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In questo spazio vengono catalogate le manifestazioni di Novecento e recensiti libri, riviste e pubblicazioni di carattere letterario.

LA POESIA DI GIUseppe Panella di Franco Manescalchi (di Giuseppe Panella sono recentemente usciti Serial killer – Morgana editrice e Il terzo amamti di Lucrezia Buti – Polistampa) 

In questo scorcio finale di secolo stanno formandosi poeti a tutto tondo che affrontano ex novo la questione della visione del mondo e di una koinè transnazionale. Giuseppe Panella è un protagonista, in questo senso ed in questa direzione ed i suoi studi vanno di pari passo con la produzione poetica, tracciano ed ampliano un cammino ancora tutto da fare ma già designato in ogni sua parte. Si può dire intanto, citando l’autore, che “la poesia è una campagna di illusioni e di scavi”  che più non prevede il divertissement gratuito, ma strutture armoniche connesse all’arbitrarietà ed alla serialità di una digitazione delle scritture che deriva da ritmi provenienti dalla beat generation, da interlinguismi e multimedialità e da un vissuto antropologico dai toni epocali. In effetti questa “campagna di scavi” intrapresa da Panella è indicata in un sonetto alessandrino in cui, con delicatissima ironia rimbaldiana (par delicatesse/J’ai perdu ma vie) Panella affida ad un laconico “vorrei” il distacco dalla poetica delle parole colorate per “stendere grigi colori sul desiderio che prevale”. Cosi il gusto dei colori assume il sapore della cenere e la sinestesia propone un percorso orfico-sapienziale. Forse, con tutte le cautele che questa ipotesi comporta, già negli anni Settanta, al tempo della contestazione creativa, erano state consolidate alcune premesse interdisciplinari che, incubate per oltre un decennio, hanno poi permesso a Panella di elaborare questo cospicuo progetto nel senso della rifondazione culturale, con gli evidentissimi riferimenti, addirittura stilematici che risultano clamorosamente anche ad una prima lettura, tant’è che sono dichiarati e posti, in alcuni casi, al centro del discorso metapoetico. In effetti il dibattito sugli anni Settanta e Ottanta, per quanto concerne la poesia, concentrato sulle tematiche della deriva storico-esistenziale e sul mito (ricordiamo le antologie Il pubblico della poesia e La parola innamorata che ebbero fra le figure più rappresentative Dario Bellezza e Giuseppe Conte) è ancora tutto da fare e deve coinvolgere, per un’analisi sui tempi medi, sulle consistenze e sui meriti, anche nuove figure di rilievo come Giuseppe Panella. La differenza fra l’attuale  generazione dei creativi (per i quali è d’obbligo il rimando a premesse in cui la contaminatio fra i generi coincide con la pulsione vitale e col policentrismo etnico) interamente tesa ad elaborare linguaggi di oltranza verbo-sonoro-visiva, e i poeti contestualizzati nell’ambito del mito e dell’immaginario mi pare nettissima. Consiste nella presa d’atto di uno iato incolmabile col passato,  anche col postdecadentismo attestato nella liricità di crisi, di valori sublimati e nella eccezionalità della scrittura.  Panella prende posizione contro questa modalità di poetica nella seconda parte dell’introduzione in cui parla del fenomeno della luna azzurra o della doppia lunazione come metafora della poesia. La sua ipotesi non è frontalmente opposta, ma - a mio avviso - tiene conto delle connessioni esistenziali, estetiche e filosofiche che possono essere sintetizzate nella presa di coscienza di un traversamento planetario dei nodi e noduli di una storia finita. Ovviamente, rispetto al modello Beat generation ciò avviene da noi dopo un congruo periodo di tempo. Inoltre, l’esperienza globale è riconducibile, in qualche modo, nella cornice della postmodernità, con conseguente  superamento della gestualità polisemica delle neoavanguardie letterarie e della separatezza fra vita, pensiero ed arte.  