La Mediazione PedagogicaLiber Liber

Il diritto alla privacy e ricerca scientifica
di  Renzo Remotti

3. Il primo comma dell’art. 33 della Costituzione e il Decreto Legislativo 30 – 7 – 1999, n. 281. [22]

Il Consiglio d’Europa con due importanti raccomandazioni [23] indicò agli Stati membri la necessità di emanare provvedimenti legislativi chiari in tema di dati personali, ricerca storica e statistica. L’Italia si adeguò a tali indicazioni con il decreto legislativo 30 – 7 – 1999, n. 281.

Sul piano costituzionale il primo comma dell’art. 33 della costituzione sancisce: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.” Questo articolo garantisce che interferenze di vario genere alla libertà di espressione degli artisti e degli scienziati. Il problema costituzionale è individuare limiti, posto che esistano, a tale libertà.

Secondo la dottrina dominante la norma rientra nella più ampia libertà di pensiero. Tuttavia il fatto stesso che vi sia un diversa previsione normativa – i Costituenti avrebbero potuto prevedere la libertà della ricerca scientifica in seno all’art. 25 -, implica, secondo alcuni costituzionalisti, una diversità di limiti [24]. Quest’interpretazione è stata messa in dubbio da altri autori. “Per la verità, le manifestazioni dell’arte e della scienza non sembrano completamente coincidere con le manifestazioni del pensiero. L’attività artistica ha per scopo prevalente, se non esclusivo, quello di suscitare degli stati emozionali, non riducibili a proposizioni logiche; mentre l’attività scientifica può ben limitarsi ad attività di ricerca, senza necessariamente pervenire a una comunicazione di risultati (cioè a una manifestazione di pensiero). […]” [25] Anzi Mura conclude: “In presenza di un’esplicita dichiarazione costituzionale della libertà della scienza e dell’arte, separatamente dalla libertà di manifestazione di pensiero, e in assenza di un qualsiasi limite costituzionale, si deve ritenere che la libertà sia totale e la tutela assolutamente rigida.” [26] Non è un caso, infatti, che in relazione all’attività artistica e alla ricerca scientifica non si prevede il generico limite del buon costume. Né d’altra parte pare possibile limitare tali attività per motivi di ordine pubblico e ciò, in quanto, su parere del medesimo autore, essendo stati soppressi espressamente per la libertà religiosa (art. 19) [27], a maggior ragione si deve ritenere che tale libertà assoluta valga anche per l’art. 33. “Se tale limite è escluso dall’art. 19 anche per ciò che riguarda i riti (nonostante questi abbiano un’incidenza materiale e immediata sul vivere sociale) sarebbe assurdo ritenerlo implicitamente ammesso relativamente a un diritto, il cui esercizio non può mai provocare fenomeni analoghi o comunque paragonabili a quelli propri della celebrazione di riti religiosi.” [28] A dire il vero tale argomentazione presta il fianco a molte critiche. Non è detto che l’ampiezza riconosciuta alla libertà di religione valga altrettanto per la libertà di ricerca, considerando anche il fatto che il bene tutelato è ben differente; l’idea che l’esercizio di un culto possa generare pericoli maggiori della ricerca scientifica pare essere il frutto di un pregiudizio piuttosto che una valida ragione giuridica. Si ritiene, invece, che l’assolutezza della norma in questione possa essere derivata da due ragioni, l’una di diritto interno, l’altra di diritto internazionale. Per ciò che concerne il nostro ordinamento i diritti sanciti nella parte prima della Costituzione introducono diritti assoluti dell’individuo nei suoi rapporti con la società, tanto fondamentali che una loro qualsiasi arbitraria restrizione renderebbe la forma dello Stato differente da quella che i Costituenti fin dall’inizio vollero fondare. Vi è un corpus di diritti e libertà minimo, infatti, senza il quale non è possibile più parlare di Stato repubblicano. In altre parole se non vi fossero delle sfere di libertà, in seno a cui ciascun individuo abbia la possibilità di sviluppare la propria istanza sociale, difficilmente si potrà parlare di una costituzione repubblicana. Di conseguenza e in combinato disposto con l’art. 139 della Costituzione, solo una previsione normativa di rango costituzionale potrà eventualmente introdurre limiti a tali articoli. Il limite del buon costume è espressamente previsto dall’articolo 21, con la conseguenza che tale vincolo vige in relazione alla libertà di pensiero. Nulla, invece, viene sancito nell’articolo in parola. Senza una previsione esplicita nessuna legge ordinaria potrà introdurre limiti alla libertà artistica e scientifica senza incorrere nel pericolo di una pronuncia d’incostituzionalità.

