MUSEO DELLA FOTOGRAFIA               
   MUSEO DELLA FOTOGRAFIA

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Testo tratto da: Elias Canetti, Il frutto del fuoco - Storia di una vita (1921-1931), Traduzione a cura di Andrea Casalegno e Renata Colorni, Adelphi Edizioni, Milano, 1982

 

 

La scuola dell'ascolto


Tornato a casa nella Haidgasse, dalla signora Weinreb, ricominciai a origliare mio malgrado - ma non potevo fare diversamente - la voce cattiva del "boia" nella cucina. Dopo la visita notturna della signora Weinreb il mio sonno si era fatto più leggero, ero sempre in attesa di episodi analoghi. Ma, soprattutto, non mi dava pace il rapporto malsano della signora Weinreb con i ritratti del marito, appesi dappertutto. I ritratti erano tanti e, tranne che per le dimensioni e le cornici, si distinguevano a malapena uno dall'altro; ma ciascuno di essi aveva un significato e tutti facevano il loro effetto. La signora Weinreb assolveva le sue devozioni davanti a quei ritratti seguendo un turno preciso; ma, poiché non ero in casa durante il giorno, non ero in grado di determinarlo. Avevo la sensazione che entrasse nella mia stanza tutti i giorni; come avrebbe potuto trascurare i ritratti che vi erano appesi?
Quella notte era venuta in uno stato che sembrava di trance; ma che cosa succedeva di giorno, quando il boia non dormiva, e seguiva, controllava ogni sua mossa? Forse la signora Weinreb era sempre in stato di trance, forse il suo stato era prodotto dalla vista delle fotografie che aveva sotto gli occhi in ogni momento, su ogni parete. Due occhi, e poi ancora due occhi, sempre gli stessi occhi, fissi su di lei. In tutte le fotografie il signor Weinreb era vecchio, a quanto pare non esistevano foto del marito da giovane; lei, certamente, non l'aveva mai conosciuto senza la barba che gli incorniciava il volto e se, al momento della sua morte, avesse trovato dei ritratti di lui in età giovanile, li avrebbe messi da parte come quelli di uno sconosciuto. Ma immaginare che egli avesse un aspetto severo sarebbe un errore; lo sguardo era mite, bonario, sempre lo stesso. Anche quando era fotografato in mezzo ai colleghi, il suo aspetto non era minaccioso, bensì conciliante, come quello di un paciere, di un mediatore, di un conciliatore. Tanto più incomprensibile mi appariva l'inquietudine della signora Weinreb. Che cos'era che la spingeva senza posa da un ritratto all'altro, qual era il comando che quell'uomo aveva lasciato dentro di lei, e non le dava pace, rinnovandosi come un'ipnosi "multipla", davanti agli occhi di ogni fotografia?
Una volta, incontrando la signora Weinreb in anticamera, mi misi a scambiare due parole con lei, e dovetti farmi forza per non domandarle come stesse il signor Weinreb. Ma lei non faceva che ripetere, tutte le volte, quanto era caro, buono e distinto, e che uomo istruito era stato il dottor Weinreb. Una volta dissi con rammarico:
" Peccato che non sia più in vita da tanto tempo " ; ma lei rispose subito, spaventata: " Non da tanto tempo ". " Ah no? E da quanto? " domandai, cercando di assumere un'espressione altrettanto affabile quanto quella del defunto; ma poiché mi mancava la barba, non ne fui capace. " Questo non posso dirlo, non lo so proprio " rispose lei, e sparì svelta nella sua stanza. Non appena mettevo piede in casa, diventavo inquieto come lei; ma non lo davo a vedere e cercavo di non guardare i ritratti, per i quali sentivo una certa ripugnanza. Le loro cornici erano sempre perfettamente spolverate, e la lastra di vetro lavata di fresco. Li guardavo come se fossero costituiti soltanto dalla cornice e dalla lastra di vetro. Ero, credo, in attesa di una catastrofe, mi aspettavo un esito tremendo, cioè la distruzione di quei ritratti.