Si aggiunga che la presenza autoriale di Giuseppe Panella è poi segnata dall’insorgenza di un pensiero critico nei confronti del postmoderno e dunque presuppone un approfondimento teoretico, anche sulla base di precedenti analisi (svolte da noi da Pasolini e Sanguineti), sulla irreversibilità della crisi, come gà si è accennato, di una koinè letteraria nazionale e sulla necessità di un percorso di rifondazione linguistica multimediale in cui entrano  in campo l’entropia di una civiltà ed il formarsi, in senso etimologico, di argo-nauti galattici capaci di sincronie e ordinamenti frattalici in cui emozione e riflessione, materia opaca e luce trovano la loro connotazione. In questo senso Panella è chiarissimo e in una nota esplicita le sue affinità più selettive che elettive: “La lettura dell’opera di Schopenauer, la consapevolezza delle innovazioni stilistiche contenute in Howl di Allen Ginsberg e, soprattutto, nel Mexico City Blues di Jack Kerouac, l’ammirazione per l’ultima produzione letteraria di Samuel Beckett (ad esempio, per Worstward Ho) sono all’origine del mio pastiche teorico poetico.” Eppure, direi che queste segnalazioni di matrici possibili, che l’autore stesso ci offre, debbano essere considerate con molta cautela, poiché attengono ad aspetti filosofici e stilematici ma lasciano integro il mallo più squisitamente mitopioetico che ha la sua collocazione nella storia ancestrale del poeta – tutta attestata sull’epicità del noi – e nella consapevolezza di un approdo alla prosa, al grado zero della scrittura (con riferimento all’ipotesi di Alfonso Berardinelli sul percorso, nella letteratura contemporanea, dalla poesia alla sua riduzione prosastica) con la necessaria semantizzazione di un universo espressivo – musicale, linguistico ed iconico – di origine storico- generazionale ed inoltre messo a nuovo per quella campagna di illusioni e di scavi di cui si diceva all’inizio. Nonostante il ripudio della teoria delle generazioni, siamo di fronte ad una scelta generazionale. Anche per il poeta il contesto è mutato, il “villaggio globale” pone le sue questioni, impone la ricerca di nuovi codici la cui potenzialità è a tutti evidente e di cui Panella è, come si dice, in re ed in rebus. Ed è in un suo laborintus, in un suo interno lavoro fortemente narcissico e proprio perciò intrigato ed intrigante, che il poeta mostra di sapersi muovere con sapienza essoterica ed esoterica. Laborintus come interno lavoro ma anche come percorso disperato e disperante per illuminare l’uscita del dedalo da cui non si può uscire perché la poesia non è un filo salvifico ed Arianna, Teseo ed il Minotauro sono facce speculari di una stessa esperienza mitopoietica. E questo anche linguisticamente. è l’autore stesso a dichiararlo, in Palmarès: I testi presentati qui di seguito sono ancora tutti da scrivere nonostante siano già stati scritti…Infinito gioco di rimandi, le parole della poesia si configurano come una rete di modelli alternativi alle parole troppo logore dell'immaginazione...". Ed ancora una volta si può apprezzare il lavoro di scavo intorno alla lingua poetica che esclude le parole troppo logore dlel’immaginazione. Come proposta di laboratorio Panella ipotizza, di fatto, la pratica dell’ipertesto su supporto cartaceo (ripetiamo: I testi presentati qui di seguito sono ancora tutti da scrivere nonostante siano già stati scritti), la poetica del labirinto, dell’anello di Möbius, dello spazio infinito che si mutua in tempo incidente ed incisivo (con particolare riferimento al primo libro del poeta:Albedo), l’ironia delle forme che presuppone l’uso di una forma mentis scaltra ed altra, rispetto alla ingenuità del fantastico, quella appunto dell’ironia. Tutte queste interazioni operative mi sembra caratterizzino la tipologia dell’ argonauta che deve fare i conti anche con la lentezza del pensiero umano (il mio pensiero più lento/della mente di Dio, scrive l’autore). Lucido e ludico navigatore (ma di una ludicità ossessiva, jacoponiana, all’interno di ballate con rime iteratamente tronche o di elegie plurilinguistiche che evocano la cauda pavonis dell’esperimento riuscito) Panella, usa mappe aggiornatissime, disegnate in parte col sangue dal suoi avi migranti ed emigranti, autenticate con disperata vitalità postpasoliniana dall’autore che deriva il senso del sintagma disperata vitalità dalla disperazione schopenauriana (sempre con ironia) e dalla vitalità del Nietsche della seconda stagione con connubio fra Dioniso ed Apollo nella profetica ed estatica dinamica del testo. La fissione apollinea della