La Mediazione PedagogicaLiber Liber

La filosofia dell'educazione di John Dewey dalle lezioni del 1899 a Democrazia e Educazione
di  Maria Francesca Picella

1. John Dewey: filosofo e pedagogista.

1.1 Aspetti fondamentali della filosofia di Dewey

John Dewey [1] (Burlington, 1859; New York, 1952), è una delle personalità più rappresentative della filosofia contemporanea, e senz’altro quella di maggior rilievo all’interno della filosofia americana, avendo egli prodotto, sul piano speculativo, un pensiero del tutto autonomo ed originale. Fu, comunque, soprattutto la “scuola di Chicago” ad influenzare il pensiero filosofico degli Stati Uniti e ad esercitare anche una fortissima influenza, per oltre mezzo secolo, soprattutto in campo educativo al punto che egli viene a ragione considerato come “il teorico più geniale ed ascoltato”[2] dell’attivismo, ed ancora come “il più grande pedagogista del Novecento: il teorico più organico di un nuovo modello di pedagogia, nutrito dalle diverse scienze dell’educazione; lo sperimentatore più critico dell’educazione nuova (….)”[3].

Grande pedagogista, dunque, sia teorico che pratico, ma prima ancora grande filosofo. Come tale ha avuto il merito di sviluppare a pieno la lezione del pragmatismo americano “verso esiti razionalistico-critici, metodologici ed etico-politici, connotati in senso strumentalistico, cioè legati ad un’idea di ragione aperta come strumento nella complessa dinamica dell’esperienza, individuale e storica”[4].

Dewey fu, infatti, molto attento alle trasformazioni sociali e politiche avvenute nella società del suo tempo: si pensi al passaggio dall’agricoltura all’artigianato, alla produzione industriale, che porterà al fenomeno dell’urbanesimo e del livellamento sociale, grazie alla diffusione sempre crescente dello spirito democratico.

A partire dall’osservazione di questi fenomeni, Dewey giunge a sposare l’idea di società evoluta, cioè di una società che, come già era stato sottolineato nell’ambito dell’utilitarismo inglese, in particolare da Bentham, si organizzi su basi nuove, al fine di produrre la maggior felicità possibile al maggior numero possibile di persone. Il filosofo americano rifiuta, però, i più comuni parametri di giudizio necessari per definirne il livello di progresso raggiunto. Il progresso di una società, precisa, non dovrebbe, infatti, misurarsi sulla base dell’incremento del prodotto lordo, come vuole ad esempio l’economia politica, ma in termini di organizzazione sociale.

Tutto dovrebbe, dunque, ruotare intorno ad una vera e propria legge che consenta l’avanzare secondo ragione: Dewey viene così a ridurre le stesse differenze sociali a dati di fatto su cui la ragione deve intervenire ed operare in vista di un sempre maggiore progresso; un progresso guidato esclusivamente dalla ragione!

Nonostante le apparenze, però, in realtà il filosofo americano arriva a mettere in discussione la scienza positivista perché quest’ultima aveva svolto una funzione esclusivamente celebrativa della società industriale in ascesa.

Secondo Dewey, invece, occorre una trasformazione radicale della società per risolverne i problemi e superarne le contraddizioni interne.

Il fine? La realizzazione della felicità come valore sociale, annullando o quantomeno correggendo le diverse forme di squilibrio esistenti, che sole non consentono il pieno e libero sviluppo della creatività della vita in forme sempre più articolate.

Al proposito Dewey accetta il principio fondamentale che sta alla base della cosiddetta dottrina del migliorismo, così come era stata già formulata da James[5].

Il migliorismo muove, infatti, dall’assunto che il mondo sia imperfetto, ma possa essere migliorato: proprio in ciò risiede la sua novità rispetto al vecchio modo di concepire il mondo stesso, guardato a seconda dei casi con ottiche assolutamente pessimiste o ottimiste.

Dewey, invece, parte da una concezione del mondo come sede di ogni contrasto, di ogni male ed errore (da cui deriva la sua imperfezione), ma proprio in un simile contesto affonda le radici la sua fiducia ottimistica in un miglioramento, in un progresso.

L’imperfezione del mondo viene, infatti, ad esercitare una funzione di stimolo sull’intelligenza poiché la induce ad analizzare la situazione specifica, ad individuare gli ostacoli che rendono difficile l’attuazione di condizioni migliori. Il migliorismo è, dunque, la credenza che le condizioni specifiche esistenti in un dato momento, buone o cattive che siano, possano in ogni caso essere migliorate, grazie ad un corretto uso della ragione.

Quest’ultimo punto, in particolare, mette bene in evidenza uno dei tre aspetti fondamentali dell’intera opera di Dewey: l’Illuminismo.

All’interno della sua particolare forma di pragmatismo, lo strumentalismo (si pensi alla polemica deweyana contro il mito dell’intelletto puro, tipico dell’idealismo, a favore del carattere strumentale della ragione), è possibile parlare, dunque, anche di Illuminismo, dato il compito regolatore ed ordinatore che il filosofo americano attribuisce alla ragione.

Il termine naturalismo, infine,  esprime perfettamente il terzo aspetto dell’opera di Dewey, quello che per la precisione tende a vedere una sostanziale continuità tra l’uomo e la natura (e la società), tra il mondo biologico e quello spirituale.

Solo dopo aver ricordato tutto ciò e pensando, inoltre, al particolare contesto sociale rappresentato dall’America nei primi decenni del secolo (si pensi alla necessità di adeguare lo spirito filosofico al livello tecnico e scientifico che informa di sé la società in pieno sviluppo economico e in piena trasformazione sociale), possiamo essere in grado di cogliere i principali contenuti dell’opera di Dewey, la cui filosofia, e non è un caso, verrà a costituire il fondamento del New Deal di Roosevelt[6] (ovvero di quel programma di ricostruzione economica e democratica della società americana dopo la grande crisi del 1929) ed anche l’ideologia con cui gli Stati Uniti affronteranno la guerra antinazista.

