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MACEDONIO MELLONI
Relazione intorno
al dagherrotipo
Letta alla Regia Accademia delle Scienze nella tornata del di
12 novembre 1839
Chiarissimi colleghi,
In una delle ultime
tornate, il sig. Presidente mi consegnava un giornale di Francia
contenente una relazione di Arago su quella maravigliosa scoperta
del Dagherre che ha destato, or ora, tanto remore in tutto il
mondo incivilito, per mezzo della quale si possono ritrarre a
chiaroscuro e conservare stabilmente su certe lamine metalliche,
le immagini di paesaggi, di statue, di monumenti, ed altri oggetti
immobili, mediante la semplice azione della luce; e di codesta
relazione, m'invitava ad offerire un sunto all'Accademia.
La relazione, maestrevolmente
scritta come tutte le produzioni del celebre fisico francese;
era diretta a' suoi colleghi della camera dei Deputati, ed aveva
per iscopo d'indurli ad approvare un progetto del Governo che
proponeva, dietro le insinuazioni dello stesso Arago, una pensione
annua di diecimila franchi da compartirsi tra Dagherre e Niepce
figlio del defunto suo collaboratore, a condizione che il processo
con cui si ottenevano questi disegni fosse reso di pubblica ragione.
Nell'accettare,
rispettosamente come doveva, l'incombenza affidatami dal signor
Presidente, mi permisi di fargli osservare che invece di comunicare
all'Accademia una semplice descrizione delle produzioni Dagherriane,
converrebbe assai meglio aspettare la pubblicazione ormai sicura
del segreto, affin di renderla nello stesso tempo consapevole,
e dell'effetto artistico di questo portentoso ritrovamento, e
di tutto quanto spetta alla sua parte storica e scientifica;l'osservazione
fu gentilmente accolta ed approvata.
Passavano appena
alcune settimane, ed il rescritto ministeriale adottato da ambe
le camere, imponeva al Dagherre il dovere di rivelare alla Francia
ed al mondo intero le sue misteriose operazioni: lo che egli
fece nel modo il più soddisfacente confidando ogni cosa
ad una commissione dell'Istituto, la quale espose minutamente
il processo per bocca del suo relatore Arago, in una solenne
adunanza di quell'illustre corpo Accademico: questo secondo rapporto
fu poscia stampato nei principali fogli di Francia, e tradotto
in quasi tutti i giornali esteri.
Non contento di
tanta pubblicità il Dagherre consacrò parecchie
sessioni a diffondere la pratica de' suoi metodi operando in
presenza di un numeroso uditorio, e mostrando scrupolosamente
ogni più minuta avvertenza: egli stampò anche un
opuscolo su questa materia, ed indusse alcuni speculatori a riunire
in un sol corpo gli oggetti, e le sostanze necessarie all'uopo;
ed oggidì si trovano presso i principali ottici di Parigi,
ed ormai sparsi per tutta Europa, cedesti apparecchi conosciuti
sotto il nome di Dagherrotipi.
Io avrei voluto
soddisfare sollecitamente all'assunto carico; ma la stagione
avanzata non mi lasciava la possibilità d'informare l'Accademia
di questi fatti innanzi il tempo delle vacanze, e mi vidi costretto
a sospendere la mia narrazione sino alla riapertura delle nostre
sessioni.Intanto l'arte nuova progrediva rapidamente.
Dagherre era giunto
con una rara costanza ed una sagacità impareggiabile e,
direi quasi, instintiva, alla scoperta del suo metodo fotografico;
egli ignorava però la natura intrinseca delle azioni prodotte
successivamente sulle lamine metalliche; e i disegni da esso
lui ottenuti, quantunque di una precisione e di una delicatezza
veramente squisita,erano di tale e tanta, a dir cosi gelosia,
che al più leggier tocco si guastavano;onde conveniva
tenerli del continuo racchiusi in apposite custodie guernite
di vetri.
Ora il dottor Donne
ha data una spiegazione del processo dagherriano convalidata
da esperienze soddisfacenti; e quel che importa immensamente
più, egli è pervenuto durante la serie delle sue
investigazioni teoretiche, non solo a fermare stabilmente sul
metallo le impressioni mobilissime del Dagherrotipo, ma ad incidervele
mediante alcune sostanze che probabilmente corrodono la lamina
metallica essendo ridotte allo stato di vapore: laonde, ora si
possono produrre su metallo e per la sola azione della luce e
di alcuni chimici reagenti, indipendentemente da qualunque soccorso
tratto dalle arti del disegno, deglicavi più o meno larghi
e profondi totalmente analoghi ai lavori dell'incisione ordinaria,
e trame poscia parecchi esemplari su carta.
Il processo del
dottor Donne non è ancora conosciuto, ma i risultamenti
ne sono certissimi, come apparisce ad evidenza dalle notizie
pubblicate nei giornali, e dalle lettere e dagli attestati di
persone probe ed istruite le quali asseriscono di aver visto
cogli occhi propri i saggi di quelle incisioni presentate all'Istituto
di Francia, e presentemente sottoposte all'esame di una commissione
speciale.
Questo preambolo
era indispensabile, e per giustificar noi del breve inter-
vallo che abbiam dovuto necessariamente frapporre alla presentazione
di questo rapporto, e per mostrare che un tal ritardo, lungi
dall'esser riescito nocivo allo scopo, ci ha aperto anzi un campo
più vasto, e sempre più degno della vostra attenzione.
Il Dagherrotipo congiunto al metodo tipografico del dottor Donne,
deve evidentemente spargersi fra ogni classe di scienziati, e
persino tra le persone che ignorano anche i primi elementi di
fisica: questo prezioso apparecchio esigerebbe dunque una descrizione
semplice, e chiara, che ne porgesse la storia, la teorica, e
l'esperienza, in un modo intelligibile a tutti: e noi l'abbiam
tentata.
Aggradite almeno l'intenzione, colleghi prestantissimi, e vogliate
rammentarvi
che non ci siam già gittati spontaneamente ad una impresa
superiore alle nostre forze, ma che il dovere ci costringeva
ad accettarla.Si produca il maggior bujo possibile in una stanza
chiudendone esattamente tutte le aperture, e vi si lasci poscia
entrare la luce per un semplice forellino eseguito in una parete
sottile, condizioni che s'ottengono facilmente levando una porzione
dell'imposta di una finestra, e sostituendovi una lamina metallica
pertugiata.
Se l'apertura guarda
verso la strada o il giardino, si vedran tosto
dipingersi sulla parete opposta, e sulla porzione adjacente del
soffitto, le immagini delle case, degli alberi, dei passaggieri,
e di tutti quegli oggetti esterni le cui irradiazioni giungono
liberamente sul foro: queste immagini, che posseggono dimensioni
più o men grandi secondo la distanza delle pareti, rappresentano
esattamente i corpi ne' contorni, nelle ombre, nei colori, negli
effetti di prospettiva; ma la loro intensità è
debole assai, imperfezione facile a togliersi quando s'aumenti
l'ampiezza del foro sino a tré, o quattro pollici, e vi
si adatti una lente biconvessa di cristallo che lo turi esattamente:
allora ponendo in vicinanza del foro una lamina di vetro resa
semidiafana ed uniformemente scabra sopra una delle sue facce
coll'attrito dello smeriglio, e scostandola gradatamente in modo
da conservarla sempre verticale e parallela alla sua posizione
iniziale, si troverà un certo allontanamento, detto dai
fisici distanza focale, ove le immagini assumono il massimo grado
di chiarezza e di precisione. Si supponga ora la lente fissa
all'estremità di un tubo, il quale s'allarghi alquanto
dal lato opposto, e venga chiuso alla distanza focale da un vetro
smerigliato, e si avrà un'idea esatta della Camera oscura
inventata da G. B. Porta celebre matematico e fisico napoletano,
che fioriva intorno alla metà del secolo XVII. Varie modificazioni
furono successivamente introdotte nella camera oscura del Porta:
alcune tendevano a raddrizzare le vedute che nella disposizione
originale si dipingono rovesciate, e pel nostro proposito non
occorre esaminarle: altre ebbero per iscopo di rendere le immagini
sempre più distinte e precise.
