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Il brusio dellessere-pedagogico.Riflessioni in merito alla
filosofia delleducazione.
di Gianluca Giachery |
3. Perché il «cambiamento»?
E
fondamentale accordarsi semanticamente e concettualmente sulla parola «cambiamento.»
Comunemente
sintende per cambiamento ciò che porta a un nuovo corso, una dimensione
trasformativa. Nel linguaggio comune tuttavia il termine ha curiosamente assunto un
significato unidirezionale: si parla, infatti, di cambiamento solo in presenza di un
mutamento positivo dellindividuo.
Questa
constatazione suggerisce una domanda: dovè la parte mancante del cambiamento?
Ossia, quando il soggetto rimane immobile nel perdurare dei sintomi, non vediamo alcun
scambio relazionale significativo parliamo di stallo, cronicità, profondo deterioramento
ecc. ecc.
E
come se, in realtà, si cercasse di mascherare una propria sconfitta, lincapacità a
non essere riusciti a trasmettere la propria empatia, a tirar fuori dallAltro la
«parte sana.»
La
tecnicizzazione dei linguaggi (come asseriva M. Heidegger [20]) ci ha fatto perdere il significato intimo dei
termini, pertanto si tende a dimenticare che vi sono sempre due (o più) aspetti, che non
sono sempre conflittuali ma che più sovente non sono armonici tra loro.
Leducatore
agisce anche in questo senso: far comprendere cioè allaltro che non è sempre tutto
nero o tutto bianco, tutto buono o tutto cattivo, ma che può esserci unaltra strada
che prende una diversa direzione.
Il
cambiamento ha in sé tanto laspetto della positività quanto quello della
negatività e bisogna sempre avere il coraggio di soffermarsi su entrambi gli aspetti,
sostenendo come anche quella negativa sia una trasformazione dolorosa ma a volte
necessaria, che non soddisfa certo le nostre esigenze di cura dellAltro ma rispetto
cui il nostro agire è impotente.
Afferma
D. Demetrio: «Rubando il lavoro ai linguisti potremmo dire che lesperienza
è periodo organizzato sintatticamente (insieme di più
proposizioni-principale, coordinate e subordinate formanti un senso compiuto)
e che il senso compiuto è fornito dal fattore cambiamento che giustifica quel
tipo di esperienza rispetto ad unaltra.»[21]
Si
tende a considerare paziente poco incline al cambiamento, chi non collabora alla cura,
soprattutto chi ritiene di non aver bisogno di alcunché che lo aiuti.
Ciò
è in parte vero, specie se si comprende quanto possa essere difficile (in senso
esistenziale), ad esempio, per un paziente di poco più di ventanni considerarsi
schizofrenico.
In
questi casi o ci si accanisce o si lascia perdere. Il paziente non è pronto.
Lattesa è il migliore coadiuvante.
Vi
è una sorta di scomposizione nellesperienza che percorriamo con i pazienti, che ci
porta a scorgere anche in un impercettibile movimento la valenza di una soggettualità che
diviene.
Fenomenicamente
lessere è «gettato nel mondo» e questa condizione, che M. Heidegger ha definito
«inautentica» [22], si
ripropone costantemente in tutta la nostra esistenza, rendendoci partecipi della
soggettualità altrui come esperienza che ci porta nella dimensione del con-Esserci,
quella che altrimenti K. Jaspers ha definito lUmgreift, il comprendente. [23]
In
tal senso, proporre allAltro lesperienza del cambiamento significa volgere lo
sguardo verso il proprio essere-nel-mondo non come semplice presenza, ma come
presenza-che-si-dà (es gibt)[24]
in una temporalità definita e che non può essere altra.
Quando
evochiamo le immagini, le rappresentazioni che permettono allAltro di riconoscersi
come soggetto dellessere-nel-mondo, noi gli chiediamo di chiarirci il suo
Mondo-della-Vita (Lebenswelt) come esperienza unica e irripetibile. Questa chiarificazione
si pone a noi come il tramite per giungere nella prossimità dellAltro, non come fatticità
di un evento che mi si propone ripetute volte, ma come lunicità che solo
quella soggettualità sa e può darmi.