1.2 Contenuti principali dell’opera deweyana

Il dualismo esistente nella società moderna, come già in quella antica, tra lavoro manuale e intellettuale, tra cultura e lavoro, intellettuali ed operai, osserva Dewey, è pericoloso perché ha storicamente sempre portato a scontri o incomprensioni tra gruppi sociali contrapposti, minacciando così uno sviluppo ordinato e pacifico della democrazia.

Ma che cosa intende Dewey per democrazia (punto intorno al quale ruota tutta la sua riflessione politica)?

Innanzitutto spirito di collaborazione, solidarietà e rispetto di ogni iniziativa individuale. Tuttavia il filosofo americano matura anche la convinzione che la democrazia comporti anche e soprattutto l’assunzione del principio di responsabilità. Ciascuno, cioè, deve collaborare, compiendo principalmente il proprio dovere, al progresso della democrazia: a tutti è demandato il compito specifico di offrire la propria collaborazione, ad esempio ponendo le proprie esperienze al servizio della società, in modo che per il bene e la felicità comune possano essere sempre adottate le scelte e le decisioni migliori.

Come risulta evidente, queste considerazioni di Dewey sulla democrazia riflettono il migliorismo che è alla base delle sue vedute sociali e politiche, oltre che della sua concezione dell’uomo.

Anche l’interesse di Dewey per l’educazione e la scuola è strettamente connesso alle sue vedute filosofiche più generali. D’altra parte, per lui, la filosofia non è altro che “teoria generale dell’educazione”, secondo la definizione che lui stesso ci offre nel suo capolavoro pedagogico, Democrazia e educazione (1916)[7].

Fautore di una nuova concezione dell’educazione, da lui stesso denominata educazione progressiva, Dewey critica la contrapposizione, prevalente nella scuola tradizionale, tra la dimensione intellettuale e quella pratica e sostiene, come vedremo, un apprendimento basato sul fare (learning by doing = apprendere attraverso il fare).

All’interno della scuola pensata da Dewey e, in generale, all’interno di tutto il cosiddetto movimento delle scuole nuove, centro del processo educativo diventa, dunque, il bambino con la sua attività e i suoi interessi.

Si afferma ormai che la scuola non deve più trasmettere un sapere già definito, ma deve far sì che il bambino, attraverso la sua del tutto autonoma attività, ed anche attraverso la vita comunitaria e l’autodisciplina, pervenga al sapere come ad una conquista personale.

In definitiva, ad una scuola (quella tradizionale) vista come semplice luogo di mera alfabetizzazione, si contrappone un tipo di scuola (la scuola nuova) vista, invece, come il luogo in cui sia possibile realizzare esperienze personali all’interno di una concezione comunitaria della vita.

Solo così la scuola potrà assumere una funzione realmente costruttiva anche sul piano sociale.

D’altra parte, quando si riflette sull’educazione in un’ottica filosofica, come fa Dewey, essa non può che apparire come un processo di crescita dell’esperienza che arricchisce l’esperienza stessa di nuove prospettive, ampliando gli orizzonti del singolo individuo e, in ultima analisi, dell’umanità tutta.

Alla luce di quanto ricordato finora, appare ormai chiaro, dunque, il motivo per cui Dewey viene considerato come il più grande interprete della “profonda crisi che serpeggia nell’ordinamento tradizionale degli studi e nei vecchi tipi di scuola”[8], e il suo pensiero come “la più poderosa rivendicazione dell’autonomia dell’educazione e la più incalzante critica di qualsiasi residuo di oggettivismo didattico, che siano apparse nella speculazione contemporanea”[9].

La sua proposta di scuola attiva, non a caso, influenzerà tutto il pensiero pedagogico dell’attivismo, nonché le sue realizzazioni pratiche.

Per questo motivo, essa costituisce senz’altro un “punto di non ritorno per la teoria dell’educazione contemporanea”[10].


[1] Professore di filosofia dapprima presso l’Università del Minnesota e dal 1889 in quella del Michigan. Successivamente (1894 -1904) gli venne affidata la cattedra di filosofia, psicologia e pedagogia all’Università di Chicago. Insegnò, infine, anche a New York a partire dal 1904 in poi. Tra le sue opere più importanti vale la pena ricordare: Il mio credo pedagogico (1897), Scuola e società (1899), Come pensiamo (1910), Democrazia e educazione (1916,) Esperienza e educazione (1938), Libertà e cultura (1939) e L’educazione di oggi (1950). Tra le altre cose ha avuto anche il merito di fondare la prima scuola elementare attiva.

[2] Ernesto Codignola, Le “scuole nuove” e i loro problemi, La Nuova Italia, Firenze, 1974, p. 31.

[3] Franco Cambi, Storia della pedagogia, Laterza, Bari, 2001, p. 454.

[4]F. Cambi, Storia della pedagogia, cit., p.455.

[5] William James (1842-1910) fu l’iniziatore del pragmatismo. Dewey è considerato l’interprete della versione sociale del pragmatismo, lo strumentalismo.

[6] Si pensi ad opere come Individualismo vecchio e nuovo (1930), Liberalismo e azione sociale (1935), Libertà e cultura (1939), Problemi di tutti (1946).

[7] p. 421.

[8] E. Codignola, Le “scuole nuove” e i loro problemi, cit., p.32.

[9] E. Codignola, Le “scuole nuove” e i loro problemi, cit., p. 32.

[10] Furio Pesci, Da Dewey a Kelly, Centro Editoriale Toscano, Firenze, 2000, pp. 11-12.

 

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