E veramente il
fuoco o distanza focale è quel tal luogo dello spazio,
ove tutti i raggi scagliati da ogni punto dell'oggetto luminoso
o illuminato su tutta l'ampiezza della lente, si riuniscono al
di là, in virtù delle rifrazioni subite nel loro
doppio passaggio dall'aria al vetro, e viceversa. Ora un punto
di qualunque corpo, bianco o colorato, manda fuori de' raggi
di diversa natura, ed ognuno di essi si piega o rifrange diversamente
: ne segue che il fuoco non potrà essere per tutti situato
alla medesima distanza, ma più o meno lontano secondo
la loro minore o maggiore refrangibilità; laonde havvi
una sconcentrazione, o aberrazione come dicono i fisici, la distanza
focale rimane incerta, e l'immagine come orlata di strisce colorate.
Una seconda causa
della dispersione focale deriva dalla figura sferica delle lenti,
che, per concentrare perfettamente nel fuoco la massa di luce
proveniente da ogni punto del corpo, dovrebbero avere dimensioni
picciolissime rispetto al raggio di curvatura; ed ognun vede
che non si potrebbe ridurre eccessivamente l'ampiezza della lente,
se non a discapito della intensità delle immagini. Ma
fortunatamente questa dispersione è debole a segno da
lasciar l'immagine chiara e distinta tanto che basti nelle circostanze
d'ampiezza e di fuoco relative alle lenti, che s'impiegano nella
costruzione della camera oscura.
Una cagione assai più prepotente di confusione in certi
punti della veduta procede dalla forma della superficie ov'essa
dipingesi; perché gli oggetti lontani essendo tutti sensibilmente
dotati della medesima distanza focale, e questa dovendo sempre
prendersi partendo dal centro ottico della lente, i punti laterali
formano i rispettivi loro fuochi tanto più presto, relativamente
al piano del quadro, quanto più sono discosti dall'asse;
di maniera che, colle forme ordinarie delle lenti, il disegno
non potrebbe riescire ben distinto in ogni sua parte, se non
quando la superficie destinata a riceverlo fosse curva, prossimamente
sferica, colla concavità rivolta verso la lente.
La sconcentrazione
proveniente dalla mancanza di una tal disposizione, e quella
che deriva dalla varia rifrazione dei raggi lucidi, sono pertanto
le cagioni che turbano più efficacemente la chiarezza
delle immagini.
Ma la scienza teorico-pratica
dimostrò in tempi non molto remoti, come si
possa rimediare a queste due aberrazioni, di refrangibilità
e di sfericità, componendo la lente con due diverse qualità
di vetro, e comunicando alla sua superficie anteriore una forma
concava di una data curvatura; queste lenti diconsi acromatiche
e periscopiche.
È veramente
mirabile la nitidezza delle immagini che si ritraggono colla
loro applicazione alla camera oscura, e basta contemplare un
solo istante questi graziosi fantasmi, per sentir tosto sorgere
nell'animo un vivo desiderio di renderli stabili, ed utili cosi
all'arte, ed alla scienza: tuttavia quantunque si cercasse di
disegnarli per sovrapposizione sulla carta sino dal primo loro
apparire per opera del Porta, un tal metodo non produsse che
poco o niun frutto; alcuni pittori se ne servirono bensì
per abbozzare le masse principali di certi punti di vista, e
ritrarne le varie parti nelle giuste loro proporzioni; ma era
d'uopo finir poi questi quadretti coll'arte ordinaria del disegno,essendo
quasi impossibile il seguire con esattezza la somma precisione
dei contorni, essendo impossibile sopratutto di entrare nelle
minutissime loro particolarità senza nuocere immensamente
all'effetto della prospettiva.
Chi avrebbe creduto
pochi mesi fa, che la luce, essere penetrabile, intangibile,
imponderabile, privo in somma di tutte le proprietà della
materia, avrebbe assunto l'incarico del pittore, disegnando propriamente
di per se stessa, e colla più squisita maestria quelle
eteree immagini, ch'ella dianzi dipingeva sfuggevoli nella camera
oscura, e che l'arte si sforzava invano di arrestare? Eppure
questo miracolo si è compiutamente operato fra le mani
del nostro Dagherre.
Conoscevasi da
gran tempo una sostanza bianca la quale conserva il suo can-
dore in un luogo totalmente oscuro, e diventa nera essendo esposta
all'azione
della luce. Il cambiamento non è istantaneo, ma graduato,
e quindi proporzio-
nale al tempo ed alla energia della irradiazione lucida; e però
quando alcune
parti di un foglio di carta cosperso di questa sostanza sono
percosse da ombre più o meno decise, ed altre ricevono
l'azione di un chiarore più o men vivo, si trova, dopo
un certo intervallo di tempo, la superficie del foglio sparsa
di macchie di varia intensità, le più nere corrispondenti
ai punti che han ricevuto la più forte impression luminosa.
Questo reagente,
o indicatore degli efflussi luminosi, si compone di due corpi
semplici, l'argento ed il doro, uno de' principii che costituiscono
il sal comune. Gli alchimisti lo scopersero verso la metà
del secolo XVI e lo dimandarono luna, o argento corneo: ora esso
è noto sotto la denominazione più razionale di
cloruro d'argento.
Le immagini degli
oggetti prodotte dalle lenti risultano dal complesso d'om-
bre e di tinte più o meno fosche, o vivaci. Dunque il
cloruro d'argento diffuso
sopra una data superficie introdotta nel fuoco di una camera
oscura, dovrà ricevere nelle varie sue parti delle azioni
diverse, da cui risulterà un disegno ombreggiato del corpo,
la cui immagine si dipinge nel fondo dell'apparecchio. Questa
conseguenza, cotanto semplice e diretta, non pare essersi offerta
all'ingegno perspicacissimo del Porta, che doveva al certo conoscere
le proprietà ottiche del cloruro d'argento scoperto un
secolo prima; essa passò del pari negletta o non avvertita
per centocinquant'anni dopo di lui, e venne finalmente in campo
sul principio del nostro secolo per opera di Wedgwood: ma gli
esperimenti diretti a tale oggetto da questo chimico tanto benemerito
delle arti ceramiche, riuscirono poco meno che infruttuosi; lo
stesso avvenne de' saggi fatti alcuni anni dopo dal celebre Humphry
Davy: per guisa che a malgrado dei tentativi di questi due illustri
filosofi, tutto quanto poteva ottenersi intorno al modo di disegnar
colla luce, consisteva in abozzi informi e fugacissimi, come
or ora vedremo.
Sorse finalmente
colui che doveva trarre dalle fasce l'arte fotografica e porla
in istato di giugnere in pochi anni ad una robustissima virilità.Niepce
proprietario ed abitante di una terra situata nei dintorni di
Chàlons-
sur-Saóne, cominciò le sue ricerche sulla fotografia
nell'anno 1814, e le conti-
nuò col massimo ardore per tutto il rimanente de' suoi
giorni, che cessarono
verso la metà del 1833.L'applicazione del cloruro d'argento
all'arte fotografica presentava due grandissimi inconvenienti.
