PRIMI PER LA VITA
Dedicato aMichele D’Agnessa
Comandante di plotone esploratori
Fronte del Don
Segnalibri
Camminare; Soldato in grigio verde; Stagioni; Carissima Madre; Rifugi; Sogno I; Rosso colore; Sogno II; Primi per la Vita; Preghiere e Miraggi; Sogno III; Fratello dell'Uomo; La Valle della Morte; Compagno, non guardare...; Rientro nel nulla; Un volto.
Camminare...
Luce del mondo che illumini
questo infausto pianeta,
alberi, fiori, città, contrade lontane
che rischiarate al ricordo le menti,
e voi orizzonti infiniti,
mari di terra bruciati dal sole,
è questo il nostro destino?
Camminare, per sempre, camminare......
Albe che guizzano rapide
su cieli consunti dal vento abissale,
nuvole, nuvole immense,
strani perpetui deserti
formati di polvere e strame,
canti che si levano senza ombra
di echi, nella desolazione,
apatia,
assoluta indifferenza degli spazi.
Camminare, per sempre, camminare.
Gioventù senza pace
che trascina la sua ansia tremenda
sotto il peso dei ferri mortali,
pensieri che volano in alto
al di sopra di polveri immani,
desideri e rimpianti al limite estremo
come se fossero gli ultimi,
presagi......
Camminare, per sempre, camminare.
Ardua la strada
e, di notte,
irte e lampanti le stelle.
Soldato in grigio verde
sotto la tua tunica strana
palpita un cuore ferrato
dalla fatica e dal dolore.
Per disperata evoluzione
la sua intima essenza si è così trasformata
che ora, come un cuore di acciaio,
reagisce soltanto agli stimoli
più rozzi e immediati:
le marce, il riposo,
le scarpe affossate,
la fame in agguato.
Pensieri?
Anch’essi languiscono negli angoli bui.
Eppure di notte,
nel grande silenzio,
il corpo prostrato da immani fatiche,
ascolti ancora
una voce che è la tua voce
ed allora il respiro si allarga,
il nodo si scioglie
e sgorgano lacrime
che sanno di polvere e sale.
Soldato solitario,
di notte,
la tua anima vola.
Stagioni Top
Cadono le prime falde di neve
e il soldato si avvia.
Un’ombra nerissima sembra gravare
sulle file stentate,
una orrida ombra,
fatta di denti, di teschi, di ossami
e il cielo si oscura.
Il calvario è vicino,
ma nessuno intuisce.
Gli scherzi, le risa, percorrono
ancora le file,
ancora divampa la vita.
Solo pallidi grumi di fango sulle piste deserte.
Tutto oramai irrigidisce,
brillano nitide in cielo
le nordiche stelle.
Oh notti del tardissimo autunno
passate all’addiaccio!
Coperte gettate come lamiere di ferro
sui corpi giovani e stanchi.
Primissimi strati di neve,
fiori bianchi, contorti,
geometrie di fulgenti cristalli
di fronte ai limpidi cieli.
Il fiume imponente risplende
sul fondo della piana inclinata,
l’azzurro delle acque ha un dolce richiamo,
un desiderio di riposo attira le menti
verso i rifugi, intorno a calori di stufe,
intorno a bivacchi di risa, di canti.
Zappare, invece, picconare,
raddrizzare migliaia di chiodi,
squartare foreste,
lavorare senza fine,
e sangue dalle mani,
riposi che fluiscono in sonni agitati
nelle algide albe
di fronte al nemico che tace,
e sempre ricordi, divoranti ricordi,
brulichìo di uomini
in solitudini estreme.
Ti scrivo, carissima madre,
per dirti
che trascorro giorni bellissimi.
Sempre ti penso
e ricordo quel tempo lontano in cui,
ancora bambino,
mi lavavi i capelli,
e i riccioli biondi mi coprivano gli occhi
e mi bruciava il sapone.
Tranquilla e dolce ti penso
e ti bacio.
Ecco finalmente il rifugio,
la mèta agognata,
la più grande conquista in terra straniera.
Non letti morbidi
né candide lenzuola,
ma brute coperte
e pagliericci di grano tritato e fumi che salgono lenti
da tubi di latta su stufe di sassi e di mota.
Vita!
Come puoi essere ancora così bella?
Non più la tenda glaciale orlata di neve,
ma un caldo riposo sotto terra
e sogni che scorrono lenti come i pensieri
e corpi ricolmi di oblio
e un dolce sapore di casa, di giochi,
di storie raccontate e ridette
alla luce di pallidi lumi
e picconi che giacciono inerti negli angoli oscuri.
La più grande conquista in terra straniera.
S’irradiano le piste dai rifugi
e scendono verso il biancore del fiume.
Il fiume!
Quest’acqua bellissima
che si avvallava
in tortuosi ghirigori
sul fianco delle immense pianure
ed ora è rigida e bianca.
Al fiume,
che più non separa un di qua da un di là,
al fiume, bisogna correre.
E tornare nelle rigide albe
lungo i sentieri incassati nel ghiaccio
a cercare riposo e calore,
mentre le membra sono inchiodate dal gelo
e le maledizioni risuonano aspre tra bianche pareti.
