intitolato "La politica del se", Gramsci espone la sua concezione del giacobinismo, identificandolo con un "indirizzo culturale-politico nato in Francia nel sec.XVIII e realizzatosi nella Rivoluzione borghese dell'89"27. Il giacobinismo propone una visione messianica della storia: si lotta per dei valori assoluti senza calarsi nella dimensione storica reale; inoltre la guida della società viene affidata ad un'élite, ad una ristretta cerchia di intellettuali non disposti a render merito alle eventuali espressioni della volontà popolare, ma convinti che la democrazia consista in un'educazione ed in un "indottrinamento" procedenti dall'alto verso il basso e non in un'effettiva partecipazione del popolo, con le proprie idee ed esigenze espresse attivamente28.

Nel corso della lunga elaborazione del suo pensiero, Gramsci, pur continuando a porre l'accento sulla necessità, per il ceto popolare, di elaborare i propri intellettuali, maturerà la prospettiva di assimilare gli intellettuali tradizionali, riconoscendo, una maggiore utilità nell'assorbimento di capacità e di esperienze egemoniche pluriennali da essi svolte, piuttosto che nell'opposizione radicale. Gramsci sente dunque il peso dell'eredità di questo intellettuale tradizionale, soprattutto nell'attività frenante da esso svolta nei confronti di ogni innovazione ideologica o coinvolimento delle masse nella cultura. Egli rimprovera a questo intellettuale di possedere un duplice volto: quello rivolto verso le masse contadine, con il quale egli si mostra democratico e accomodante, e quello rivolto verso il potere dei grandi proprietari terrieri, con cui egli si trasforma in conservatore e reazionario; Gramsci definisce perciò questo intellettuale con l'appellativo di "politicante", esprimendo tutta la negatività di una figura tendente nella sostanza, a sfavorire le masse contadine29.

Nel già citato saggio "Alcuni temi sulla questione meridionale" (datato 1926) Gramsci distingue, nel Sud d'Italia, fra tre principali classi sociali a) la grande massa contadina; b) i piccoli intellettuali e la borghesia media; c) i grandi proprietari terrieri ed i grandi intellettuali30. Gli esponenti tipici dei "grandi" intellettuali sono, per Gramsci, Croce e Fortunato, i quali hanno avuto il merito, in particolare il primo, di superare la cultura cattolica e di mutare l'indirizzo e i metodi di pensiero ancora esistenti, dall'altro, essendo uomini di vastissima cultura, hanno potuto attirare i "giovani colti del Sud, soddisfacendone i bisogni intellettuali" ed hanno inoltre, come già visto, distaccato gli intellettuali "medi" del sud dalle masse contadine, inserendoli nella più vasta cultura nazionale ed europea ed assimilandoli alla borghesia nazionale ed al blocco agrario31. Gramsci si pone in un atteggiamento di opposizione rispetto al modo in cui tali intellettuali hanno svolto il proprio ruolo in seno alla società italiana. Croce e Fortunato sono chiamati da Gramsci i "reazionari più operosi dell'isola"32; seppure inizialmente il giornale l'Ordine Nuovo (fondato da Gramsci nel 1919 insieme a Tasca, Togliatti e Terracini) intendesse riagganciarsi, per alcuni versi alla tradizione del pensiero italiana, rappresentata quasi esclusivamente da Croce, in un secondo tempo esso si porrà in una condizione antitetica, di aperta rottura con quella tradizione e con i suoi intellettuali33, in particolare proprio da quello che Gramsci considera "il più grande intellettuale del '900" già nel '26 comincia a porsi in un rapporto dialettico, prendendone le distanze e al tempo stesso mantenendo alcuni contati con il suo pensiero e con la sua filosofia.

E' noto che il primo progetto di uno studio degli intellettuali è quello dell'ormai famosissima Lettera a Tania, del 19/3/2734: ma sarà nei Quaderni del carcere che Gramsci riprenderà, approfondendola, la "questione degli intellettuali", la quale, sempre cercando un collegamento con le varie situazioni della storia italiana,  attraverserà trasversalmente Quaderni di epoche ed argomenti diversi.