Siccome le parti percosse dalla luce s'anneriscono, e rimangono
più o meno bianche quelle che sono immerse in una maggiore
o minore oscurità, cosi i lumi e le ombre della copia
stanno in senso inverso dell'originale.
Per lo stesso motivo
quando si copre una carta impregnata di cloruro d'argento con
una stampa o disegno qualunque, e si espone il doppio foglio
alla luce diretta del sole in modo che i raggi percuotano prima
sul disegno, si vedono imbrunire le parti sottostanti ai chiari,
che ricevono per trasmissione la massima quantità di luce;
mentre le porzioni corrispondenti agli scuri, sottratte più
o meno all'irradiazione lucida in virtù dell'inchiostro
o della matita,si conservano tanto più candide, quant'è
maggiore la densità della materia sovrapposta, vale a
dire quant'è maggiore l'intensità dell'ombra.
Ora ognuno intende,
che codesta inversione del chiaroscuro deve in molti casi diminuire,
e talora distruggere al tutto la verità della copia, segnatamente
gli effetti di prospettiva. Inoltre le impressioni una volta
prodotte, non è permesso il contemplarle alla luce del
giorno, e fa d'uopo tenerle di continuo in un luogo perfettamente
bujo: altrimenti la menoma azione della luce diurna diretta o
diffusa,rende in breve ugualmente nere le varie parti del foglio,
e fa quindi sparire del tutto ogni traccia di figure.
I disegni ottenuti
col cloruro d'argento, già difformi per l'inversione del
chiaroscuro, sono dunque dilicati, fugacissimi, come dicevamo
dianzi, e appena si possono osservare di notte al lume di una
lucerna.Persuaso che questi due inconvenienti, e segnatamente
il primo, presentavano un ostacolo insormontabile, Niepce si
diede a cercare nuove sostanze, colle quali si potessero produrre
definitivamente sulla copia i chiari e gli scuri corri-
spondenti ai lumi ed alle ombre dell'originale: e dopo una lunga
serie d'inda-
gini egli pervenne finalmente allo scopo nella seguente maniera.
Presa una lastra
di rame con sottile doppiatura d'argento perfettamente tersa
e pulita, si distenda su di essa, e dal lato dell'argento, uno
strato leggiero di bitume di giudea ben puro e disseccato, sciolto
nell'olio di lavanda: si ponga la lamina cosi preparata sotto
il disegno, e dopo averla tenuta in tale stato alquanto esposta
alla luce solare, si liberi dalla carta disegnata, e s'introduca
nel petrolio, ove si lascerà tuffata per alcuni minuti:
si estragga in fine e si lavi una o due volte nell'acqua.
La copia del disegno
vedrassi allora distintamente impressa sulla lamina coi lumi
e le ombre perfettamente corrispondenti all'originale; ed impressa
in modo, da sfidar poscia l'azione ulteriore della luce senza
pericolo di esserne cancellata.
Ciò che
v'ha di più singolare in questo processo, si è
che non si scorge la
menoma ombra di disegno dopo la esposizione della lastra all'azione
de' raggi
lucidi: l'immagine esiste dunque in uno stato latente sul quadro,
sintantoché
l'influenza del petrolio non la renda palese. Secondo ogni probabilità
questo
liquido decompone e scioglie il bitume con una energia più
o men grande, se-
condo la sua esposizione ad una maggiore o minore intensità
luminosa: e per-
tanto l'immagine risulterebbe dal contrasto tra le porzioni corrose
e quelle che
rimangono intatte.
Qualunque sia la
natura delle azioni prodotte successivamente sullo strato
di bitume sovrapposto alla lamina, egli è certo che Niepce
sciolse primo i due
gran problemi d'illuminare i disegni fotografici nel senso dovuto,
e di renderli
poscia insensibili all'azion della luce. La sua preparazione
diede ottimi risulta-
menti essendo applicata alla copia delle stampe, degli acquarelli,
o di qualunque altre specie di disegno in carta, mediante l'irradiazione
diretta del sole; siccome apparisce evidentemente da una Memoria
ed alcuni documenti ch'egli presentava nel dicembre dell'anno
1829 alla Società Reale di Londra.
Ma quando si trattò
della camera oscura, egli non tardò ad accorgersi che
il suo reattivo non era sufficientemente sensibile alla debole
energia dei raggi che costituiscono le immagini ottenute colle
lenti. - Infatti dieci o dodici ore almeno sono necessario per
avere l'impressione di queste immagini sulle lastre preparate
del Niepce.
Ora ognun vede che, durante si lungo intervallo di tempo, le
ombre degli og-
getti si spostano notabilmente, per cui il chiaro sovrapponendosi
allo scuro in
ogni punto della lamina, deve risultarne un disegno confuso.
- È vero che si
potrebbe cessare l'operazione dopo pochi istanti, e ripeterla
più giorni di se-
guito nella medesima ora; ma la menoma nuvoletta, il più
leggier velo di neb-
bia, danno differenze sensibili nelle relazioni delle tinte il
cui complesso forma
l'aspetto dei corpi: e chi cercasse le sole giornate perfettamente
limpide e se-
rene dovrebbe talora dedicare parecchie settimane all'opera;
talché cambiata
di troppo in questo intervallo, la posizione del sole a quella
data ora del giorno, la riproduzione delle medesime circostanze
riuscirebbe impossibile.
Oltre a ciò
l'operazione restava spesso incompiuta, o mancava del tutto per
cagioni, di cui il Niepce non potè giammai rendersi ragione.
Finalmente lo strato bituminoso andava soggetto ad alterarsi
alcun poco per le variazioni di temperatura, e sollevandosi più
o meno in una infinità di piccole squammette, guastava
i disegni ottenuti, o li rendeva di difficile conservazione.
Niepce stava pensando
ai modi con cui si potevan togliere questi diversi in-
convenienti, quando gli fu riferito che Dagherre, già
noto in Francia e fuori per la sua maestria nell'arte di dipingere
le scene teatrali, e per l'invenzione del Diorama, s'era dato
egli pure da qualche tempo alle ricerche fotografiche. I due
valenti sperimentatori si furono ben tosto conosciuti, e stabilite
tra loro strette relazioni di amicizia, decisero di proseguire
insieme il lavoro col patto di dividere ugualmente, tanto la
fatica e la spesa, quanto il prodotto che poteva ricavarsi dalla
felice riuscita delle loro investigazioni.
L'epoca in cui
eglino presero di comune accordo questa risoluzione è
il 14 Dicembre 1829: Niepce moriva pochi anni dopo, e Dagherre,
religioso osservatore della propria parola, ammetteva siccome
socio de' suoi progetti fotografici, Isidoro Niepce figlio e
successore del defunto; ma questo secondo contratto si riferiva
soltanto agl'interessi,e d'allora in poi Dagherre camminò
solo nella gloriosa via delle scoperte. Ciò si rileva
ad evidenza dall'atto legale stipulato posteriormente tra i due
nuovi socii d'impresa, ove è detto: 1°. che Dagherre
aveva notabilmente perfezionato il processo di Niepce padre:
2°. ch'egli era riuscito a scoprire un nuovo metodo,per
mezzo del quale si ottenevano le immagini degli oggetti sessanta,
o ottanta volte più presto di prima. Le cose, di cui dobbiam
ora far parola, devono pertanto risguardare interamente i progressi
che l'arte fotografica subiva per opera del celebre pittor francese.
Noi non gitteremo
tempo ad esporre le numerose prove tentate per ben quasi
un decennio, l'animo fermo e costante dello sperimentatore, i
suoi ingegnosi
pensieri, le felici scoperte, ed i successivi miglioramenti;
ma passeremo, senz'altri preamboli, a sottoporvi il metodo perfezionato,
che l'inventore adopera presentemente. Il fondo del quadro che
deve ricevere l'immagine della camera oscura è sempre
l'argento saldamente congiunto al rame colla pressione del laminatojo.