dinamica dionisiaca del pensiero poetante di Panella assume tecniche mimetiche, proteiformi, costituisce una retorica in fieri ed in divenire consapevolmente antilirica, ovvero ulteriore alla retorica delle emozioni e dei sentimenti individuali cara al novecento e si pone nello spazio di un’oltranza prima ideologica – nel senso di una formazione di  idee – che estetica. Vediamo ora un percorso testuale a conferma di quanto detto. In Palmarès il poeta ci offre un testo, è tempo, esemplare per la ripresa ex imo ed ex novo: L’articolata retorica panelliana prevede registri sempre variati e presieduti comunque dal trinomio tomistico Integritas, consonanza e claritas già mutuato da James Joyce. In questo caso l’integritas è confermata dalla semantica ancestrale ancestrale della  prima ballata da Fixing the shadow dove l’affabulazione interfamiliare è alla base di una rifondazione linguistica e di un doppio indiamento del poeta nel piccolo indiano. Così come oggi, in Serial killer, il poeta trova nella lingua albanese un nuovo codice per la propria individuazione. La ballata del piccolo indiano ci conferma la musicalità, la cantabilità del poièin panelliano (il testo è da me tradotto per un lettore non anglofono): Il piccolo giovane indiano/s’impaurì della sua piccola ombra/e la tagliò./Il piccolo giovane indiano/desiderò di riavere la sua ombra/ma questa non era più sulla terra/ bensì nel regno delle ombre./La donna luna era abile nel ristorare la sua anima/con l’ago e con l’amore/ma lui aveva bisogno della perduta triste vecchia ombra./ E così il piccolo indiano/andò nel regno della morte/per affrontare la vita faccia a faccia/finché la morte fosse sconfitta./Così di giorno in giorno si va avanti/faccia alla vita/nel nostro lento ma continuo confronto/con l’angelo della nostra misericordia!/Nessuno di noi ha paura della sua anima/e ciascuno vuole vemnderla/l’unica paura che abbiamo/è la necessità di comportarsi/come il piccolo giovane indiano/e di guadagnarci la vita/con la forza del nostro coltello!/Il nostro coltello sarà la volontà/di sostenere e giocare e uccidere/tutto ciò che amiamo. Come si può notare la massima wildiana ciascuno uccide ciò che ama è addirittura didascalica nella ballata del piccolo indiano e anticipa l’exergo dell’ultimo poemetto, Serial killer. Si  potrebbe interpretare tutto questo anche nel senso e nella direzione del non ritorno, dell’eterno presente, come si leggenelle strofe di Blues senza fine in Albedo, dove si avverte come la lettura e l’assimilazione del Brecht epico, uno fra i riferimento costanti del poeta, sia poi traslata in una partitura cantata e probabilmente eseguita e seguita da ossessivi, monotoni, collettivi movimento del corpo. dal secondo libro, I maestri naturali, mi sembra da segnalare, per l’interpretazione dell’oltranza che prevede, verso ed avverso la figura del Maestro naturale (in questo caso Andy Warhol), l’azione assimilatrice, demolitrice e rigeneratrice del poeta serial killer. E da Serial killer piace indicare Un faust di meno dove Panella si muove ancora fra la ballata di Brecht e la ballata popolare tipica del blues e dove definisce, in positivo (anche se negativamente) la sua immagine di poeta. In questo Panella è coerente col versante aperto delle avanguardie storiche dove la negazione del poeta (si pensi, uno fra tanti, a Palazzeschi) è necessaria per riproporsi in termini di storia e di lingua. Da ciò deriva che la tradizione di serial killer nella poesia moderna è ricca di modelli di riferimento. Poeti apparentemente arbitrari, ed invece profondamente coerenti con la propria poiesis, con la propria domestica follìa nietscheana. Perciò, se ogni libretto di Panella, preso a sé, lasciava un po’ il senso della precarietà e della sospensione era perché, di fatto, faceva parte di un poema di formazione che ora ricomposto ci offre per intero la presenza di un poeta che non vuole essere confuso con la pletora degli esistenzialisti narcissici e che dà alla scrittura il compito di reificare il mondo della poesia e della realtà in una dimensione esperienziale e conoscitiva, proprio oggi, in un momento storico di grandi dicotomie, separatezze, cancellazioni e superfetazioni che non fanno davvero ben sperare.

