MUSEO DELLA FOTOGRAFIA               
   MUSEO DELLA FOTOGRAFIA

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

ALBERTO SAVINIO

Fasti e nefasti della fotografìa

Quanti mai rimproveri i farisei hanno mosso a Cézanne, perché l'orizzontalità dei suoi piani non sempre è degna di un geometra! I quadri del solitario pittore di Aix per certo non sono canoni da proporre agli artigianelli, troppo spesso gli agrumi delle sue nature morte danno a dubitare che, su quelle tavole paurosamente inclinate, stanno fermi per virtù di materie adesive. In ogni modo, gli «errori» di Cézanne sono giustificati dalle lunghe e tenaci ricerche che a poco a poco hanno informato il suo stile, e ormai anche gli analfabeti sanno che le tanto vilipese deformazioni di Cézanne non sono nè volute nè richieste tanto meno da fini estetici, ma nascevano si può dire naturalmente. Ma che diremo quando la fotografia, regina riconosciuta della precisione e correttrice degli umani errori, spezza essa pure la legge della gravitazione, piega a diagonale la retta dell'orizzonte, gli uomini fa camminare su piani verticali come le mosche, conferisce - e non mica involontariamente come il povero Cézanne, ma per calcolo e riflessione - agli spettacoli del mondo l'inquietante disordine di una sbronza collettiva?

Guai se uno è stato offeso e non ha fatto in tempo, vivo, a vendicarsi! Terribili sono le vendette dei morti, nè il perseguitato riescirebbe a salvarsi, dove non fossero mitigate da certo spirito burlone di cui i trapassati usano senza risparmio, contentandosi di spaventare i loro offensori o soffiando loro sulla faccia mentre stanno a letto, o portando via loro le coperte, o tirandoli per i piedi. Anche lo scontroso Cézanne, morto, non ha l'aria di voler troppo infierire contro i farisei che lo hanno accusato di non sapere disegnare, ma si contenta di cézannizzarli a loro volta e li punisce là dove hanno peccato. Perché nel frattempo il fariseo si è fatto fotografo, e la fotografia è diventata l'arte dei non artisti.


Troppo si è detto che un quadro brutto «è come una fotografia», perché in campo avversario non si tentasse di riabilitare la fotografia e innalzarla alla dignità dell'espressione, del lirismo, dell'arte. Si dia di piglio dell'ottimismo; e prima di denunciare i nefasti della fotografia, ne siano magnificati i fasti. Quando la fotografia fu inventata, sembrò che il mondo da un alto sonno si levasse. L'invenzione della fotografia segna un punto di trasformazione nella storia dell'umanità, supera per certi riguardi la conquista di Costantinopoli, la scoperta dell'America, altre «chiavi di volta» della storia. Se fatti di eguale momento si vogliono contrapporre a questa invenzione fatale, bisogna compulsare addirittura la storia del pensiero, cercare nell'archivio degli avvenimenti che hanno mutata non la faccia ma la psiche del mondo, citare il passaggio dalla Scolastica ai principii di filosofia nuova per opera di Bacone da Verulamio, risalire meglio ancora a Socrate e alla «scoperta della coscienza». Perché la fotografia ha cambiato il colore del mondo; per meglio dire ha tolto il colore al mondo, lo ha decolorato e ha inaugurato una cruda, stupefatta, tragica «notte bianca».

Microscopio per tutti, la fotografia è una macchina nonché livellatrice, ma rivelatrice che mette in luce d'acciaio e di cristallo le più riposte particolarità della fisionomia, quei segni gelosissimi che si nascondono nel movimento generale, nelle pieghe dei fatti comuni, che si confondono nella penombra delle abitudini e, ignorati, sembrava non esistessero neppure. La fotografia fissa gli atteggiamenti più segreti, scopre le verità più nascoste, ferma i moti più fuggitivi, registra inesorabilmente i vari, gl'infiniti attimi la cui somma compone il minuto, l'ora, la giornata, il mese, la stagione, l'anno, la vita intera dell'individuo-uomo. Dal passo del personaggio ufficiale, al riso dell'ippopotamo o alla goccia di rugiada sul petalo della rosa (non si dica che noi pure non siamo capaci di una nota gentile) la fotografia ha creato una maniera penetrante e crudelissima di considerare uomini e cose. Ha levato davanti a noi una tragica aurora, ha fissato nuove mete allo sguardo e, attraverso l'occhio svestito di pietà e di pudore, ha levato il sipario sugli spettacoli proibiti, ha spalancato le porte degli ospedali, ha sorpreso l'orrore dei manicomi, ha registrato la faccia dell'angoscia, della disperazione, di quella gioia cosi violenta che confina con lo strazio, e che più?, ci ha rivelato l'attimo della morte, quell'attimo che prima della fotografia nessuno era riuscito a vedere.