In particolare, vi sono alcune caratteristiche principali che Gramsci, nei Quaderni, attribuisce all'intellettuale tradizionale, sia mutuandole dagli scritti precedenti, sia aggiungendovi elementi nuovi.

Il primo di questi elementi è il cosmopolitismo: il carattere prevalentemente cosmopolita e internazionale dell'intellettuale tradizionale italiano  viene ribadito nel Quaderno 3, riprendendo alcuni temi già trattati da Gramsci nel Quaderno 1 e rimproverando quanti giudicano "nazionale" una cultura che in realtà, pur considerata tale perché unica espressione della nazione italiana per secoli, ha invece una base cosmopolita, "giacobina", che considera cioè lo Stato come un Assoluto35. Le radici storiche del cosmopolitismo poggiano in epoche lontanissime, già nell'Impero Romano, quando, secondo Gramsci, "il personale dirigente diventa sempre più imperiale e meno latino, diventa cosmopolita"36. In altre parole l'intellettuale italiano inizierebbe fin da allora a distaccarsi dalla realtà nazionale-popolare, a porsi in una dimensione estranea rispetto agli eventi concretamente legati al popolo stesso. Su questa linea procedono le cose, per il ruolo culturale svolto dalla Chiesa durante il Medio Evo, continuato con la Controriforma, fino a giungere all'intellettuale del Rinascimento, cosmopolita per eccellenza.

Molte altre indicazioni provengono dai Quaderni: l'intellettuale tradizionale è "dato dal letterato, dal filosofo, dall'artista"37; le sue armi principali sono dialettiche, cioè l' "eloquenza" e la "pura oratoria"38: esso è legato ad una tradizione di casta, pregna di una cultura libresca e astratta, mai interrotta nel tempo da movimenti politici popolari o nazionali39. Spesso gli intellettuali tradizionali, a causa del loro spirito di corpo, si sono sentiti indipendenti anche rispetto alle classi dominanti, veri e propri antagonisti rispetto ad esse, ma altrettanto spesso le classi al potere hanno cercato, e con successo, l'assimilazione di tali intellettuali , per porli  a loro servizio"40.

L'ideale "cosmopolita si basa ormai su situazioni che devono essere superate41; si può essere ancora "cittadini del mondo" solo collegando tale espressione ad una visione moderna, di tipo capitalistico-finanziario, eliminando quanto di romano-cattolico possa ancora sussistervi42.

Un altro elemento che contraddistingue gli intellettuali tradizionali è la cristallizzazione: Gramsci rimprovera a tale categoria di rimanere permanentemente uguale a sé stessa e di essere priva di forza dialettica.  La concezione della cultura di cui essa si fa portavoce è ritenuta da Gramsci dogmatica e prigioniera di schemi astratti43; inoltre se è vero che gli intellettuali "nuovi" devono farsi promotori di una rivoluzione culturale e divenire una forza progressista in seno alla società, è altresì evidente che "gli intellettuali cristallizzati sono reazionari"44 e privilegiano  scelte di autosufficienza anziché svolgere quella che è la loro missione storica. Tutti gli intellettuali, infatti, hanno delle responsabilità culturali e politiche, le quali non permettono loro di rimanere estranei alle lotte né di partecipare esclusivamente a quelle in favore dei gruppi dirigenti; d'altra parte è noto che, per Gramsci, la riforma intellettuale è sempre strettamente collegata ad una riforma economica, oltre che morale.

Perciò, se gli intellettuali rinunciano a cercare un legame organico, cioè "ad operare per il 'raggiungimento collettivo' di uno stesso 'clima culturale', essi tradiscono la cultura, diventano un gruppo 'autonomo', fuori dalla realtà sociale, fuori dalla vita"45.

 

 

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