UNA MOSTRA SU DINO CAMPANA

di Franco Manescalchi

Dino Campana è assurto al mito per il carattere e le esperienze di poeta maudit, con una conseguente omologazione nelle interpretazioni biografiche, mentre spesso le letture critiche sono state caratterizzate da una focalizzazione sulla variantistica. Naturalmente, molto è stato delineato dell’uomo e del poeta, ma oggi si avverte l’esigenza di ridelineare alcuni tratti essenziali per tornare ad un’immagine più compatta ed essenziale. Seguendo lo stimolo di questa istanza, Ivo Morini, cultore della figura e dell’opera del poeta, si è impegnato in un’assidua ricerca biobligrafica ed iconica con l’intento di ricomporre in modo filologico, nei limiti del possibile, un mosaico di contributi oggettivi che profilano comportamenti ed azioni di una presenza attendibile. Metodologicamente, la mostra segue uno sviluppo cronologico corroborato con solide suites tematiche e propone il poeta inserito nel suo tempo. L’intento del curatore è di offrire un percorso didascalico permeato di poesia, ineccepibile nelle citazioni e nella loro tessitura, inteso a cogliere tutta l’umanità insita nel poeta ma anche nel contesto in cui egli si muoveva. I luoghi, i personaggi, i messaggi sono collegati con la naturalezza di chi ha frequentato a lungo paesaggi e pagine e appartengono ad un discorso coeso, multimediale  e tecnicamente strutturato con gusto e stile al punto che i singoli pannelli sono veri e propri quadri incorniciati con colori diversi di tema in tema e con rigoroso rapporto spaziale fra icone e “finestre” verbali. Si noti inoltre come l’insieme delle citazioni componga una tessitura di sottile filigrana letteraria, anche quando si fa riferimento a lettere o a brevi aneddoti.  Questi diversi materiali linguistici vengono appunto compattati in una narrazione iniziata e ripresa, sempre, da diverse angolature, ma collocate sul medesimo filo conduttore. Una sorta di recherche per avvicinarsi al personaggio ed a Sibilla Aleramo, anche lei assurta al mito e qui ricondotta ad una possibile dimensione storico-esistenziale attraverso la citazione di alcuni spunti documentari e letterari. Gli strumenti usati per decriptare il “mito” sono artigianali, nonostante l’ampia documentazione da cui è mossa l’analisi, e i risultati colpiscono l’immaginazione per la sintesi e la concretezza di una “narrazione” non romanzata. In conclusione, questa mostra ha il merito di tracciare i nessi di un percorso interpretativo che deve essere sviluppato in una ricerca in divenire sempre più plausibile e che prospetti l’uomo ed il poeta con onesto approfondimento di dati oggettivi.  

“E COSÌ DIMENTICAMMO LE ROSE” DI IVO MORINI

di Franco Manescalchi  

Ivo Morini, come poeta in proprio, propone il tema e l’esperienza dell’androgino platonico e del funambolo nietscheano e dunque risale alle premesse costitutive del decadentismo europeo che si sviluppò in Italia ai primi del Novecento attraverso la ricerca di D’Annunzio e di Dino Campana. Particolarmente, il grande Marradese entrò anche in merito alla entropia del significante costituendosi come modello primario per le successive elaborazioni creative e stilistiche. Per l’affinità concettuale che lo caratterizza, Ivo Morini ha deciso di approfondire lo studio della figura e dell’opera di Dino Campana. Dopo la Mostra documentaria (scritta e fotografica) ha ora messo in opera  questa pièce teatrale usando un’analoga metodologia, quella della catalogazione: ha studiato un ampio repertorio di  materiali bibliografici e ne ha ricavato poesie, frasi, dialogati, documenti epistolari ed altri materiali linguistici con cui ha infine costruito il mosaico di questa drammatizzazione. A differenza di altre opere teatrali su Campana, dove il personaggio viene presentato come un mito vivente perdendo così di credibilità, Morini cerca – ai limiti del possibile – di dare vita ad un copione dove Campana e la Aleramo, i due protagonisti di una storia d’amore brevissima e svoltasi al calor bianco di emozioni assolute, appaiono per quello che sono: un uomo appena trentenne ma già giunto alle soglie del silenzio dopo un percorso di irregolare alla bruciante ricerca dell’essere e del mito ed una donna straordinaria per quei tempi, capace di liberarsi dalle costrizioni sociali di donna e madre per avventurarsi nella ricerca di un sé individuale e storico che la vide intrecciare la propria sorte con alcuni dei maggiori poeti del suo tempo e, poi, del Novecento. Per Campana, per l’ultimo germano in Italia che sapeva di dovere, come Orfeo, versare il proprio sangue perché se ne coprissero gli assassini dalle vesti stracciate, fu un’esperienza illuminante ed insieme ustoria. A differenza degli altri amanti, da Giovanni Cena a Franco Matacotta, presso i quali Sibilla Aleramo visse la sua complessa vicenda dionisiaca ai limiti dell’edipismo e di emancipazione a metà, Dino Campana aprì tutto se stesso alla Dea, “più bella della bionda Cerere”, fino a giungere all’estrinsecazione della sua precaria sintesi barbarico-apollinea. Un rapporto assoluto, in cui mito e realtà, eros e memoria orfica si toccarono attivando una reazione catastrofica per Dino. Il testo di Ivo Morini riproduce, con attenta ed appassionata sintesi filologica, questo evento unico nella poesia del Novecento. A lui va il merito di avere ripreso il percorso di indagine dai documenti e dai luoghi reali di una storia vissuta sotto il crisma della poesia e proprio perciò rintracciabile nei materiali letterari ed epistolari che la resero visibile.