Nemmeno sul piano del diritto internazionale, proprio grazie l’articolo 2 della Costituzione, si può giungere alle medesime conclusioni.

Sancisce, infatti, l’articolo 15, comma 3 del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali del 19 – dicembre – 1966: “Gli Stati parte del presente Patto si impegnano a rispettare la libertà indispensabile per la ricerca scientifica e l’attività creativa.” [29] Il patto non prevede alcun limite.

Queste norme, almeno per la dottrina prevalente, rientrano nella nozione di ius cogens e, in quanto tali, non derogabili nemmeno da un trattato internazionale. L’art. 53 della Convenzione di Vienna si esprime in questi termini: «è nullo ogni trattato che, al momento della sua conclusione, è in contrasto con una norma imperativa del diritto internazionale generale.» In altre parole se è contrario allo ius cogens. Se si ammette che vi sono delle norme di ius cogens, si ammette implicitamente che vi sia un limite generale alla libertà di formare trattati. La teoria di uno ius cogens non è pacifica e la prassi internazionale sembra continuamente smentire un limite alla sovranità degli Stati tanto importante. Si comprende, pertanto, per quale ragione è difficile introdurre nella prassi internazionale un tale principio. In ogni caso secondo la dottrina ed in alcuni casi la giurisprudenza ritengono rientranti nella nozione di ius cogens per esempio la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (1948) e i patti relativi. Da ciò l’assenza dei limiti.

Differente discorso deve essere seguito per il diritto alla privacy. Quest’ultima è espressamente tutelata dall’art. 12 della Dichiarazione Uneversale dei diritti dell’uomo e dall’art. 8 della Convenzione europea. Non possono, conseguentemente, sorgere dubbi sulla costituzionalità del decreto in oggetto.

Il decreto, che in realtà modifica atti legislativi attualmente vigenti, regola specificamente il trattamento di dati personali, quando vengono utilizzati: “per scopi storici, di ricerca scientifica e di statistica in conformità alle leggi, ai regolamenti, alla normativa comunitaria e ai codici di deontologia e di buona condotta […]” (art. 2 decreto legislativo citato, modifica dell’art. 7, comma 5bis l. 675\96). La medesima norma prevede l’obbligo di notifica in forma semplificata al Garante del trattamento di dati personali, se finalizzato a scopi di ricerca. Precisamente, ai sensi della medesima norma, ciò significa che la notifica dovrà contenere:

a) il nome, la denominazione o la ragione sociale e il domicilio, la residenza o la sede del titolare;

b) l'ambito di comunicazione e di diffusione dei dati;

c) una descrizione generale che permetta di valutare l'adeguatezza delle misure tecniche ed organizzative adottate per la sicurezza dei dati;

d) il nome, la denominazione o la ragione sociale e il domicilio, la residenza o la sede del responsabile; in mancanza di tale indicazione si considera responsabile il notificante;

e) la qualità e la legittimazione del notificante.

Viene, invece, esclusa la notifica, quando:

“è compreso nel programma statistico nazionale o in atti di programmazione statistica previsti dalla legge ed è effettuato in conformità alle leggi, ai regolamenti, alla normativa comunitaria e ai codici di deontologia e di buona condotta […]”

Il decreto differenzia nettamente tra dati utilizzati per fini di ricerca storica (artt. 7 – 9) e dati utili all’analisi statistica (artt. 10 – 12).

Per quanto concerne la ricerca storica vengono introdotti due importanti principi. Il primo comma dell’art. 7 stabilisce che i dati comunque assunti non possono essere usati per formare atti o provvedimenti amministrativi sfavorevoli all’interessato [30].

La ratio della norma può essere ravvisata sotto un duplice aspetto. Con l’entrata in vigore della l. 241\90 non si è introdotto solo il fondamentale principio della trasparenza amministrativa, ma per la prima volta, almeno nell’ordinamento italiano, si è formalizzato il procedimento che la pubblica amministrazione deve seguire per dare vita a un atto o provvedimento amministrativo. Di conseguenza, affinché i pubblici poteri agiscano in modo legittimo, è indispensabile che seguano stricto sensu ogni fase stabilita dalla legge.

