Novita' Novecento Poesia
In questo spazio vengono catalogate le manifestazioni di Novecento e
recensiti libri, riviste e pubblicazioni di carattere letterario.
LA
POESIA DI GIUseppe Panella
di
Franco Manescalchi
(di
Giuseppe Panella sono recentemente usciti Serial killer – Morgana editrice e
Il terzo amamti di Lucrezia Buti – Polistampa)
In
questo scorcio finale di secolo stanno formandosi poeti a tutto tondo che
affrontano ex novo la questione della visione del mondo e di una koinè
transnazionale. Giuseppe Panella è un protagonista, in questo senso ed in
questa direzione ed i suoi studi vanno di pari passo con la produzione poetica,
tracciano ed ampliano un cammino ancora tutto da fare ma già designato in ogni
sua parte. Si può dire intanto, citando l’autore, che “la poesia è una
campagna di illusioni e di scavi” che
più non prevede il divertissement gratuito, ma strutture armoniche connesse
all’arbitrarietà ed alla serialità di una digitazione delle scritture che
deriva da ritmi provenienti dalla beat generation, da interlinguismi e
multimedialità e da un vissuto antropologico dai toni epocali.
In
effetti questa “campagna di scavi” intrapresa da Panella è indicata in un
sonetto alessandrino in cui, con delicatissima ironia rimbaldiana (par
delicatesse/J’ai perdu ma vie) Panella affida ad un laconico “vorrei” il
distacco dalla poetica delle parole colorate per “stendere grigi colori sul
desiderio che prevale”. Cosi il gusto dei colori assume il sapore della cenere
e la sinestesia propone un percorso orfico-sapienziale. Forse, con tutte
le cautele che questa ipotesi comporta, già negli anni Settanta, al tempo della
contestazione creativa, erano state consolidate alcune premesse
interdisciplinari che, incubate per oltre un decennio, hanno poi permesso a
Panella di elaborare questo cospicuo progetto nel senso della rifondazione
culturale, con gli evidentissimi riferimenti, addirittura stilematici che
risultano clamorosamente anche ad una prima lettura, tant’è che sono
dichiarati e posti, in alcuni casi, al centro del discorso metapoetico. In effetti il
dibattito sugli anni Settanta e Ottanta, per quanto concerne la poesia,
concentrato sulle tematiche della deriva storico-esistenziale e sul mito
(ricordiamo le antologie Il pubblico della poesia e La parola innamorata che
ebbero fra le figure più rappresentative Dario Bellezza e Giuseppe Conte) è
ancora tutto da fare e deve coinvolgere, per un’analisi sui tempi medi, sulle
consistenze e sui meriti, anche nuove figure di rilievo come Giuseppe Panella.
La differenza fra l’attuale generazione
dei creativi (per i quali è d’obbligo il rimando a premesse in cui la
contaminatio fra i generi coincide con la pulsione vitale e col policentrismo
etnico) interamente tesa ad elaborare linguaggi di oltranza verbo-sonoro-visiva,
e i poeti contestualizzati nell’ambito del mito e dell’immaginario mi pare
nettissima. Consiste nella presa d’atto di uno iato incolmabile col passato, anche
col postdecadentismo attestato nella liricità di crisi, di valori sublimati e
nella eccezionalità della scrittura.
Panella
prende posizione contro questa modalità di poetica nella seconda parte
dell’introduzione in cui parla del fenomeno della luna azzurra o della doppia
lunazione come metafora della poesia. La sua ipotesi non è frontalmente
opposta, ma - a mio avviso - tiene conto delle connessioni esistenziali,
estetiche e filosofiche che possono essere sintetizzate nella presa di coscienza
di un traversamento planetario dei nodi e noduli di una storia finita.
Ovviamente, rispetto al modello Beat generation ciò avviene da noi dopo un
congruo periodo di tempo. Inoltre, l’esperienza globale è riconducibile, in
qualche modo, nella cornice della postmodernità, con conseguente
superamento della gestualità polisemica delle neoavanguardie letterarie
e della separatezza fra vita, pensiero ed arte.