S'incomincia dunque
dal prendere una di queste doppie lastre le cui varie parti,scevre
d'ineguaglianze o sinuosità, e perfettamente adeguate
in un sol piano,siano ben terse, e levigatissime: e siccome la
lucentezza dell'argento s'appanna sempre alcun poco per l'esposizione
all'aria, convien ravvivarla, al momento dell'operazione, con
alcuni fiocchetti di bambagia, i quali s'intridono in una poltiglia
d'olio d'olive e di finissima polvere di pomice, o di tripoli,
e s'adoperan poscia asciutti ed alquanto cospersi delle stesse
polveri: lo strofinio deve essere condotto prima circolarmente,
quindi in direzione rettilinea e trasversale.
Fornita questa
specie di brunitura, la lamina vien fortemente riscaldata dal
lato del rame colla fiamma di una lucerna alcoolica, e quindi
posta a contatto di una tavola di marmo che ne abbassa prontamente
la temperatura: allora s'imprende di nuovo a ripulirla col cotone
e l'acido nitrico diluito in sedici parti d'acqua.
Questo secondo stropicciamento è diretto a togliere quelle
poche particelle di
rame, di ferro, o di materia vegetabile, che potrebbero rimanere
tuttora ade-
renti alla superficie dell'argento. La piastra sgombrata per
tal guisa da ogni so-
stanza eterogenea, e perfettamente forbita, riceve una cornice
di metallo, ed è
quindi introdotta, col lato dello argento volto in giù,
entro una cassettina di
legno, nel cui fondo sta riposto un po' d'iodio e, ad una certa
distanza, un finissimo velo che ne abbraccia tutta l'ampiezza
a guisa di diaframma.
Chiuse le finestre,
si abbandona l'esperienza a se medesima: l'iodio ridotto
in vapori dal calor naturale diffuso per l'ambiente attraversa
il velo, giugne a
contatto della lamina, e vi si ferma in gran parte per l'affinità
del metallo, che
lo assorbisce e lo converte in uno strato solido la cui profondità,
quantunque
affatto insensibile all'occhio va facendosi gradatamente maggiore:
l'operazione deve sospendersi dopo quindici, o venti minuti,
o più esattamente, quando l'argento sviluppa una tinta
giallognola del tutto analoga al colore dell'oro, nel qualcaso,
giusta i calcoli del Dumas, la grossezza della materia sovrapposta
all'ar-gento arriva appena ad un milionesimo di millimetro.
Estratta la lamina,
si fa passare in un secondo recipiente inaccessibile alla menoma
quantità di luce; e quindi nell'interno della camera oscura,
sostituendola al vetro smerigliato, il quale si è prima
situato esattamente nella posizione focale, mediante un apposito
meccanismo, che lo avvicina più o meno alla lente, sintantoché
si vegga perfettamente distinta l'immagine dell'oggetto.
Qui il periodo
dell'operazione non può determinarsi esattamente, perché
dipendente dalla latitudine, dall'altezza del sole, e dalla trasparenza
dell'aria. A Parigi convien lasciare la lastra esposta all'influenza
dell'immagine luminosa quindici, o venti minuti d'inverno,e cinque,
o sei d'estate: nelle terre più meridionali, e sotto un
cielo più chiaro e limpido, questi intervalli di tempo
devono essere probabilmente minori.
Per ogni paese,
alcune sperienze preliminari divengono dunque indispensabili;
esse non presentano tuttavia veruna difficoltà, e potranno
effettuarsi felicemente persino dalle persone le più ignare
dell'arte sperimentale. La lastra si estrae dalla camera oscura
rinchiusa nello stesso recipiente, impermeabile alla luce, che
aveva servito ad introdurvela, e si ripone sotto una inclinazione
di 4° entro un terzo recipiente, il cui fondo è munito
di una cavità che contiene un termometro ad asta sporgente
ed un chilogrammo circa di mercurio. Sin qui non si scorge la
menoma traccia di disegno; la superficie della piastra trovasi
ancora coperta in ogni punto da uno strato uniforme del medesimo
colore.
Ma si scaldi il
mercurio sino a sessanta gradi colla fiamma di una lucerna ad
alcool, o in qualunque altra maniera: il vapore metallico sviluppato
in virtù del calore s'innalza, tocca la lamina, ed ecco
apparire in mezzo al campo giallo alcune tinte biancastre le
quali formano progressivamente, e come per incanto, la copia
esatta dell'immagine dianzi osservata nella camera oscura.
In alcuni minuti questa portentosa influenza del vapor mercuriale
arriva al suo massimo effetto: si toglie la lastra dal recipiente,
e si tuffa prima in una dissoluzione calda di sal marino, o fredda
d'iposolfito di soda, poscia nell'acqua stillata alla temperatura
di cinquanta, o sessanta gradi. - Ogni traccia di giallo sparisce,
e rimane un graziosissimo e delicato disegno a chiaroscuro atto
a sopportare l'azione della più viva luce senza subire
la menoma alterazione.
Dinnanzi ad una
serie d'operazioni si originali e collegate con nessi del tutto
estranei a qualunque induzione metodica, la scienza rimase per
qualche tempo attonita e silenziosa. Ma le ricerche sperimentali
del Dottor Donne somministrarono infine gli elementi necessari
ad una chiara intelligenza delle azioni che il vapor d'iodio,
la luce, il vapor mercuriale, l'iposolfito di soda, e l'acqua
esercitano successivamente sulla lamina metallica. In primo luogo
è facile il chiarirsi, che lo strato superficiale di materia
giallaformato per l'esposizione della lamina all'iodio ridotto
in vapori, risulta da una combinazione di questa sostanza coll'argento,
e non già da una semplice deposizione e solidificazione
del vapore sulla superficie solida. Difatti si ponga entro una
storta di creta o di porcellana a lunghissimo collo una certa
quantità di iodio, se ne turi poscia ermeticamente l'estremità,
e riscaldato leggiermente il fondo, si lasci freddare.
Rotta la storta
verso la sommità si troveranno tutte le parti superiori
del collo gremite di minute e brillanti cristallizzazioni d'iodio:
pongansi i frantumi in vicinanza del fuoco, e pochi istanti basteranno
per far dileguare ogni benché minima particella di questo
corpo. L'iodio è dunque una sostanza sommamente volatile
e di facilissima cristallizzazione, vale a dire, una
sostanza che appena riscaldata si scioglie in vapori, i quali
si depongono poscia con forme regolari, e cristalline sui corpi
circostanti al menomo abbassamento di temperatura.
Ora esaminando
col microscopio la superficie dello strato giallognolo che copre
le lamine preparate del Dagherre, non vi si scopre il menomo
indizio di cristalli. Di più lo strato tenuto al bujo
si mantiene intatto su queste lamine malgrado la loro esposizione
ad un'alta temperatura: la sostanza che lo compone non è
dunque l'iodio solidificato e meccanicamente deposto sul metallo,
ma sì bene il prodotto della sua chimica unione coll'argento.
È noto infatti che l'ioduro ed il cloruro d'argento han
pochissima tendenza alla cristallizzazione ed alla volatilizzazione.
Trovata la natura
dello strato che copre la lamina, vediamo in qual maniera
la luce deve modificarlo nelle sperienze del Dagherrotipo. L'iodio
è un corpo
semplice, o indecomposto, che nelle sue chimiche proprietà
ha la massima analogia col doro. Ora l'analisi ha dimostrato,
che il cloruro d'argento si decompone sotto l'azione della luce,
perdendo una porzione di doro; per cui il residuo trovasi costituito
di un miscuglio di cloruro, e d'argento in finissima polvere.