Un provvedimento amministrativo non può certo derivare da informazioni assunte senza le dovute garanzie per il cittadino. Un documento archivistico può rivestire un’importanza notevole per lo storico, che è interessato a ricostruire esattamente il passato, ma è chiaro che le notizie tratte da tale documentazione non possono essere usate per fondare provvedimenti sfavorevoli all’interessato. Quando, infatti, lo storico svolge una ricerca, si dedica a un’attività meramente cognitiva. Il suo modo di procedere si ispira solo alla voglia di conoscere e, pertanto, il trattamento della fonti, in cui possono essere ben contenuti dati storici, non può essere vincolato da complesse procedure amministrative. L’unico vincolo introdotto da questa normativa è la tutela della privacy. Nell’ipotesi, al contrario, che una qualsiasi autorità pubblica voglia utilizzare simili dati per i propri fini istituzionali, dovrà seguire le procedure previste, le sole che possono garantire la certezza dell’azione amministrativa, che è realtà ben diversa dalla certezza storica.

D’altra parte il principio tutela in sommo grado l’indipendenza della ricerca storica. Si impedisce che lo storico possa essere utilizzato, magari suo malgrado, per finalità diverse dalla ricerca. Al fine di garantire che l’attività di ricerca storica possa essere utilizzata solo per scopi cognitivi la legge rende inutilizzabili le informazioni per fini differenti dalla conoscenza storica.

Ciò significa in termini costituzionali che il comma in questione non è altro che la necessaria conseguenza del primo comma dell’art. 33 della Costituzione. Il comma successivo del decreto introduce un ulteriore sottolineatura del precedente concetto, sancendo che i documenti possono essere utilizzati solo nel caso siano “pertinenti e indispensabili” alla ricerca storica [31]. Tale espressione può forse generare alcuni dubbi.

Che cosa si deve considerare indispensabile? Non è vero che, in fondo, qualsiasi documento può essere altrettanto indispensabile ovvero inutile a seconda dei criteri difficilmente definibili prima della ricerca? Inoltre chi stabilisce che un certo documento è indispensabile?

Tuttavia, inseriti i due aggettivi nella globalità della norma, il significato è chiaro. Il comma aggiunge, infatti, che bisogna tenere conto della natura dei documenti. La pertinenza e l’indispensabilità deve essere valutata in rapporto alla natura storica della documentazione. Per esempio una mera lettera di trasmissione, dove sono contenuti dati personali, può apparire inutilizzabile, in quanto non indispensabile, ma questa documentazione diventa fondamentale in relazione ad una ricerca sulla prassi amministrativa. Ciò significa che il carattere di indispensabilità ovvero di pertinenza è offerto dalla ricerca stessa.

Il significato della norma è metagiuridico, nel senso che a stabilire la natura di indispensabilità e pertinenza è la scienza storica stessa.

A suffragio di tale interpretazione basti considerare che, ai sensi dell’art. 8, comma secondo, lettera b) del decreto, che modifica l’art. 21, secondo comma DPR 30 – 9 – 1963 n. 1409 stesso, la consultabilità dei documenti riservati, è ammessa proprio previo parere del direttore dell’archivio, in quale, in quanto esperto, dovrà tenere conto della ricerca proposta, della documentazione disponibile etc [32].

Il secondo principio in tema di utilizzo di dati per la ricerca storica viene sancito dal terzo comma dell’analizzando art. 7 del decreto [33]. I dati possono essere diffusi sia quando è lo stesso interessato che li ha resi pubblici sia quando riguardino comportamenti che si svolgano in pubblico. In questa seconda ipotesi si introduce una nuova forma di autorizzazione alla diffusione di dati personali: il consenso implicito. Qualora il comportamento si svolga in un luogo pubblico è evidente che sia lo stesso interessato a dimostrare il proprio consenso alla diffusione delle informazioni deducibili dal comportamento medesimo. In ogni caso si ritiene necessario che l’interessato sia consapevole o, per lo meno, avrebbe dovuto esserlo con la comune diligenza, di trovarsi in un luogo pubblico. L’aula del tribunale, per esempio, salvo l’ipotesi in cui il processo si svolga a porte chiuse, è un tipico luogo pubblico e tutti possono sapere che tutto ciò che vi ci svolge. Del resto il processo penale in una democrazia, salvo le eccezioni stabilite espressamente dalla legge, è un evento pubblico e conseguentemente tutto ciò che avviene in aula è necessariamente pubblico.

Peraltro il concetto di “pubblico” riguarda anche la documentazione. In tutti gli ordinamenti democratici esistono degli atti che fin dalla loro nascita sono pubblici, con la conseguenza che tutto ciò che in esso è contenuto non può essere ritenuto riservato. Non può essere esclusa dalla libera consultazione una sentenza, proprio perché tale provvedimento giudiziario è pubblico.