Si
aggiunga che la presenza autoriale di Giuseppe Panella è poi segnata
dall’insorgenza di un pensiero critico nei confronti del postmoderno e dunque
presuppone un approfondimento teoretico, anche sulla base di precedenti analisi
(svolte da noi da Pasolini e Sanguineti), sulla irreversibilità della crisi,
come gà si è accennato, di una koinè letteraria nazionale e sulla necessità
di un percorso di rifondazione linguistica multimediale in cui entrano
in campo l’entropia di una civiltà ed il formarsi, in senso
etimologico, di argo-nauti galattici capaci di sincronie e ordinamenti
frattalici in cui emozione e riflessione, materia opaca e luce trovano la loro
connotazione.
In questo senso
Panella è chiarissimo e in una nota esplicita le sue affinità più selettive
che elettive:
“La lettura
dell’opera di Schopenauer, la consapevolezza delle innovazioni stilistiche
contenute in Howl di Allen Ginsberg e, soprattutto, nel Mexico City Blues di
Jack Kerouac, l’ammirazione per l’ultima produzione letteraria di Samuel
Beckett (ad esempio, per Worstward Ho) sono all’origine del mio pastiche
teorico poetico.”
Eppure, direi che
queste segnalazioni di matrici possibili, che l’autore stesso ci offre,
debbano essere considerate con molta cautela, poiché attengono ad aspetti
filosofici e stilematici ma lasciano integro il mallo più squisitamente
mitopioetico che ha la sua collocazione nella storia ancestrale del poeta –
tutta attestata sull’epicità del noi – e nella consapevolezza di un approdo
alla prosa, al grado zero della scrittura (con riferimento all’ipotesi di
Alfonso Berardinelli sul percorso, nella letteratura contemporanea, dalla poesia
alla sua riduzione prosastica) con la necessaria semantizzazione di un universo
espressivo – musicale, linguistico ed iconico – di origine storico-
generazionale ed inoltre messo a nuovo per quella campagna di illusioni e di
scavi di cui si diceva all’inizio.
Nonostante il
ripudio della teoria delle generazioni, siamo di fronte ad una scelta
generazionale. Anche per il poeta il contesto è mutato, il “villaggio
globale” pone le sue questioni, impone la ricerca di nuovi codici la cui
potenzialità è a tutti evidente e di cui Panella è, come si dice, in re ed in
rebus.
Ed è in un suo
laborintus, in un suo interno lavoro fortemente narcissico e proprio perciò
intrigato ed intrigante, che il poeta mostra di sapersi muovere con sapienza
essoterica ed esoterica. Laborintus come interno lavoro ma anche come percorso
disperato e disperante per illuminare l’uscita del dedalo da cui non si può
uscire perché la poesia non è un filo salvifico ed Arianna, Teseo ed il
Minotauro sono facce speculari di una stessa esperienza mitopoietica. E questo
anche linguisticamente. è
l’autore stesso a dichiararlo, in Palmarès: I testi presentati qui di seguito
sono ancora tutti da scrivere nonostante siano già stati scritti…Infinito
gioco di rimandi, le parole della poesia si configurano come una rete di modelli
alternativi alle parole troppo logore dell'immaginazione...".
Ed ancora una
volta si può apprezzare il lavoro di scavo intorno alla lingua poetica che
esclude le parole troppo logore dlel’immaginazione. Come proposta di
laboratorio Panella ipotizza, di fatto, la pratica dell’ipertesto su supporto
cartaceo (ripetiamo: I testi presentati qui di seguito sono ancora tutti da
scrivere nonostante siano già stati scritti), la poetica del labirinto,
dell’anello di Möbius, dello spazio infinito che si mutua in tempo incidente
ed incisivo (con particolare riferimento al primo libro del poeta:Albedo),
l’ironia delle forme che presuppone l’uso di una forma mentis scaltra ed
altra, rispetto alla ingenuità del fantastico, quella appunto dell’ironia.
Tutte queste interazioni operative mi sembra caratterizzino la tipologia dell’
argonauta che deve fare i conti anche con la lentezza del pensiero umano (il mio
pensiero più lento/della mente di Dio, scrive l’autore).