Una scomposizione totalmente analoga dovrebbe dunque effettuarsi
nello strato d'ioduro sotto la influenza de' raggi lucidi che
formano l'immagine della camera oscura: quindi, lo strato giallognolo
perderebbe più o meno della sua
naturale consistenza ove la luce percuote con isvariata intensità.
E ciò viene
pienamente convalidato dall'esperienza, poiché avvolgendo
intorno alla metà di una lamina dagherriana parecchie
doppiature di un pannolino, esponendola poscia per alcuni minuti
al sole, e sciogliendo infine la sua fasciatura al bujo, tutta
la porzione libera dello strato giallognolo è mobile,
e togliesi facilmente collo stropicciamento delle mani; mentre
la parte, che l'opacità dell'involto difendeva dall'azione
dei raggi lucidi, non cede punto, e persiste.
Presentemente,
come si comporterà lo strato, già sottoposto all'azione
della
camera oscura, quando trovasi a contatto col vapor mercuriale?
Ognun sa che l'argento è avidissimo del mercurio: l'attrazione,
o affinità chimica, delle due sostanze si manifesterà
quindi a traverso l'esilissimo strato d'ioduro; e questo opporrà
una resistenza più o meno efficace alla riunione dei due
metalli, secondo che la sua coesione avrà subito un crollo
più o men forte,
per l'azion decomponente dei raggi lucidi; dunque il mercurio
traverserà in
maggior copia lo strato d'ioduro nei punti su cui percotevano
dianzi le tinte
più chiare dell'immagine, e s'unirà tosto coll'argento
sottostante; una porzione
minore perverrà sulla lamina ne' luoghi corrispondenti
alle mezze tinte; e là,
ove stendevansi le ombre decise, l'aderenza, e la coesione dello
strato rima-
nendo intatte, il vapore metallico non potrà aprirsi la
via, e la superficie del-
l'argento non riceverà un sol atomo di mercurio.
Rimangono da spiegarsi
gli effetti delle immersioni nella soluzione d'iposol-
fito di soda, e nell'acqua stillata, che non presentano in vero
niuna difficoltà a
concepirsi, essendo perfettamente nota la gran solubilità
de' solfiti ed iposolfiti nell'acqua, e le doppie decomposizioni
de' ioduri mediante le soluzioni de' solfiti. Laonde per dar
ragione in poche parole del modo con cui le due immersioni agiscono
sulla lamina dagherriana, si dirà che il primo liquido
scioglie, eleva del tutto lo strato più o meno smosso
di ioduro, ed il secondo toglie ogni particella di solfito che
potrebbe, per avventura, rimaner aderente alla lamina.
Queste dilucidazioni
vengono mirabilmente confermate dalle osservazioni
dirette; poiché i quadri del Dagherre sottoposti ad un
microscopio di grande
energia si mostran tutti bianchi: ed interamente coperti di goccioline
di mer- curio nelle parti che rappresentano i lumi; i globetti
si fan più radi nelle mezze
tinte; e le ombre son lisce, e prive affatto di codeste escrescenze
microscopiche. I disegni ottenuti col Dagherrotipo risulterebbero
pertanto dal complesso di alcune porzioni più o meno imbiancate
e granite dal mercurio, sul fondo piano, pulito, e lustro dell'argento.
Per intendere appieno
l'effetto del chiaroscuro in questi disegni basterà por
mente al lavoro degli orefici sui vasi ed utensili d'argento
i quali «mentre sono
solamente bolliti nel bianchimento appariscon tutti candidi come
la neve, ma
se in alcune parti si bruniscono, in quelle subito diventano
oscuri. Il divenire
oscuro non procede da altro che dall'essersi spianata una finissima
grana», totalmente analoga alle nostre goccioline di mercurio.
Ma quantunque le bruniture si mostrino scure e fosche, deve però
esservi un cotal punto di vista ove esse appariranno necessariamente
assai più splendide del resto. E veramente,l'oscurità
delle superficie terse e levigate procede dalla loro facoltà
di riflettere in una sola direzione, e fuori della via ordinaria,
quella stessa quantità di luce,che, nel caso delle superficie
scabre e chiare, viene sparpagliata in ogni senso,e che arriva
pertanto, in qualunque posizione, all'occhio dell'osservatore:
quindi ponendosi nella direzione de' raggi, ripercossi tutti
in un fascio, dalle prime superficie, l'occhio dovrà ricevere
una porzione di luce maggiore di quella che mandano le seconde.
Ora questa inversione, facilissima a verificarsi sulle cose d'argenteria
che presentano tratti lucidi in campo bianchito, succede anche
nei disegni del Dagherre guardati sotto una certa obbliquità,
ove i lumi sembrano foschi, e le ombre risplendono di una viva
luce.
Si è notato
che certe minute particolarità di questi disegni fotografici,
visi-
bilissime per gli uomini, appajono spesso poco distinte alle
Signore: ciò deriva
evidentemente dal vestiario femminile, il quale essendo per lo
più composto di stoffe chiare, si riverbera sugli specchietti
che formano le ombre, e rende meno spiccante l'effetto de' lumi;
e però la miglior maniera di contemplare le produzioni
del Dagherrotipo consisterebbe a disporle in guisa, che le sue
parti lucide ripercotessero all'occhio dell'osservatore l'immagine
di una superficie fosca, o nera: e l'esperienza ha pienamente
confermata la verità di questa deduzione, fondata sulla
costituzione speculare delle ombre dagherriane.
Conchiudiamo che
le osservazioni microscopiche, l'analogia esistente tra i
composti del doro e dell'iodio, l'azion decomponente della luce
sul cloruro d'argento, le attrazioni molecolari, e le leggi della
riflessione, concordan tutte a convalidare la teorica del Donne,
la quale, se non è peranche rigorosamente provata dall'analisi,
offre però tutti i caratteri di un ottimo raziocinio d'induzione
e si mostra ben degna di essere onorevolmente iscritta negli
annali della scienza.
Ma si ripigli la
parte storica del nostro racconto.Quando i pittori, i miniatori,
gl'incisori, o qualunque altro maestro o intelligente delle arti
del disegno, osservano per la prima volta i quadretti ottenuti
col Dagherrotipo, essi rimangono come sbalorditi dalla perfezione
di queste pitture naturali, e ammettono tutti, senza eccezione,
essere quasi impossibile il figurarsi cosa più leggiadra,
e più squisitamente condotta e finita in ogni sua parte.
La precisione e la morbidezza de' contorni, la dolcezza dei lumi,
la traspa-
renza delle ombre, la soavità delle sfumature, gli effetti
di rilievo e di prospet-
tiva, tutte in somma le qualità desiderabili in un disegno
a chiaroscuro, vi si
trovano congiunte senza nuocersi a vicenda, come avverrebbe immancabilmente
nelle opere dell'arte, ove il finito dai particolari non s'acquista
che a detrimento dell'effetto totale, la forza, a detrimento
della delicatezza, il tondeggiare de' contorni, a detrimento
della loro visibilità, e via dicendo.
Le dimensioni de'
corpi vi sono ridotte in miniatura con una esattezza per
così dire matematica; e però le proporzioni relative
delle varie parti che com-
pongono il quadro vengono rappresentate con una precisione uguale,
se non
superiore, a quella dei più accurati disegni eseguiti
col compasso o col panto-
grafo.