Analoghe considerazioni valgono per una delibera comunale che, salvo rare eccezioni, deve essere affissa all’albo pretorio fin dal momento della propria nascita proprio per permettere un’ampia partecipazione della collettività all’azione politica, quando ha diretti riflessi in seno alla comunità. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma in questa sede bisogna sottolineare solo il fatto che la nozione di pubblico deve essere intesa in senso ampio.

Il decreto ha, inoltre, apportato importanti emendamenti all’art. 21 del DPR 30 – 9 – 1963 n. 1409 in merito ai termini, entro cui i documenti amministrativi non sono liberamente consultabili. I tempi sono stati semplificati. In seguito alla riforma tutti i documenti sono consultabili dopo 40 anni dopo la data dei documenti [34]. Il termine diventa di settant’anni nel caso i dati riguardino lo stato di salute, la vita sessuale o fatti riservati familiari.

Purtroppo i termini non sono inderogabili. Per scopi di ricerca storica è possibile inoltrare istanza a un apposita commissione, che si riunisce presso il Ministero dell’Interno, la quale, previo parere del direttore dell’Archivio, potrà concedere a determinate condizioni l’accesso agli atti riservati. Tuttavia anche dopo che la commissione ha eventualmente rilasciato la prevista autorizzazione, gli atti mantengono la natura di riservati (art. 9 primo comma, punto primo, che introduce l’art. 21 bis al DPR 1409\63). Tuttavia, per fini storici, i documenti conservati negli archivi di Stato sono consultabili, essendo la seconda parte dell’articolo citato superato dall’art. 23 del decreto legislativo 11 – maggio – 1999, n. 135, che ha ritenuto di rilevante interesse pubblico tutti i documenti versati negli Archivi [35].

Non si tratta di una modifica di scarso rilievo, anche se, considerato il tenore del novellato articolo, sarebbe stato molto più coerente sul piano della tecnica legislativa, rendere i termini inderogabili. E’ significativa l’introduzione esplicita della possibilità riconosciuta a chiunque abbia un interesse, ai sensi dell’art. 13 della l.675\96, di bloccare la diffusione di tutti quei dati che possono essere dannosi per la propria dignità, riservatezza o identità personale, salvo che ciò costituisca un rilevante interesse pubblico [36] .

La possibilità di derogare ai termini, invece, introduce un elemento di incertezza, che difficilmente potrà sfuggire a tratti di eccessiva discrezionalità nell’utilizzo di un diritto della personalità, che esclude ontologicamente elementi manipolabili da pubblici poteri. In questo modo, invece, si è conferito agli atti d’archivio il carattere di atti riservati fino ad avvenuta autorizzazione. Se, al contrario, la privacy è diritto della personalità in senso pieno, è evidente che la sua tutela non può trovare alcuna deroga su concessione di una qualsiasi autorità né politica, né scientifica o di altra natura. Non bisogna dimenticare che i diritti della personalità, secondo la sopra citata teoria dello ius cogens, non sono concessi dagli stati, ma semplicemente riconosciuti con la conseguenza che tali diritti appartengono in re ipsa esclusivamente alla persona. Pertanto è evidente che nessuna autorità può concedere un diritto che non gli appartiene. Un ulteriore elemento di incertezza è stato introdotto con l’entrata in vigore del decreto legislativo 11 – maggio – 1999, n. 135, secondo cui, ai sensi dell’art. 23, tutti i documenti conservati negli archivi di Stato sono di rilevante interesse pubblico [37]. L’interpretazione che pare più in armonia all’intero ordinamento è che la facoltà, di cui all’art. 13 l. 675\96, non è applicabile alla documentazione archivistica quando questa è utilizzata per fini storici, mentre è vigente quando l’istanza di accesso è inoltrata per scopi amministrativi [38].

Si ritiene, comunque, che l’autorizzazione prevista debba essere abolita, introducendo termini, anche più brevi, ma assolutamente inderogabili. Ne risulterebbe un ottimo servizio al principio della certezza del diritto.

Il decreto si occupa anche della ricerca statistica e della ricerca scientifica in genere. Per tutti questi scopi rientrano nelle previsioni del decreto solo quei dati singoli o la combinazione di dati che rendono identificabile una persona. L’indicazione della semplice età in un formulario anonimo non è evidentemente dato personale, in quanto tale informazione non rende possibile l’identificazione della persona, ma la combinazione con nome e cognome comporta ipso facto la formazione di una vera e propria banca dati. Per il resto valgono le medesime considerazioni appena scritte.