Pure, tutto è ancora soffuso d’un fascino arcano,
d’una informe bellezza.
La neve cade leggera sulle piste gelate
e ricopre le orme degli uomini.
Le strade dileguano in candidi sogni
e silenzio.
Pianeta immacolato ...
Dolci serate trascorse sulle panchine
di Piazza Navona.
Le comitive dei giovani ordivano
gli allegri schiamazzi,
poi lentamente
tutto si affievoliva
nel chioccolìo tranquillo delle fontane.
Fresca
come una conchiglia sul fondo del mare,
come un narciso che sè stesso ammira,
la piazza rimaneva deserta.
Rompe il chiarore delle nevi la grande meteora.
E tinge di rosso
i volti attenti, stupiti.
Le ombre vacillanti sfumano sulla neve,
sui ghiacci,
il freddo è tremendo.
Che cosa guarda la folla degli uomini?
Sull’orizzonte, lontano,
come una grande tempesta,
tuona il cannone.
Uomini talpa,
che avete vissuto nelle umide tane
sognando l’agognato ritorno,
correte,
baciate le immagini adorate,
scacciate le trame dei vostri pensieri,
imbracciate il fucile.
L’ora che batte è la vostra.
*******
Dapprima
il continuo sferragliare dei camion,
dei carri, delle slitte,
le voci confuse,
gli incitamenti, le bestemmie.
Poi
si snodano le lente carovane
alla luce dei lampi.
Sinfonia di rombi,
di fischi, di schianti. Dov’è finita
la grande sognante bellezza delle piane sconfinate,
delle nevi, dei ghiacci,
delle notti tranquille trascorse
in visioni nostalgiche,
in rimembranze senza fine?
Tutto è rumore
tutto è movimento confusione sfacelo.
La terra che nasce al chiarore del giorno
divampa.
Rosse le nevi pungenti,
braccia, teste troncate
ed ossa che spuntano fuori dei corpi
come travi divelte.
Su tutto, su tutti, impera il cannone
e la grande,
incalzante, stagione del freddo.
I fiori di monte
sono belli
e le casette sparse sui colli.
Ma mi tormenta
quest’orrida traccia che reco nel petto
ed il sentiero che conduce ai prati fioriti
è un’erta tremenda.
Non posso salire più in alto,
sorriso delle tue labbra,
nudità delle dolci tue braccia.
Cara, non posso
m’assale una luce improvvisa
e mi schianta.
Scontri tremendi, battaglie.
Per chi si combatte?
Scompaiono gli amici più cari,
dilaga l’orrenda solitudine.
Lunghe file di ombre si snodano
nella bianca bufera.
Saettano nell’aria le nere,
invisibili messaggere di morte,
ma non s’odono grida,
la stanchezza prevale.
Sulla neve biancastra tracce profonde e violette
di sangue, di corpi,
di orrendi escrementi.
La colonna
è una lunga lumaca
cui tagliano spesso la coda.
Guai alla coda!
Per la vita,
per la vita che resta, primi bisogna essere,
primi per la vita.
Affrontare gli agguati,
le corse smisurate,
le lente dilanianti processioni,
sempre per primi,
giacché gli ultimi sono i più vicini a morire.
Vivere sì,
ma di una vita
che sia possibile vivere.
Morire, se pure,
ma di una morte che ti dica
che è giunta oramai l’ora fatale
e ti sia di conforto
il tuo vecchissimo letto,
e non una coltre di neve,
con le stelle che ti bucano gli occhi
dal profondo del cielo.
Vivere e morire
come i fiori, gli alberi, il sole.
Pregare e camminare ...
Rosso di fulmini innaturali
è il cielo immenso,
la steppa è sconfinata.
Pregare
per scongiurare il destino.
Pregare
per rivedere certi volti certe linee
che già impallidiscono nell’oscuro presente.
Frasi sconnesse, mormorii,
rinunce, giuramenti,
scuotimenti mozzati dell’anima,
mentre il corpo soggiace all’immane patimento.
E magiche visioni di stufe roventi,
di calde minestre
che passano e volano nell’alto del cielo,
visioni che prendono forme stranissime,
come di cose che parlano e premono
e tutto sommergono,
persino le orme delle memorie.
Pure,
la preghiera continua,
si fa immensa invocazione,
quasi si materializza al di sopra dei corpi.
Poi diventa blasfema.
E’ forse questo evento
una estrema vendetta di Dio?
Ai giorni gelati seguono notti senza fine,
mentre le piste si fanno sempre più fitte di splendidi fiori di fiamma
e di membra schiantate.
Cessa oramai la preghiera
e tutto si tace.
L’anima cessa di esistere,
è solo il turpe animale che gemendo,
soffrendo,
insiste sull’aspro cammino.
Mi tormenta quest’orribile sogno,
la testa staccata dal candido collo
e il rotolìo crudele
sui gradini della Trinità dei Monti
che si tingono in rosso.
Le strade della grande città
in una splendida notte di luna,
deserte,
e questo orrendo risuonare,
questo continuo rotolìo.