Per mostrar poi
sino a qual segno è spinta l'imitazione nei lavori fotografici
del Dagherre, basterà dire che gli oggetti non ben discernibili
ad occhio nudo,
a cagione della lontananza, rimangono tali anche nella copia,
per quanto ven-
gano guardati da vicino. Ma si diriga sullo sfondo una lente
microscopica, e le
cose appena indicate e confuse degli ultimi piani appariranno
tosto chiare, precise, finite nelle menome loro particolarità,
come succede per l'appunto in natura quando si mirano col canocchiale
gli oggetti posti sui limiti dell'orizzonte.
Tante perfezioni,
riunite alla somma facilità e prontezza del metodo, hanno
destato un entusiasmo universale. Dappertutto si ripetono le
sperienze del Dagherrotipo, ognuno vorrebbe avere tra le mani
questo prezioso strumento, ognuno bramerebbe impiegarlo, il più
presto possibile, a ritrarre non solo stampe,disegni, statue,
monumenti, ma i quadri ad olio de' nostri più celebri
artisti, i più bei mazzi di fiori, e le variopinte farfalle.
Invano si disse dall'Arago e dal Gay-Lussac che il Dagherrotipo
non poteva servire a copiare gli oggetti colorati; moltissimi
sperano tuttavia ottenere sulle lamine dagherriane, se non i
vivi e svariati colori che ci presentano la natura ed il genio
delle arti, almeno le loro traduzioni esatte in chiaroscuro.
Anzi abbiam udito non pochi pittori proporsi di studiare queste
copie con gran frutto rispetto alle intensità relative
delle tinte, ed ai punti ove devon figurarsi nelle loro composizioni
ad olio la massima e la minima illuminazione.
Ci duole l'animo
di non poter confermarli in codeste lusinghe; ma l'amore
della verità ed il nostro assunto ne fanno un dovere di
rischiarare, per quanto
dipende da noi, le menti illuse, e mettere in evidenza i gravi
errori ove potreb-
bero incorrere coloro, i quali nelle applicazioni fotografiche
fossero guidati da
false nozioni sulla potenza del metodo Dagherriano. No, gli oggetti
colorati non possono rappresentarsi esattamente a chiaroscuro
sulle lamine del Dagherrotipo; perché le copie riuscirebbero
spesso più fosche in quelle parti ove l'originale presenta
un colorito più chiaro, e viceversa; di maniera che le
ombre ed i lumi essendo spostati, gli effetti di rilievo verrebbero
più o meno alterati, e talora compiutamente distrutti.
Per rendere ognuno
ben capace della verità di questa proposizione, immagi-
niamo che un osservatore, rinchiuso in una stanza buja, riceva
sulla superficie di uno specchio un raggio solare trasmesso da
un piccol foro, e lo faccia quindirimbalzare orizzontalmente:
egli è manifesto che l'immagine del foro apparirà
bianca e rotonda sul muro opposto. Venga ora un secondo osservatore
il quale interponga sul tratto lucido orizzontale, segnato dai
corpuscoli vaganti per l'atmosfera, un prisma di vetro, in guisa
che il raggio sia costretto a traversare le due facce d'uno dei
suoi angoli: l'immagine del foro si porterà tosto in una
posizione più alta o più bassa, secondo che l'angolo
del prisma sarà volto all'insù o all'ingiù,
e nel tempo medesimo essa cambierà del tutto la propria
apparenza, facendosi oltremodo allungata nel senso verticale,
e pingendosi de' più vivi colori, tutti fusi e sfumati
per modo che si passa dall'uno all'altro con una gradazione insensibile:
laonde le tinte, o colorazioni, vi esistono in numero immenso;
ma Newton, al quale la scienza va debitrice di questo spettro,
risultante dalla varia rifrazione e separazione degli elementi
che compongono un raggio ordinario di luce, vi segnò,
per maggior comodo, sette zone trasversali di varia estensione,
le quali vennero indicate col colore predominante su ciascheduna
di loro. I nomi e l'ordine de' sette colori sono come segue:
violaceo, indaco,turchino, verde, giallo, aranciato, e rosso:
il rosso è inferiore quando l'apertura dell'angolo guarda
verso l'emisfero situato sull'orizzonte, e superiore nel caso
contrario. I fisici preferiscono la prima posizione perché
i raggi si trovano allora tanto più elevati quant'è
maggiore la loro refrangibilità, e si posson quindi denotare
filosoficamente chiamando colori superiori il violaceo l'indaco
e il turchino; centrali il verde e il giallo; inferiori l'aranciato
e il rosso. Tutt'i punti
dello spettro brillano di una luce purissima, se non che l'intensità
non è mani-
festamente uguale dappertutto; anzi si trovano per questa parte
delle differenze grandissime, poiché il giallo risplende
con molta energia, e assai più dell'aranciato e del verde;
e questa coppia di colori, più del turchino e del rosso:
le parti estreme dell'indaco, e tutta l'estensione del violaceo,
sono talmente languide, che si scorgono appena nella più
profonda oscurità; le altre tinte, e segnatamente il giallo,
l'aranciato, e il verde, sono vivacissime, e vedrebbonsi distintamente
quand'anche tutte le finestre dell'ambiente venissero aperte.
Ritenute ben presenti
alla memoria queste relazioni d'energia tra i colori
newtoniani, vediamo con qual efficacia ciaschedun d'essi opera
la scomposizione delle sostanze fotografiche.
Si pigli un foglio
di carta imbevuto di cloruro d'argento, ed applicatelo con-
tro il muro opposto al foro della stanza buja, precisamente ove
si dipinge lo
spettro newtoniano, facciasi in modo che le sette zone continuino
per qualche
tempo a percuotere sugli stessi punti del foglio; condizione
assai facile ad ottenersi fissando il prisma e la carta, e variando,
in ragione delle successive posizioni che il sole occupa sull'orizzonte,
l'indicazione dello specchio con due movimenti normali di vite,
o meglio ancora, adoperando una di quelle macchine, dette eliostati,
le quali imprimono al riflettore una rotazione contemporanea
e contraria alla rivoluzion diurna del globo terrestre, in guisa
che il raggio solare viene costantemente ripercosso nella medesima
direzione.
Disegnati sulla
carta i contorni dello spettro e delle sette sue divisioni, s'ab-
bandoni l'esperienza a se medesima, intercettando di tratto in
tratto i raggi per
osservare i cambiamenti che ognun d'essi produce sul cloruro
d'argento. A poco a poco si vedrà sparire il bianco nello
spazio che corre dal violaceo al giallo ed assumere la solita
tinta bruna; laddove il rimanente conserverà immacolato
il suo naturai candore. Dopo mezz'ora circa l'effetto progressivo
sarà compiuto, e quindi inutile ogni ulteriore esposizione.
Allora, rimosso il raggio solare, si esamini attentamente il
foglio al lume di una candela in tutta quella parte disegnata
a contorni e dianzi occupata dallo spettro: l'ultimo limite ove
batteva il violaceo sarà nerissimo; di colà il
color fosco s'andrà gradatamente sfumando negli spazj
corrispondenti al violaceo, all'indaco, al turchino, al verde,
sino all'origine dello spazio precedentemente illuminato dal
giallo ove la sfumatura diverrà al tutto insensibile.
Quanto alle zone ove percoteva il giallo l'aranciato e il rosso,
non vi si scorgerà nessun indizio visibile d'annerimento:
queste tré specie di raggi non esercitano dunque nessuna
influenza sensibile sul cloruro d'argento; gli altri hanno un'azione
più o meno energica, ma non già proporzionale alla
loro intensità luminosa, poiché il chiarore va
crescendo dal violaceo al giallo, mentre l'effetto chimico segue
una progressione contraria.