La vista dello Steinhof


A Colmar rimasi un giorno intero davanti alla pala di Isenheim, non mi ero accorto del momento in cui ero arrivato e neanche mi accorsi di quello in cui me ne andai. Quando il museo chiuse, provai il desiderio di essere invisibile per poterci restare tutta la notte. Guardavo il corpo di Cristo senza lacrimevole smarrimento, lo stato orripilante di quel corpo mi sembrava vero, e davanti a quella verità compresi ciò che mi aveva turbato nelle altre crocifissioni: la bellezza, la trasfigurazione. La trasfigurazione si addice al concerto degli angeli, ma non alla croce. Ciò da cui nella realtà avremmo certo distolto lo sguardo con raccapriccio qui, in questo dipinto, era ancora possibile coglierlo nella sua pienezza: un ricordo dell'orrore che gli uomini si procurano l'un l'altro. La guerra e la morte chimica erano ancora abbastanza vicine, nella primavera del 1927, per conferire veridicità a quel dipinto. Troppo spesso, forse, il compito più insostituibile dell'arte è stato dimenticato : non è la catarsi, nè la consolazione, nè il talento di disporre ogni elemento in funzione di un lieto fine. Perché il lieto fine non ci sarà. Ma peste, e piaghe, e tormento, e orrore - e se la peste ha smesso di infierire, al suo posto inventiamo orrori più atroci. Che cosa possono le illusioni consolatorie, davanti a questa verità? Essa è sempre uguale a se stessa e deve rimanere dinanzi ai nostri occhi. Tutti gli orrori che incombono sull'umanità sono anticipati in questo dipinto. Il dito di Giovanni, mostruosamente, lo dice: così è adesso, e così sarà ancora. E qual è il significato dell'agnello in questo paesaggio? Era questo l'agnello, quest'uomo che imputridisce sulla croce? È cresciuto, è diventato uomo per essere inchiodato alla croce e farsi chiamare agnello?

 

L'accecamento di Sansone

Fra le accuse che in quell'anno mi venivano rivolte più spesso ce n'era una che mi dava del filo da torcere: io non sapevo come va il mondo, ero accecato, non volevo saperlo. Mi ero messo i paraocchi ed ero deciso a non togliermeli mai. Ero sempre alla ricerca delle cose che avevo conosciuto attraverso i libri. Vuoi che mi limitassi a un solo tipo di libri, vuoi che ne ricavassi le cose sbagliate -fatto sta che ogni tentativo di parlare con me di come va il mondo in concreto era condannato al fallimento.
" Per te o le cose si pongono sul piano dei grandi princìpi morali, oppure non ti interessano. La parola libertà, che ti piace così tanto, in bocca tua è una vera barzelletta. Non esiste al mondo una persona meno libera di te. Sei incapace di porti di fronte a un fatto con animo imparziale, senza tirar subito fuori tutti i tuoi pregiudizi, tant'è che alla fine il fatto non si vede più. E questo, alla tua età, non sarebbe poi così grave, se non ci fosse questa ostinata resistenza, questa tua caparbietà, il tuo fermo proposito di lasciare le cose come stanno, senza modificarle di una virgola. Tu di tutto ciò che è sviluppo, maturazione graduale, miglioramento, e soprattutto sforzo di essere utili agli altri, con tutti i tuoi paroloni, non hai davvero la più pallida idea. Il male di fondo è il tuo accecamento. Forse avrai anche imparato qualcosa da Michael Kohlhaas. Solo che tu non sei un caso interessante. Lui ha pur dovuto mettersi a fare qualcosa, a un certo punto. E tu, che cosa fai? ".
Sì, era vero, non volevo imparare come va il mondo. Avevo la sensazione che basti guardare e capire qualcosa di riprovevole per diventarne corresponsabile. Non volevo imparare, se imparare significa esser costretti a percorrere quella via. Era dall'apprendimento per imitazione che io mi difendevo. Mi difendevo coi paraocchi, in questo la mamma aveva ragione. Non appena mi accorgevo che qualcuno mi consigliava qualcosa soltanto perché nel mondo si usava così, io m'impuntavo, come se non capissi quel che la gente pretendeva da me. Ma per altre vie arrivavo lo stesso vicino alla realtà, molto più vicino di quanto supponesse la mamma, e forse, a quell'epoca, di quanto io stesso potessi immaginare.
Una via verso la realtà, infatti, passa attraverso le immagini.* Non credo che ne esista una migliore. Ci teniamo stretti a ciò che non muta e così riusciamo a far affiorare ciò che muta perennemente. Le immagini sono reti, quel che vi appare è la pesca che rimane. Qualcosa scivola via e qualcosa va a male, ma uno riprova, le reti le portiamo con noi, le gettiamo e, via via che pescano, diventano più forti. È importante, però, che queste immagini esistano anche al di fuori della persona, in lui sono anch'esse soggette al mutamento. Deve esserci un luogo dove uno possa ritrovarle intatte, e non uno solo di noi, ma chiunque si senta nell'incertezza. Quando ci sentiamo sopraffatti dal fuggire dell'esperienza, ci rivolgiamo a un'immagine. Allora l'esperienza si ferma, e la guardiamo in faccia. Allora ci acquietiamo nella conoscenza della realtà, che è nostra, anche se qui era stata prefigurata per noi. Apparentemente, essa potrebbe esistere anche senza di noi. Ma questa apparenza è ingannevole, l'immagine ha bisogno della nostra esperienza, per destarsi. Così si spiega che certe immagini rimangano assopite per generazioni : nessuno è stato capace di guardarle con l'esperienza che avrebbe potuto ridestarle.
Forte si sente colui che trova le immagini di cui la sua esperienza ha bisogno. Saranno molte, ma non possono essere troppe, perché la loro funzione consiste proprio nel tenere insieme la realtà, che altrimenti si disperderebbe in mille rivoli. E neanche dovrebbe essere un'unica immagine, che fa violenza a chi la possiede, non lo abbandona e gli impedisce di trasformarsi. Sono molte le immagini di cui abbiamo bisogno, se vogliamo una vita nostra, e se le troviamo presto, non troppo di noi andrà perduto.
Io ho avuto la fortuna di trovarmi a Vienna, quando più avevo bisogno di queste immagini. Contro la falsa realtà con cui mi sentivo minacciato, la realtà della piattezza, della rigidezza, dell'utile, dell'angustia, dovevo trovare l'altra realtà, che era vasta a sufficienza perché potessi dominare anche le sue durezze, senza soccombere.