Ma ogni scoperta si ripaga, e i misteri svelati dalla fotografìa il mondo li ha ripagati con la perdita dei proprii colori. Dalla condizione di Bebé Cadum, il mondo è passato a quello di scriba macero e rincitrignito. Al nascere della fotografia, la poesia a colori finisce forse per sempre. Lontano pettegolare di angeli, sussurri che passano a plotoni, corali dai polmoni vasti, io ripenso al cadmio dell'Iliade, all'oltremare dell'Odissea, ai colori composti ma brillantissimi essi pure dell'Eneide; alle terre striate di vermiglio e di ceruleo della Commedia, alle velature azzurrine del Furioso, alle aniline del Metastasio... che dico? di Lamartine, di Victor Hugo.

D'un tratto seccate di colpo le sorgenti di ogni sostanza colorante, si fonda la prima società di pompe funebri e il mondo si mette a lutto. A farsi ritrarre il mondo certo non rinunzia, ma il
suo ritratto lo vuole ormai inciso con gli acidi in bianco e nero, ne più dipinto ma scritto. La poesia stessa si spoglia in bianco e nero e quanto alla prosa, la prosa nasce a un'ora con la fotografia, e sfido chiunque a provarmi che prima della fotografia, la prosa, la nera e magra prosa, aveva mai fatto parlare di sé.

Non contento di scrivere in bianco e nero, Flaubert si «fa» persino una testa da fotografo: da fotografo di provincia: Moeurs provinciales. Ho qui davanti a me quel suo piccolo ritratto, che nell'edizione Crès precede la Tentazione di Sant'Antonio. I baffi di Vercingetorige, gli occhi bovini, la fronte spopolata, la bassa corona dei capelli che spiovono sul collo taurino, tutta quanta questa testa «confezionata» mi tira su dal fondo della memoria le teste dei fotografi, davanti ai quali la vanità dei miei genitori mi ha fatto posare da bambino.

 

A parte il caso Flaubert, tutta quanta l'arte verista, e compresa la musica (vedi recente melodramma italiano), non si spiegherebbe senza l'invenzione della fotografia. Ma questa regina della plebe che tanti bei progressi ha fatto fare al cinismo, la fotografia, un giorno si stimò umiliata dal suo ufficio di servile riproduttrice della realtà, e lei pure aspirò al palpito di un cuore che ama, alle passioni, ai voli della fantasia, alla sublime irrealtà delle arti. Co-
minciò il diabolico settentrione a dare un'anima alla fotografia, un cervello, un cuore, e nacque la fotografia «pensosa». Si scrissero libri interi di sole fotografie, i «soggetti» si ridussero a uno schematismo edificante, tra i quali dominò la strada solitaria e i suoi selci visti dall'alto. L'ombra portata conobbe i maggiori successi. Quindi, e con l'immancabile contributo della retorica, si arrivò ai piani deformati, agli uomini trasformati in piramidi, ai piedi enormi e le teste minuscole, agli scorci mostruosi, al cézannismo fotografico. E fu questa la vendetta burlona di Cézanne, il morto.

Giorni addietro, in una mostra importantissima in cui fotografìa e fotomontatura sono portate alla loro più alta espressione, fummo in parecchi a constatare che, come mezzo di «eloquenza visiva», la fotografia non rende. Equità mi costringe a riconoscere che anche come semplice e fedele riproduttrice della realtà, la pittura, cioè a dire l'occhio e la mano dell'uomo, dispongono di una facoltà di penetrazione di cui la fotografia è del tutto sprovvista. Non è da stupire se la fotografia non riproduce la realtà «umana», ma una realtà meccanica che non è se non l'immagine diminuita, falsata, lo spettro della vera realtà. Manca alla fotografìa il «mistero dello sguardo». Quello scambio di sguardo da pupilla a pupilla, quel guardare altero e mosso che coglie di sorpresa la realtà delle cose, nella fotografia non avviene, non può avvenire, perché la fotografia ha un occhio solo, e questo pure privo di
movimento. E mentre la fotografia guarda e crede di vedere, capita a lei come all'ubriaco, che crede di portarsi la bottiglia alla bocca, e invece se la poggia alla tempia.

 HOME
 AUTORI
 BIBLIOGRAFIA
 LIBRI
 LINKS
 MOSTRE
 STORIA
 E-MAIL
 GUESTBOOK
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
               
                 
 

  HOME / AUTORI / BIBLIOGRAFIA / LIBRI / LINKS / MOSTRE / STORIA

    © 2001 Museodellafotografia® è un marchio registrato;
il logo MUFO è un marchio registrato del Museodellafotografia - Design: Dracmes