Fatti al tutto
analoghi si riproducono sull'ioduro di argento, che è
più forte-
mente smosso e decomposto sul violaceo, e sempre meno, di mano
in mano che si progredisce verso il rosso. Laonde una lamina
iodurata del Dagherre esposta per qualche tempo alla irradiazione
dello spettro solare, e quindi ai vapori di mercurio ed alle
solite immersioni nelle soluzioni d'iposolfito di soda e d'acqua
stillata, si mostra bianchissima nella parte più fosca,
cioè nel violaceo, e diventa gradatamente men candida
a misura che s'accosta al giallo, ove percoteva il massimo chiarore:
l'aranciato e il rosso, assai più illuminati dello indaco
e del turchino, presentano appena qualche traccia d'imbianchimento.
Poste queste nozioni,
ognuno potrà dedurne la conseguenza relativa al Da-
gherrotipo. Gli oggetti pinti a più colori danno nella
camera oscura un'imma-
gine perfettamente simile all'originale, e pertanto composta
di varie tinte. Ora,
quantunque le irradiazioni tramandate dai corpi non siano cosi
pure come quelle dello spettro solare, esse posseggono tutte
le proprietà dei raggi semplici contenuti nella loro composizione.
Quindi i lumi e le ombre, definitivamente impressi sulla lamina
preparata, saranno più o meno decisi, non già in
ragione della facoltà rischiarante di ogni punto dell'immagine,
ma secondo la varia proporzione de' raggi prismatici superiori
o inferiori, che vi stan riuniti. Dunque la copia riprodurrà
gli effetti di chiaroscuro dell'originale, in quei casi soltanto,
ov'essi derivano da una tinta o colorazione, presso a poco, omogenea
in ogni punto del quadro.
Stando alle cognizioni
sinora acquistate, par certamente improbabilissimo
che si giunga ad ottenere la stessa azion chimica dai colori
superiori ed inferiori dello spettro solare: tuttavia non intendiamo
negare con ciò la possibilità d'imitare un giorno
coi processi fotografici il chiaroscuro risultante da varie colorazioni
riunite in un sol quadro; e fors'anche, gli stessi colori. Anzi
dobbiamo far menzione di alcune ricerche d'Herscell, ed altri
sperimentatori, dalle quali parrebbe risultare che il violaceo,
il turchino, il verde han prodotto impressioni analoghe, su certe
carte preparate; ma codesti sono puri embrioni, e non possiamo
per alcun modo antivedere, se sarà dato alla scienza di
trovare l'alimento conveniente al loro ulteriore sviluppo. E
giacché l'occasione ci ha indotti a parlare di cose, le
quali non hanno immediata relazione sul processo e l'uso presente
del Dagherrotipo, gioverà citare i lavori del Signor Talbot,
che si occupa da qualche anno, in Inghilterra, di sperienze fotografiche.
I suoi disegni, che molti avranno osservati presso il chiarissimo
nostro collega Cav. Tenore, si producono immediatamente sulla
carta e somigliano assai a quella maniera di pitture d'una sol
tinta conosciute sotto il nome di acquarelli alla seppia. La
sostanza che riceve l'impronta è il cloruro d'argento,
al quale l'autore toglie, con alcuni liquidi, la sua proprietà
fotografica subito dopo d'averlo sottoposto all'influenza de'
raggi lucidi: altri chimici reagenti rendon chiare le parti imbrunite
e viceversa; sicché la copia presenta lo stesso chiaroscuro
dell'originale, e si conserva sotto l'azione della luce diurna.
Si è già veduto che le preparazioni di cloruro
non sono gran fatto sensibili alle irradiazioni dotate di una
debole energia: e però le carte del Talbot devono necessariamente
rimanere per un tempo assai lungo entro la camera oscura talché
succedendo in questo intervallo un trasporto notabile delle ombre
e dei lumi, le copie non possono acquistarequella nitidezza che
si ottiene col Dagherrotipo, ove l'esposizione della lamina all'immagine
non dura che pochi minuti: difatto i contorni di questi disegni,
prodotti per l'azione della camera oscura, sono alquanto incerti
e confusi. Le copie delle stampe fatte per sovrapposizione ed
esposizione ai raggi solari riescono assai meglio.
È poi quasi
superfluo il soggiugnere che anche il processo del fisico inglese
non vale pei quadri ad olio e per gli oggetti dipinti con vivi
e svariati colori. Ma sebbene, al presente, il campo delle applicazioni
fotografiche sia circoscritto entro certi limiti, la sua fertilità
è però tale, da fornire ottimi ed abbondanti raccolti
a chiunque imprenderà a coltivarlo con intelligenza, ed
amore.
Primieramente,
le statue, i bassirilievi, i palazzi, le chiese, ed ogni sorta
di
monumenti antichi e moderni, si possono ritrarre per opera del
Dagherrotipo
con tanta perfezione e prontezza da render impotente e vano al
confronto, il
concorso dell'arte. Arago osserva giustamente, che se l'invenzione
di questo
mirabile apparecchio avesse preceduto di quarantadue anni l'epoca
presente,
mentre Napoleone sbarcava in Egitto con numerosi corpi di scienziati
ed artisti, si possederebbero oggidì le immagini fedelissime
di molti emblemi ed oggetti di antichità che la cupidigia
degli Arabi, ed il vandalismo di certi viaggiatori tolsero per
sempre alla contemplazione dei dotti. «Parecchi lustri
ed intere legioni di disegnatori, dic'egli, sarebbero necessari
per copiare le miliaja e milioni di geroglifici che coprono i
gran monumenti di Tebe, di Karnak, di Menfi.
Col Dagherrotipo, un solo individuo potrebbe condurre a buon
termine questo immenso lavoro». Aggiungasi che le ruine
esistenti ne' due emisferi si trovano spesso in luoghi deserti,
malsani, circondati da nazioni inospiti che rendono pericolosa,
e talvolta impossibile, una lunga permanenza: ed in tali circostanze,
ognun vede di quanta importanza divenga un metodo, che permette
di copiare,entro cinque o sei minuti, un Monumento vastissimo,
pieno zeppo di colonne, d'iscrizioni, di ornati d'ogni genere
e d'ogni dimensione, alcuni accessibili, altri no, conservandoli
tutti nelle debite loro proporzioni come se fossero disegnati
con le più esatte misure! E dico cinque, o sei minuti,
perché sappiamo dallo stesso Dagherre che le sue lamine
iodurate e racchiuse entro recipienti impermeabili alla luce,
vi si mantengono parecchie ore, prima e dopo la loro esposizione
nella camera oscura, senza niuno scapito delle circostanze favorevoli
alla riuscita dell'operazione: cosicché il viaggiatore
potrà rimanere, là innanzi, quel solo brevissimo
intervallo di tempo necessario ai diversi punti dell'immagine
per esercitare contemporaneamente la magica loro influenza sulla
tavola preparata.
La prontezza e
la facilità di ritrar le cose colla massima precisione,
riuscirà
indubitatamente utilissima in parecchie operazioni di architettura,
di topografia, ed arte nautica, soprattutto quando verrà
divulgato il processo di trasportare i disegni su carta trovato
dal dottor Donne.
Il geologo, a cui
sono di tanta importanza il numero, l'ordine, l'inclinazione
degli strati de' monti, le forme, talora svariatissime, delle
conchiglie fossili che
vi sono contenute, la successione de' terreni, la configurazione
delle rocce, se ne servirà egli pure con gran vantaggio
nelle sue esplorazioni scientifiche.
Al naturalista
gioveranno immensamente i mezzi fotografici a rilevare le
figure e le proporzioni esatte delle varie parti onde si compongono
gli esseriorganizzati, non tanto dal lato artistico, quanto dal
lato anatomico e fisiologico; poiché colle arti del disegno
si possono imitare i caratteri esterni, la forma, il portamento,
l'espressione, e direi quasi la vitalità di una pianta
e di un animale, assai meglio che per mezzo del Dagherrotipo,
il quale vuole perfettamente immobile il modello: ma dove trovar
un pittore capace di copiare esattamente le seimila diramazioni
nervose scoperte da Lyonnet nel baco da seta?