Vorrei
richiamare le parole di K. Jaspers: «Se lesistenza è realmente una rottura aperta
nellesserci del mondo, la chiarificazione dellesistenza è laccertamento
di questa rottura mediante il pensiero. La rottura va dallesistenza possibile
alla sua realizzazione senza che ciò implichi labbandono dei limiti della
possibilità. La realtà di questo agire, anche se non è oggettivamente dimostrabile,
costituisce la realtà autentica dellesistenza.»[25]
Esiste
allora una rottura che porta il segno del cambiamento. Non è, come suggerivo sopra, una
questione di valore. Essa è la manifestazione dellesistenza nel suo
essere-al-mondo, prendendo essa stessa quella possibilità che permetta di guardare con
sguardo diverso alla com-prensione di sé come soggettualità che manifesta la propria
differenza.
La
definizione del mondo-della-Vita (Lebenswelt) si avvicina in modo ancor più chiaro
allincontro tra lessere e lintersoggettività, di cui E. Husserl parla
nella già citata V Meditazione cartesiana.
Non
si potrebbe fare educazione, a mio avviso, (e, pertanto, filosofia delleducazione)
se non si partisse dalla constatazione che noi siamo nel mondo, non (o, meglio, non solo)
in quello della cosalità (riflessione che ci riporta allultimo Heidegger [26]), ma in quello dove
lesistenza diviene vita, riconoscendo se stessa come intenzionalità che si propone
ad altre soggettualità.
In
che modo ci rendiamo fino in fondo partecipi del mondo-della-Vita? Attraverso
lesperienza (Erlebnis), il «flusso delle Esperienze»[27] (Erlebnisse) che
per E. Husserl e per tutta la fenomenologia è un paradigma irrinunciabile. [28]
Una
condizione che lesperienza determina è il «senso» che diamo alla vita, alla
temporalità, al nostro stesso esistere e che ci porta in quella dimensionalità che è
chiarificazione della apertura verso lAltro che noi siamo. Una possibilità che è
essa stessa un tendere-verso lapertura intersoggettiva, ciò che ci porta ad
esperire lalterità della presenza nel divenire umano.[29]
Le
parole di E. Lévinas sullAltro, lalterità che ognuno di noi è ed ha in sé,
hanno portato alla nostra attenzione il senso delle azioni che noi compiamo per renderci
partecipi di una vicinanza che renda meno dolorosa la sofferenza.
Lermeneutica
fenomenica di E. Lévinas ha dato valenza teoretica a tutta una serie di movimenti che noi
attuiamo nella relazione daiuto: lattenzione allo sguardo dellAltro, al
nostro, la gestualità, la mimica facciale o la postura corporea, come lindividuo si
pone nello spazio che lo separa da noi.[30]
Sono
tutti movimenti che spesso leducatore attua senza averne piena percezione. Eppure,
in quei momenti, si comunica molto più che se si formulassero parole piene di quel senso
tecnico cui siamo legati. In quei momenti siamo nello spazio dellAltro, poiché egli
ci percepisce come presenza che diviene e che, al contempo, è comprensiva della pienezza
che lAltro ci concede.
Afferma
E. Lévinas: «La presentazione del volto lespressione- non svela un mondo
interiore, preliminarmente chiuso, e che aggiunge così una nuova regione da comprendere o
da prendere. Mi chiama, al contrario, al di sopra del dato che la parola ha già messo in
comune tra di noi. Ciò che si dà, ciò che si prende, si riduce al fenomeno scoperto ed
offerto, alla presa e che conduce unesistenza che si sospende nel possesso. Di
contro, la presentazione del volto mi mette in rapporto con lessere.»[31]
Attraverso
lesperienza che è un vissuto che porta a conoscenza di ciò che per Lévinas è
verità, noi poniamo le basi di quel cambiamento che è anche la pienezza del sorriso o
quella sottile luce che intravediamo sul volto dellAltro. La sola verità che,
forse, ci è dato di conoscere.
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