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Quanti mai rimproveri i farisei hanno mosso a Cézanne, perché l'orizzontalità dei suoi piani non sempre è degna di un geometra! I quadri del solitario pittore di Aix per certo non sono canoni da proporre agli artigianelli, troppo spesso gli agrumi delle sue nature morte danno a dubitare che, su quelle tavole paurosamente inclinate, stanno fermi per virtù di materie adesive. In ogni modo, gli «errori» di Cézanne sono giustificati dalle lunghe e tenaci ricerche che a poco a poco hanno informato il suo stile, e ormai anche gli analfabeti sanno che le tanto vilipese deformazioni di Cézanne non sono nè volute nè richieste tanto meno da fini estetici, ma nascevano si può dire naturalmente. Ma che diremo quando la fotografia, regina riconosciuta della precisione e correttrice degli umani errori, spezza essa pure la legge della gravitazione, piega a diagonale la retta dell'orizzonte, gli uomini fa camminare su piani verticali come le mosche, conferisce - e non mica involontariamente come il povero Cézanne, ma per calcolo e riflessione - agli spettacoli del mondo l'inquietante disordine di una sbronza collettiva? Guai se uno è stato offeso e non ha fatto in tempo, vivo, a vendicarsi! Terribili sono le vendette dei morti, nè il perseguitato riescirebbe a salvarsi, dove non fossero mitigate da certo spirito burlone di cui i trapassati usano senza risparmio, contentandosi di spaventare i loro offensori o soffiando loro sulla faccia mentre stanno a letto, o portando via loro le coperte, o tirandoli per i piedi. Anche lo scontroso Cézanne, morto, non ha l'aria di voler troppo infierire contro i farisei che lo hanno accusato di non sapere disegnare, ma si contenta di cézannizzarli a loro volta e li punisce là dove hanno peccato. Perché nel frattempo il fariseo si è fatto fotografo, e la fotografia è diventata l'arte dei non artisti.
Microscopio per tutti, la fotografia è una macchina nonché livellatrice, ma rivelatrice che mette in luce d'acciaio e di cristallo le più riposte particolarità della fisionomia, quei segni gelosissimi che si nascondono nel movimento generale, nelle pieghe dei fatti comuni, che si confondono nella penombra delle abitudini e, ignorati, sembrava non esistessero neppure. La fotografia fissa gli atteggiamenti più segreti, scopre le verità più nascoste, ferma i moti più fuggitivi, registra inesorabilmente i vari, gl'infiniti attimi la cui somma compone il minuto, l'ora, la giornata, il mese, la stagione, l'anno, la vita intera dell'individuo-uomo. Dal passo del personaggio ufficiale, al riso dell'ippopotamo o alla goccia di rugiada sul petalo della rosa (non si dica che noi pure non siamo capaci di una nota gentile) la fotografia ha creato una maniera penetrante e crudelissima di considerare uomini e cose. Ha levato davanti a noi una tragica aurora, ha fissato nuove mete allo sguardo e, attraverso l'occhio svestito di pietà e di pudore, ha levato il sipario sugli spettacoli proibiti, ha spalancato le porte degli ospedali, ha sorpreso l'orrore dei manicomi, ha registrato la faccia dell'angoscia, della disperazione, di quella gioia cosi violenta che confina con lo strazio, e che più?, ci ha rivelato l'attimo della morte, quell'attimo che prima della fotografia nessuno era riuscito a vedere. Ma ogni scoperta si ripaga, e i misteri svelati dalla fotografìa il mondo li ha ripagati con la perdita dei proprii colori. Dalla condizione di Bebé Cadum, il mondo è passato a quello di scriba macero e rincitrignito. Al nascere della fotografia, la poesia a colori finisce forse per sempre. Lontano pettegolare di angeli, sussurri che passano a plotoni, corali dai polmoni vasti, io ripenso al cadmio dell'Iliade, all'oltremare dell'Odissea, ai colori composti ma brillantissimi essi pure dell'Eneide; alle terre striate di vermiglio e di ceruleo della Commedia, alle velature azzurrine del Furioso, alle aniline del Metastasio... che dico? di Lamartine, di Victor Hugo. D'un tratto seccate di colpo le
sorgenti di ogni sostanza colorante, si fonda la prima società
di pompe funebri e il mondo si mette a lutto. A farsi ritrarre
il mondo certo non rinunzia, ma il Non contento di scrivere in bianco e nero, Flaubert si «fa» persino una testa da fotografo: da fotografo di provincia: Moeurs provinciales. Ho qui davanti a me quel suo piccolo ritratto, che nell'edizione Crès precede la Tentazione di Sant'Antonio. I baffi di Vercingetorige, gli occhi bovini, la fronte spopolata, la bassa corona dei capelli che spiovono sul collo taurino, tutta quanta questa testa «confezionata» mi tira su dal fondo della memoria le teste dei fotografi, davanti ai quali la vanità dei miei genitori mi ha fatto posare da bambino.
A parte il caso Flaubert, tutta
quanta l'arte verista, e compresa la musica (vedi recente melodramma
italiano), non si spiegherebbe senza l'invenzione della fotografia.
Ma questa regina della plebe che tanti bei progressi ha fatto
fare al cinismo, la fotografia, un giorno si stimò umiliata
dal suo ufficio di servile riproduttrice della realtà,
e lei pure aspirò al palpito di un cuore che ama, alle
passioni, ai voli della fantasia, alla sublime irrealtà
delle arti. Co- Giorni addietro, in una mostra
importantissima in cui fotografìa e fotomontatura sono
portate alla loro più alta espressione, fummo in parecchi
a constatare che, come mezzo di «eloquenza visiva»,
la fotografia non rende. Equità mi costringe a riconoscere
che anche come semplice e fedele riproduttrice della realtà,
la pittura, cioè a dire l'occhio e la mano dell'uomo,
dispongono di una facoltà di penetrazione di cui la fotografia
è del tutto sprovvista. Non è da stupire se la
fotografia non riproduce la realtà «umana»,
ma una realtà meccanica che non è se non l'immagine
diminuita, falsata, lo spettro della vera realtà. Manca
alla fotografìa il «mistero dello sguardo».
Quello scambio di sguardo da pupilla a pupilla, quel guardare
altero e mosso che coglie di sorpresa la realtà delle
cose, nella fotografia non avviene, non può avvenire,
perché la fotografia ha un occhio solo, e questo pure
privo di |
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