Fine


Note biografiche

Elias Canetti nasce il 25 luglio 1905 a Ruscuk, in Bulgaria, da una famiglia sefardita che parla lo spagnolo del XV secolo. Dopo la morte del padre, insieme ai due fratelli, segue la madre in diverse città d'Europa: Zurigo, Francoforte, Vienna... Nel 1938, dopo l'Anschluss, emigra a Londra, rimanendovi fino al 1971, quando decide di tornare a vivere a Zurigo, il "paradiso perduto" della sua adolescenza, in cui morirà il 14 agosto 1994. Durante la giovinezza, le relazioni e i viaggi contribuiscono a formare il suo pensiero, ad affinare il suo spirito, ad aprirlo al mondo, come pure a fargli prendere coscienza del ruolo del sapere in quanto motore della libertà.Nel 1935 esce il suo primo e unico romanzo, Die Blendung, tradotto in italiano, per volere dello stesso Canetti, come Auto da fé (1935), incentrato sulla solitudine nella società contemporanea, in cui il protagonista, un intellettuale "tutto testa e niente corpo" perisce nel rogo dei suoi centomila volumi. Di notevole spessore è Massa e potere (1960), saggio sulla psicologia del controllo sociale. Di rilievo è anche l'autobiografia, divisa nei volumi La lingua salvata (1977), Il frutto del fuoco (1980) e Il gioco degli occhi (1985). Vince il premio Nobel per la letteratura nel 1981. Muore a Zurigo il 14 agosto del 1994. La passione per la lettura, il gusto per le tragedie greche e i grandi autori della letteratura europea ebbero un'influenza determinante sulla sua opera. Ma è soprattutto nei confronti della tradizione viennese che Canetti ha un debito: nel 1981, ricevendo il premio Nobel, egli indica come suo "territorio" l'Europa di quattro scrittori di lingua tedesca vissuti nell'Austria di un tempo: Karl Kraus, Franz Kafka, Robert Musil e Hermann Broch. Non esiste migliore illustrazione della "lingua salvata": il tedesco, che sua madre gli aveva insegnato per amore della Vienna imperiale, e che per loro rappresentava il centro della cultura europea. Nel 1945, Canetti cercherà di ridare vigore a una lingua "sfigurata".

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