È poi tanta
la sensibilità delle lamine Dagherriane che ritengono
con suffi-
ciente chiarezza le debolissime impressioni dipinte sulla loro
superficie dalle immagini degli oggetti ingranditi sotto l'azione
del microscopio composto; qualità, come ben si vede, preziosissima
per lo studio di quell'immenso numero di esseri che sfuggono
alla nostra contemplazione in virtù della loro prodigiosa
esiguità.
E qui cade in acconcio
l'osservare, che l'ingegnosa scoperta del Dagherre
tornerà utilissima alle scienze, non solamente col render
più facili e precisi i
disegni de' corpi appartenenti ai tré regni della natura,
ma col somministrare
ai fisici un nuovo mezzo di misurare le irradiazioni chimiche
della luce ed indagarne le ignote proprietà.
Paragonando insieme
le impressioni fotografiche ridotte alla medesima ener-
gia colla diversa lontananza, o coi metodi più esatti
che la fisica possiede oggidì, si giugnerà, secondo
ogni probabilità, a determinare lo splender relativo che
gli astri mandano sulla terra; almeno in quelle circostanze ove
l'identità degli elementi che compongono le irradiazioni
è manifesta, come pare si debba ammetterlo nel confronto
tra il sole e la luna, i cui rapporti d'illuminazione furono
sì diversamente valutati dagli astronomi. Gli Accademici
di Parigi tentarono di avere i dati necessari alla soluzione
del problema mediante il cloruro d'argento; ma questa sostanza
esposta per un lungo intervallo di tempo al lume della luna raccolto
da una lente d'ampie dimensioni, nell'epoca del plenilunio e
per un cielo purissimo, non soffri la menoma alterazion di colore;
laddove le lastre dagherriane s'imbiancano talmente per l'influenza
della luce lunare, che invece di ricorrere alla concentrazione
si crede poter giugnere, con alcune precauzioni, a copiare fotograficamente
il disco ingrandito della luna, rilevando per tal guisa
l'esattissima configurazione delle varie sue parti, operazione
che per essere condotta a termine coi soli mezzi astronomici,
richiederebbe tanto lavoro da stancare la pazienza de' più
intrepidi osservatori.
Ma per avere una
prova evidente della nuova carriera di progresso che il
Dagherrotipo apre alle scienze fisiche, basterà citare
alcune osservazioni dello
stesso Dagherre.Nella medesima giornata, e sotto un cielo perfettamente
sereno, il sole ad altezze eguali sull'orizzonte non possiede
la stessa potenza chimica: le prime immagini antimeridiane si
compiono in minor tempo delle ultime immagini pomeridiane, ed
il Dagherrotipo opera alquanto più speditamente alle sette
o alle otto del mattino, che alle cinque o alle quattro del dopo
pranzo. In alcuni casi, non ben definiti sinora, si ottengono
immagini più decise per un cielo leggiermente vaporoso,
che sotto l'influenza del più bei sereno.
Questi fatti sono
certamente maravigliosi; ma non tanto contraddittorj ed
inconcepibili come in su le prime sembreranno, probabilmente,
a molti dei nostri uditori.
Ritorniamo col
pensiero sull'esperienza, ove un osservatore faceva percuo-
tere sopra un foglio di carta clorurata l'immagine dello spettro
solare, e ve la
teneva immobile durante una mezz'ora circa. Terminata l'esperienza,
si trovava il foglio tutto candido nello spazio dianzi occupato
dal rosso dall'aranciato e dal giallo, e bruno nel rimanente
dello spettro: la tinta bruna, leggierissima nel verde, s'andava
sempre più rinforzando accostandosi all'ultimo limite
del violaceo, ove acquistava la sua massima energia.
Giova soggiungere
ora, che il cambiamento sofferto dal cloruro d'argento
non finisce già con questa estremità dello spettro:
ma continua nello spazio
oscuro, decrescendo per gradi eguali al suo accrescimento: per
modo, che l'intera estensione della porzione annerita è
per metà sovrapposta ai colori dello spettro, e per metà
sporgente dal limite superiore: d'onde la conseguenza, che oltre
i raggi lucidi dotati della potenza chimica, l'irradiazione solare
contiene una quantità notabile di raggi oscuri, invisibili,
capaci essi pure di eccitare le chimiche reazioni.
S'immagini che
queste irradiazioni chimiche oscure traversino poi copiosamente
l'atmosfera in alcune circostanze diverse da quelle che
facilitano il passaggio degli efflussi luminosi, e si concepirà
come certe ore e
certe giornate siano più favorevoli alle operazioni del
Dagherrotipo quantunque l'atmosfera conservi la stessa trasparenza,
o mostri anche allora una minor permeabilità pei raggi
lucidi.
Noi inclineremmo
tanto più volentieri ad ammettere questa spiegazione,
che
una lunga serie d'osservazioni ci ha svelato dei fenomeni dello
stesso genere
nella parte opposta dello spettro, relativamente alle irradiazioni
calorifiche.
È ormai
noto a tutti che il sal gemma è il solo corpo che trasmetta
ugual-
mente ed immediatamente ogni specie di calor raggiante, e quindi
il solo che
debba impiegarsi nell'analisi del calor solare. Immaginiamo pertanto
uno spet-
tro prodotto con un prisma di questa sostanza, e supponiamo che
si vada esplorando col termometro la distribuzione del calore
nelle varie sue parti.
Introducendo il
bulbo dello strumento nello spazio che precede il violaceo, vale
a dire, nello spazio occupato dai raggi oscuri capaci d'azion
chimica, non si osserverà nessun movimento nella estremità
della colonna fluida, una debole elevazione si manifesterà
tosto che il bulbo entra nella zona violacea: l'effetto calorifico
diverrà gradatamente maggiore di mano in mano che si procede
verso il rosso, e seguiterà ancora ad aumentare passata
l'ultima estremità colorata dello spettro, sino ad una
distanza uguale, ed opposta, a quella del verde; per decrescer
poscia di bei nuovo ed estinguersi alquanto più lontano.
Laonde, lo spazio riscaldato non è tutto contenuto nello
spazio occupato dai colori, ed una certa sua porzione, equivalente
alla metà circa dello spettro, sporge dal limite inferiore.
E però lo spettro newtoniano presenta oltre il limite
rosso un efflusso calorifico oscuro totalmente analogo all'emusso
chimico scevro di luce che si manifesta al di là del limite
violaceo. È facile il prevedere che questa irradiazione
calorifica oscura non esercita nessuna azione sulle sostanze
fotografiche:infatti il cloruro si conserva intatto, non solamente
nei colori inferiori, ma in tutto lo spazio seguente.
Ora, ripetendo
l'analisi del calor solare in diversi giorni, sotto un cielo
per-
fettamente limpido e sereno, quando i colori prismatici conservano
le stesse
precise relazioni d'intensità, si trova che il massimo
di temperatura non è sempre nella medesima posizione,
ma ora più, ora meno lontano dall'estremità visibile
dello spettro. I raggi calorifici privi di luce pervengon dunque
talora sulla superficie terrestre in copia più o men grande,
secondo lo stato di certe ignote vicende atmosferiche, le quali
non esercitano niuna influenza sulla trasmissionede' raggi lucidi.
Perché un
fenomeno consimile non potrebbe riprodursi relativamente alle
irradiazioni oscure dotate della potenza chimica?
Fine
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