L’insonnia m’assale.
Atroce buio della notte,
freddo, neve,
uomini che muoiono a schiere.
Compagno sconosciuto,
chi eri veramente tu?
Di certo un’anima in pena,
un dannato,
un oscuro compagno di bolgia.
Immerso in quella tremenda sofferenza,
covando quasi con amore il tuo spasimo,
hai dato ascolto a un gemito,
un lamento sottile e continuo
che nasce da quell’ombra vacillante
al chiarore del fuoco,
il lamento di un bimbo vicino a morire.
A quel suono,
una luce un intimo sommovimento
ti ha fatto tendere il braccio
ed hai mormorato parole
che usano gli angeli e i moribondi.
Così, sottobraccio,
tra i vaghi barlumi dell’anima,
hai proseguito il cammino.
Nel dolore, compagno,
ti sei riconosciuto fratello dell’uomo.
Ancora giorni e notti, deliranti sonni senza riparo,
aghi di ghiaccio nelle carni stanche e odore di fumo,
di polvere, di morte.
Gli uomini laceri cadono a terra
e dormono sonni invincibili
quasi inumani.
Persino il nemico frena il suo impeto,
forse soggiace a pietà.
Buio e silenzio.
Ma il risveglio è rapido e crudo.
Dagli atroci giacigli fatti di neve e gelo,
s’alzano gli uomini come bianchi fantasmi.
Nella infida valle
nessuno sembra capire,
ma il sangue dei morti
e lo strazio dei vivi
fanno rapida scuola.
Allora è soltanto un terribile ansare,
un muoversi a scatti,
una lenta agonia.
I denti che battono forte
rompono il ritmo dei brevi silenzi,
che paiono estendere il tempo
al di là d’ogni limite umano.
Infine avviene il miracolo.
Mari di freddo e di fuoco
ed ombre che corrono rapide via.
Nella valle mortale
distese di immobili corpi
tra le case incendiate ...
Con manto pietoso
la neve tutto ricopre.
*******
Lividi alberi neri
sul sommo del colle e al di sopra
l’alto garrire del drappo
nel gelido vento invernale.
Ispide barbe nerastre intrise di gelo,
occhi iniettati di sangue,
attacco per tutti.
La vita oramai più non conta,
si grida soltanto
e gridando si muore.
Poi il grande silenzio rotto dai gemiti
ed ancora l’alto garrire.
Il colle nevoso è stravolto
e solo un silenzio di giaccio
rende gli onori.
Spazio brevissimo
all’interno di mura cadenti e screpolate.
Vivi che sognano e gemono, morti che tacciono
rigidi.
E’ il lazzaretto!
Crepita in un angolo breve
e fumiga triste
una misera inutile stufa.
Ombre che lente e ingannevoli
offuscano i muri
e paiono, vaghi fantasmi di donne, di bimbi.
Il fuoco si è spento,
bisogna soltanto aspettare,
aspettare.....
*******
L’oblìo è una nebbia che tutto divora,
assopisce e annulla le menti.
Sono pochi i superstiti,
ma la mèta appare sempre lontana.
Dopo la lunga notte piena di fuochi
ecco finalmente la limpida alba invernale.
Ed ecco sorgere il sole!
Nell’aria chiarissima
diamanti di luce e di gelo
e immensi orizzonti.
Lunghe file di carriaggi e di slitte
macinanti sulla neve
e, a notte,
una luna così candida e tonda
da far impazzire.
Volteggia nell’aria
il delirio, ed effimere,
luci mostruose di follia.
Dicono tutti
che è l’ultimo sforzo,
la salvezza è in fondo alla strada.
Ma la pazzia compie le ultime stragi,
si vedono uomini affondare baionette nel corpo
del compagno che delira,
e nude figure ballare danze grottesche
sotto la luna.
Dio mio! cos’è tutto questo?
Un sogno,
una orribile invenzione,
una orrenda fantasia?
No, compagno, cammina,
taci
e non guardare.
Il treno attraversa la grande pianura
e gli uomini giacciono pallidi e stanchi
sulle bianche lenzuola.
Che stoffa impalpabile, che dolce splendore!
Ma quanta tristezza.
Sono pochi i superstiti,
le membra le teste fasciate,
i corpi ridotti allo scheletro,
le menti svuotate.
La immensa brughiera s’allarga
come un grande ventaglio
verso il mondo dei vivi
e il treno divora lo spazio.
Nel cielo biancastro,
con ali che filtrano la luce del giorno,
una scia di anime sembra apparire,
la scia si arcua si allunga
a distanze impensate,
dilegua nel nulla.
Un tremito, un’ansia offusca la gioia,
sul treno si parla sommesso
o si tace.
Nella assolata pianura di Foggia
ecco emergere un volto,
una voce ben nota.
Il tempo ha colmato dolori e ricordi.
Come un murmure scorrere d'acqua m'assale
un confuso proromper di voci,
uno stridore di carri,
un romper di schianti
e visioni di piane,
di erbe, di ghiacci,
e il ricordo cocente
della stretta di mano che un giorno mi desti....
senza parlare di più.