[22] Pubblicato su G.U. 16 – 8 – 1999, n. 191

[23] R. (83) 10 adottata il 23 – 9 – 1983 e R. (97)18 adottata il 30 – 9 – 1997.

[24] Fois S., Principi costituzionali e libera manifestazione del pensiero, Giuffrè, 1967, pp. 47 ss.

[25] Mura A., art. 33-34, Rapporti etico-sociali, in Branca G. (a cura di), Commentario della Costituzione, Zanichelli, 1976, pp. 227 ss.

[26] op. ult. cit., p. 230.

[27] Atti Costituzionali, p. 2774.

[28] Fois S., op. cit., pp. 49 ss.

[29] Pubblicato in G.U. 7 – 12 – 1977, n. 333.

[30] Il testo esatto è: “I dati personali raccolti per scopi storici non possono essere utilizzati per adottare atti o provvedimenti amministrativi sfavorevoli all'interessato […]”

[31] ossia: “I documenti trattati per scopi storici possono essere utilizzati, tenendo conto della loro natura, solo se pertinenti e indispensabili per il perseguimento dei predetti scopi. I dati personali possono essere diffusi solo se parimenti utilizzati per il perseguimento dei medesimi scopi.”

[32] L’articolo 21 secondo comma DPR 1409\63 riformato sancisce: “Il Ministro dell'interno, previo parere del direttore dell'Archivio di Stato competente e udita la commissione per le questioni inerenti alla consultabilità degli atti di archivio riservati istituita presso il Ministero dell'interno, può permettere, se necessario per scopi storici, la consultazione di documenti di carattere riservato anche prima della scadenza dei termini indicati nel comma precedente. In tal caso l'autorizzazione è rilasciata, a parità di condizioni, ad ogni altro richiedente.”

[33] ossia: “I dati personali possono essere comunque diffusi qualora siano relativi a circostanze fatti resi noti direttamente dall'interessato o attraverso i suoi comportamenti in pubblico.”

[34] Il testo esattamente sancisce: “[I documenti] diventano liberamente consultabili quaranta anni dopo la loro data. Il termine è di settanta anni se i dati sono idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale o rapporti riservati di tipo familiare. Anteriormente al decorso dei termini di cui al presente comma, i documenti restano accessibili ai sensi della disciplina sull'accesso ai documenti amministrativi; sull'istanza di accesso provvede l'amministrazione che deteneva il documento prima del versamento o del deposito.”

[35] La norma sancisce: “I documenti detenuti presso l'Archivio centrale dello Stato e gli Archivi di Stato sono conservati e consultabili anche in caso di esercizio dei diritti dell'interessato ai sensi dell'articolo 13 della legge 31 dicembre 1996, n. 675, qualora ciò risulti necessario per scopi storici. Ai documenti è allegata la documentazione relativa all'esercizio dei diritti. Su richiesta di chiunque vi abbia interesse ai sensi del medesimo articolo 13, può essere comunque disposto il blocco dei dati personali, qualora il loro trattamento comporti un concreto pericolo di lesione della dignità, della riservatezza o dell'identità personale degli interessati e i dati non siano di rilevante interesse pubblico.”

[36]Ossia: “Su richiesta di chiunque vi abbia interesse ai sensi del medesimo articolo 13, può essere comunque disposto il blocco dei dati personali, qualora il loro trattamento comporti un concreto pericolo di lesione della dignità, della riservatezza o dell'identità personale degli interessati e i dati non siano di rilevante interesse pubblico.”

[37] Il testo esatto è: “Ai sensi dell'articolo 1, si considerano di rilevante interesse pubblico i trattamenti di dati a fini storici, di studio, di ricerca e di documentazione, concernenti la conservazione, l'ordinamento e la comunicazione dei documenti conservati negli archivi di Stato e negli archivi storici degli enti pubblici, secondo quanto disposto dal decreto del Presidente della Repubblica 30 settembre 1963, n. 1409, e successive modificazioni e integrazioni.”

[38] Questa per lo meno è l’interpretazione che appare più in armonia con la legislazione vigente. Tuttavia, come anche il gruppo di lavoro che ha elaborato la bozza del codice deontologico, ci si augura che il legislatore ponga al più presto all’incertezza dell’attuale assetto normativo.

 

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