Lucido e ludico
navigatore (ma di una ludicità ossessiva, jacoponiana, all’interno di ballate
con rime iteratamente tronche o di elegie plurilinguistiche che evocano la cauda
pavonis dell’esperimento riuscito) Panella, usa mappe aggiornatissime,
disegnate in parte col sangue dal suoi avi migranti ed emigranti, autenticate
con disperata vitalità postpasoliniana dall’autore che deriva il senso del
sintagma disperata vitalità dalla disperazione schopenauriana (sempre con
ironia) e dalla vitalità del Nietsche della seconda stagione con connubio fra
Dioniso ed Apollo nella profetica ed estatica dinamica del testo. La fissione
apollinea della dinamica dionisiaca del pensiero poetante di Panella assume
tecniche mimetiche, proteiformi, costituisce una retorica in fieri ed in
divenire consapevolmente antilirica, ovvero ulteriore alla retorica delle
emozioni e dei sentimenti individuali cara al novecento e si pone nello spazio
di un’oltranza prima ideologica – nel senso di una formazione di
idee – che estetica.
Vediamo ora un
percorso testuale a conferma di quanto detto. In Palmarès il poeta ci offre un
testo, è tempo, esemplare per la
ripresa ex imo ed ex novo: L’articolata
retorica panelliana prevede registri sempre variati e presieduti comunque dal
trinomio tomistico Integritas, consonanza e claritas già mutuato da James Joyce.
In questo caso l’integritas è confermata dalla semantica ancestrale
ancestrale della prima ballata da
Fixing the shadow dove l’affabulazione interfamiliare è alla base di una
rifondazione linguistica e di un doppio indiamento del poeta nel piccolo
indiano. Così come oggi, in Serial killer, il poeta trova nella lingua albanese
un nuovo codice per la propria individuazione. La ballata del
piccolo indiano ci conferma la musicalità, la cantabilità del poièin
panelliano (il testo è da me tradotto per un lettore non anglofono):
Il
piccolo giovane indiano/s’impaurì della sua piccola ombra/e la tagliò./Il
piccolo giovane indiano/desiderò di riavere la sua ombra/ma questa non era più
sulla terra/ bensì nel regno delle ombre./La donna luna era abile nel ristorare
la sua anima/con l’ago e con l’amore/ma lui aveva bisogno della perduta
triste vecchia ombra./ E così il piccolo indiano/andò nel regno della
morte/per affrontare la vita faccia a faccia/finché la morte fosse
sconfitta./Così di giorno in giorno si va avanti/faccia alla vita/nel nostro
lento ma continuo confronto/con l’angelo della nostra misericordia!/Nessuno di
noi ha paura della sua anima/e ciascuno vuole vemnderla/l’unica paura che
abbiamo/è la necessità di comportarsi/come il piccolo giovane indiano/e di
guadagnarci la vita/con la forza del nostro coltello!/Il nostro coltello sarà
la volontà/di sostenere e giocare e uccidere/tutto ciò che amiamo. Come
si può notare la massima wildiana ciascuno uccide ciò che ama è addirittura
didascalica nella ballata del piccolo indiano e anticipa l’exergo
dell’ultimo poemetto, Serial killer. Si
potrebbe interpretare tutto questo anche nel senso e nella direzione del
non ritorno, dell’eterno presente, come si leggenelle strofe di Blues senza
fine in Albedo, dove si avverte come la lettura e l’assimilazione del Brecht
epico, uno fra i riferimento costanti del poeta, sia poi traslata in una
partitura cantata e probabilmente eseguita e seguita da ossessivi, monotoni,
collettivi movimento del corpo. dal secondo libro, I
maestri naturali, mi sembra da segnalare, per l’interpretazione
dell’oltranza che prevede, verso ed avverso la figura del Maestro naturale (in
questo caso Andy Warhol), l’azione assimilatrice, demolitrice e rigeneratrice
del poeta serial killer.
E da Serial killer
piace indicare Un faust di meno dove Panella si muove ancora fra la ballata di
Brecht e la ballata popolare tipica del blues e dove definisce, in positivo
(anche se negativamente) la sua immagine di poeta.
In questo Panella
è coerente col versante aperto delle avanguardie storiche dove la negazione del
poeta (si pensi, uno fra tanti, a Palazzeschi) è necessaria per riproporsi in
termini di storia e di lingua. Da ciò deriva che la tradizione di serial killer
nella poesia moderna è ricca di modelli di riferimento. Poeti apparentemente
arbitrari, ed invece profondamente coerenti con la propria poiesis, con la
propria domestica follìa nietscheana.
