MUSEO DELLA FOTOGRAFIA               
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LEO LONGANESI
II cadavere e il bello fotografico

 

Dal 1900 ad oggi, in cinquant'anni di illusioni, di scoperte scientifiche, di guerre e di sciagure, la nostra vita è stata seguita, ora per ora, da un nuovo Plutarco, imparziale e freddo: l'obiettivo fotografico, storico meccanico, senza preconcetti, senza visioni della storia, insensibile al bello e al giusto, pronto, soltanto, a cogliere l'aspetto delle cose attraverso la sua pupilla di vetro. Ma anche l'obiettivo fotografico ha una sua particolare maniera di giudicare, uno strano modo di vedere le cose oltre la loro apparente realtà: una maniera tanto imparziale e tanto astratta, da sembrar perfino grottesca: una maniera scientifica, sorta dall'ottica, che rasenta l'assurdo perché non ha riferimenti umani.

In cinquant'anni, anche l'obiettivo fotografico ha acuito il suo sguardo, ma la sua freddezza geometrica è rimasta la stessa. I documenti ch'egli lascia ora sono più crudi e severi, e nessuno di noi riesce ad ingannare il suo occhio gelido e acuto.

Le immagini delle cose che conserviamo nella nostra memoria certamente vi restano impresse come vecchie fotografie, e nessuno di noi può vedere la realtà di oggi con lo stesso occhio di un tempo; ma resta il fatto che la fotografia di ieri ha anch'essa una sua realtà, al di fuori dei nostri pensieri: essa non è la proiezione del nostro spirito, ma una realtà a se stante, con anima propria.


Forse io sto sbagliando da capo a fondo, forse non so distinguere fra la realtà e l'idea che noi abbiamo della realtà, ma è pur vero che il tempo che passa ha un suo modo di non essere più, non perché noi non si sappia farlo rivivere, ma perché esso stesso muta fisicamente.

La fotografia, che è un mezzo meccanico, lo testimonia; e alla fotografia siamo legati da strani vincoli pieni di affetto e di astio: noi mutiamo di giorno in giorno, e rivedere i nostri visi fermi, in un tempo fermo che ricordiamo vagamente, ci seduce e ci adira. La poesia del tempo perduto vive oggi nella nostra fantasia come un tutto legato a noi: mentre in una vecchia fotografia quel tempo è lì, fermo, astratto, più vero di ogni altro vero, irriproducibile, ormai morto. Ed è proprio il senso della morte che esce dalle vecchie fotografie quel che ci turba: perche la fotografia fissa qualcosa che è vivo per poi ucciderlo attraverso un processo otti- co: e noi restiamo trafìtti con lo spillo sul cartoncino, come tanti coleotteri. E aggiungerei che la fotografia, appena tramonta la sua breve vita di attualità, entra nel repertorio gesuitico, coi fiori e le maschere mortuarie di cera.

Giorno per giorno, durante cinquanta anni, la fotografia ha preso un posto indispensabile nella nostra vita quotidiana, e gran parte della nostra cultura, o meglio delle nostre cognizioni, è frutto della fotografia, la quale ha finito per dominarci: non è il piacere di essere ritratti quel che ci guida, ma il vedere il mondo, le cose del mondo, sorprese e fissate: le quali cose, poi, si dividono in due campi, in quello dell'erotico e in quello del macabro.

Le primitive intenzioni artistiche della fotografia hanno ora ceduto il posto al gusto del documentario, e di tutti i fatti da ritrarre quello che l'obiettivo ha scelto è il delitto. Il cadavere è il suo tema preferito; il morto ammazzato è la sua vera natura morta. Il bello fotografico ha trovato il suo regno nella morte violenta. Ed anche noi abbiamo finito per abituarci a vedere cadaveri, ad ammirarne le tragiche posizioni, a scoprirne con curiosità
morbosa le smorfie e i ghigni. E questo continuo osservar cadaveri ci ha reso non insensibili all'idea della morte, ma ci ha abituati a meno rispettare la vita altrui. E il passare, sfogliando una rivista, da un morto assassinato a una bella attrice in costume da bagno è divenuto qualcosa di consueto, direi d'indispensabile: se non accompagniamo alla bellezza di un corpo femminile la macabra visione di un uomo ucciso, non ci divertiamo più.

Perché la fotografia non educa, ma corrompe, incita al peccato, alla violenza, al delitto. Se osservate le fotografie pornografiche della fine del secolo scorso, nelle quali spiccano sui neri cupi degli abiti i bianchi delle carni, e sulle carni i capezzoli neri come soldoni, e i baffi e i capelli e gli stivaletti di scevro e le calze di cotone trapunto, in tutto quell'armonioso e discordante alternarsi di bianchi e di neri osceni, in quelle pose forzate, scoprirete non
soltanto la pornografia, ma qualcosa di macabro, di quello stesso macabro delle fotografie dei testi di medicina legale. La carne, insomma, morta o viva, in fotografìa, è sempre carne a peso, macellata. La fotografia è eccitante, perversa, oscena e richiama tristi immagini: non desta pensieri di redenzione: è soltanto un'immagine profana; la fotografia è talmente vera, da togliere ogni illusione. E quale più triste mondo di una realtà senza illusioni?

In cinquant'anni, molte illusioni sono cadute, molte ideologie sono mutate, e la fotografia ha saccheggiato la cronaca di questo ultimo decennio fino alla nausea: noi abbiamo vissuto nel sangue di molte guerre ed abbiamo bevuto il latte di molte promesse, in una continua altalena di delusioni e di speranze. Dal candore delle prime fotografie dei bagnanti del 1905, siamo giunti ai nudisti; dagli attentatori isolati siamo passati alle stragi delle camere a gas; il maca-
bro illustrato è l'ultima grande moda del cinquantennio. Cosa ci attende ora? Quale sarà il segreto fotografico dell'avvenire?Forse la fotografia a colori ci riserba un paradiso oleografico da operetta, romantico, coi colori degli avvisi «Coca-Cola». Ben venga. Il sangue ci ha annoiato.

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