Perciò, se ogni
libretto di Panella, preso a sé, lasciava un po’ il senso della precarietà e
della sospensione era perché, di fatto, faceva parte di un poema di formazione
che ora ricomposto ci offre per intero la presenza di un poeta che non vuole
essere confuso con la pletora degli esistenzialisti narcissici e che dà alla
scrittura il compito di reificare il mondo della poesia e della realtà in una
dimensione esperienziale e conoscitiva, proprio oggi, in un momento storico di
grandi dicotomie, separatezze, cancellazioni e superfetazioni che non fanno
davvero ben sperare.
UNA MOSTRA SU
DINO CAMPANA
di
Franco Manescalchi
Dino Campana è
assurto al mito per il carattere e le esperienze di poeta maudit, con una conseguente omologazione nelle interpretazioni
biografiche, mentre spesso le letture critiche sono state caratterizzate da una
focalizzazione sulla variantistica. Naturalmente, molto è stato delineato
dell’uomo e del poeta, ma oggi si avverte l’esigenza di ridelineare alcuni
tratti essenziali per tornare ad un’immagine più compatta ed essenziale.
Seguendo lo
stimolo di questa istanza, Ivo Morini, cultore della figura e dell’opera del
poeta, si è impegnato in un’assidua ricerca biobligrafica ed iconica con
l’intento di ricomporre in modo filologico, nei limiti del possibile, un
mosaico di contributi oggettivi che profilano comportamenti ed azioni di una
presenza attendibile.
Metodologicamente,
la mostra segue uno sviluppo cronologico corroborato con solide suites
tematiche e propone il poeta inserito nel suo tempo.
L’intento
del curatore è di offrire un percorso didascalico permeato di poesia,
ineccepibile nelle citazioni e nella loro tessitura, inteso a cogliere tutta
l’umanità insita nel poeta ma anche nel contesto in cui egli si muoveva. I
luoghi, i personaggi, i messaggi sono collegati con la naturalezza di chi ha
frequentato a lungo paesaggi e pagine e appartengono ad un discorso coeso,
multimediale e tecnicamente strutturato con gusto e stile al punto che i
singoli pannelli sono veri e propri quadri incorniciati con colori diversi di
tema in tema e con rigoroso rapporto spaziale fra icone e “finestre”
verbali.
Si noti inoltre
come l’insieme delle citazioni componga una tessitura di sottile filigrana
letteraria, anche quando si fa riferimento a lettere o a brevi aneddoti. Questi
diversi materiali linguistici vengono appunto compattati in una narrazione
iniziata e ripresa, sempre, da diverse angolature, ma collocate sul medesimo
filo conduttore. Una sorta di recherche per
avvicinarsi al personaggio ed a Sibilla Aleramo, anche lei assurta al mito e qui
ricondotta ad una possibile dimensione storico-esistenziale attraverso la
citazione di alcuni spunti documentari e letterari.
Gli strumenti
usati per decriptare il “mito” sono artigianali, nonostante l’ampia
documentazione da cui è mossa l’analisi, e i risultati colpiscono
l’immaginazione per la sintesi e la concretezza di una “narrazione” non
romanzata. In conclusione,
questa mostra ha il merito di tracciare i nessi di un percorso interpretativo
che deve essere sviluppato in una ricerca in divenire sempre più plausibile e
che prospetti l’uomo ed il poeta con onesto approfondimento di dati oggettivi.
di
Franco Manescalchi
I IL SEGNALIBRO
Rosa Berti Sabbieti – Mi ami troppo – Polistampa, Firenze
È romanzo tratta lo sviluppo di un rapporto affettivo fra una donna
adulta ed (già il doppio titolo MI AMI TROPPO Mi ami troppo vuole
indicare l'intrecciarsi dell’azione), Viene così costruito un percorso umano
e culturale dalle reciproche interazioni ed i contributi affettivi ed intuitivi
che la bambina porta sono contraccambiati da quelli etico – culturali della
donna. Interessa che il rapporto nasca e si sviluppi in una scansione spazio
temporale che rompe il piatto e freddo modo di rapportarsi nella società di
oggi. Insomma, si passa dalla casualità alla causalità degli incontri e dunque
i due soggetti divengono protagonisti di una scelta di vita che il coronamento
luttuoso non annulla, ma trasforma bensì in una catastrofe-catarsi. Per precisare l' anello di questo doppio destino si apre in modo casuale,
si concretizza con reciproca cognizione di causa di una scelta e si chiude con
un evento che non può tuttavia cancellare il doppio percorso di vita costruito
con un work in progress di sentimenti e di ragioni che, appunto, nascono
da un sentimento di maternità e filialità ulteriore a certi atteggiamenti
femministi del passato e capace di porsi in positivo in un contesto sociale
arido e arduo.
Il romanzo procede nella narrazione con una struttura dialogica,
drammaturgia, quasi da copione
teatrale, e gradualmente introduce spaccati di discorso indiretto fino
all'epilogo imprevisto, dal tono della cronaca asettica di questi
nostri tempi, temperato e rianimato da una sorta di respiro doloroso
della comunità destinataria del messaggio. Per questi motivi ci troviamo di fronte
ad un testo originale e che
costruisce narrazione in itinere senza farsi invischiare da strutture
narratologiche sentimentali o, all'opposto, sociologiche.
In effetti si tratta di un dialogo dell’autrice protagonista con una
figlia interiore, incontrata en plein air in un solstizio dell'anima. Due
voci in una, il due nell'uno, il mistero stesso della vita e della morte.
ROSA BERTI SABBIETI è nata a Camerino, vive a
Macerata. Ha due lauree (Roma, La Sapienza); ex docente liceale; ha pubblicato
tredici raccolte di liriche, quattro di racconti, due romanzi. Prefazioni di D.
Valeri, E. Miscia, G. Bàrberi Squarotti, M. Petrucciani, A. Piromalli (in una
antologia), P. Ruffilli, V. Esposito, S. Gros-Pietro; per la prosa: U. Bardi, G.
Liuti, F. Ulivi, R. Pasanisi, V. Vettori. Presente in vari volumi di storia e
della critica della letteratura. Presente in vari quotidiani, tra cui: «La
Stampa», «Corriere della Sera», «L 'Osservatore Romano», «Il Mattino», «Il
Gazzettino», «La voce
Repubblicana», «Times di
Filadelfia», «La Fiera Letteraria», «Forum Italicum», «La Follia», «ll
Ponte Italo-Americano» (USA), «Le Livre Africain» (Cotonou), «Libertas»
(Uruguay), «Poietike» (Brasile), «L' Arena» (Pola). Presente in antologie in
Italia, Corinto, Atene, Lussemburgo, Ginevra, Canada, Corea. Tra i diplomi, uno
da Madras (1989), uno dal Campidoglio (1998), uno da Cambridge (2000). Delle
medaglie si ricordano quella dell'Università di Camerino e quella della Legion
D'Oro. Dalla corrispondenza solo le firme di Quasimodo, già Premio Nobel, U.
Betti, E. Cecchi, G. Debenedetti, L. Fiumi, V. Volpini, P. Volponi, M. Guidacci.
“Intanto Peppe si gustava una pastasciutta alle noci,
di cui era ghiotto, con lo zucchero e si lasciava andare ai ricordi che, a casa
sua di contadini, era il piatto ghiotto per la festa dei Santi e da piccolo era
incaricato di rompere le noci con lo schiaccianoci, ma preferiva invece romperle
con un grosso sasso sugli scalini, i tre scalini della porta esterna, perché
stava vicino vicino ad una pianta di moscato francese, di cui era ghiottissimo,
e come di noci fresche ne faceva una scorpacciata tale che a pranzo poi non
aveva appetito e i suoi lo rimproveravano: certo non ti va giù più niente,
troppe noci ti sei mangiate! Quelle noci che lui raccoglieva a terra una volta
gli avevano provocato anche una colica gastrica ma erano le noci di Sorrento che
aveva piantato il suo padrone, Antonio, buonanima, come lo chiamavano alla pari
dei morti nell'usanza contadina, ma soprattutto perché era così buono che non
andava a dividere i prodotti agricoli e diceva ai contadini: datemi quello che
credete, mentre altri padroni, a quei tempi, dividevano tutto dopo averlo
contato esattamente. Paola, invece, in quel silenzio della mensa pensava alla
bellezza della statua della Madonna, si ricordava che era stata fatta, dopo
l'incendio, col pregiato legno di cedro del Libano e ricordava i tre cedri che
c' erano nella piazza del suo paese dove lei bambina si rincorreva con altri
bambini facendo il girotondo…”