il cuore costante

A cura di Franco Manescalchi e Anna Ventura - Polistampa

Il cuore costante è un repertorio di poesia che ha lo scopo di documentare, per categorie storico geografiche, la persistenza di un’operazione letteraria che negli ultimi trentanni ha sostanziato il tessuto culturale del nostro paese. Più dichiaratamente si può affermare che esiste, a livello di pratica letteraria, una vasta presenza, attiva e fattiva, di operatori  che hanno dato vita a gruppi, riviste, iniziative editoriali o che – comunque- si sono fatti portatori di contributi critici rilevanti e rivelanti una produzione che altrimenti sarebbe rimasta sommersa. Ad integrazione, si devono ricordare altri operatori che hanno fatto una scelta di campo interpretando in modo incisivo e personale gli impulsi della realtà all’interno della quale si muovono. Certamente, la scelta e l’inclusione nel repertorio è per una  campionatura in cui agisce attivamente anche il gusto dei due curatori, in ogni caso sono state tenute presenti alcune premesse che è qui doveroso estrinsecare per l’intelligenza del lettore.

 1 – La riproposizione di Firenze come polo attivo intorno a cui rianimare un’attività promozionale ed editoriale già evidente in un passato anche non lontano e che ha le premesse nel gruppo di Quartiere (e la pubblicazione della precedente antologia – Nostos, in cui sono inclusi poeti fiorentini degli anni Novanta - vuole rappresentare una base per continuare l’operazione).

2 – Il recupero di una traccia storico geografica che tiene conto di tendenze volte all’elaborazione di un rapporto costruttivo fra tradizione e modernismo in  una mappa a macchia di leopardo che copre il territorio nazionale, dalla Sicilia al Trentino.

 3 – Una riproposizione in progress che prevede, con una serie di repertori, di offrire una sorta di ampio panorama  della poesia del secondo Novecento.   

Abbiamo perciò per prima cosa scelto, senza intenti selettivi ma solo esemplificativi, alcuni poeti di area fiorentino – toscana (Paola Lucarini Poggi, Walter Nesti, Franco Manescalchi, Alberta Bigagli, Pietro Civitareale, Rita Baldassarri), integrandoli con voci dal centro sud (Luigi Manzi,Carmelo Pirrera,Enrico Bagnato, Giuseppe Rosato, Anna Ventura, Giovanna Markus) e dal nord (Elio Andriuoli, Carla Mazzarello, Liana De Luca, Laura Pulin). Va da sé che alcune presenze sono ubiquabili: si vedano, ad esempio, Pietro Civitareale che ha conservato valenze originarie – abruzzesi – addirittura dialettali e Carla Mazzarello che tiene particolarmente alla sua fiorentinità. Si aggiunga che una comune connotazione, sia pure con diversa consistenza, sta nella civiltà della scrittura per cui in alcuni casi il senso della polis e della Storia è particolarmente spiccato, mentre in altri si caratterizza per l’uso di una lingua dove la divergenza espressiva coesiste comunque con una chiara denotazione. Un altro aspetto appena da accennare è che siamo di fronte a poeti con una configurazione definita e definitiva, ben noti – ognuno a suo modo - nel quadro letterario italiano e pubblicati all’estero, per cui, nelle biobibliografie, abbiamo eliminato ogni riferimento a premi letterari e traduzioni in altri paesi. Ma si può anche approfondire. Posta la comune perimetrazione in area globalmente modernista, si nota subito che Andriuoli, De Luca, Manescalchi, Pirrera, Rosato e Nesti lavorano da sempre intorno alla poetica dell’endecasillabo  dal suo plafond più cantabile e recitativo (Andriuoli e Pirrera), ad una paratassi prosodica (De Luca, Manescalchi), ad una strutturazione postendecasillabica (Rosato, Nesti). Per Ventura e Civitareale la scansione del discorso si fa più sintattica, sia pure nel compatto impianto di un testo “chiuso” a livello euritmico ed eufonico. A questo punto si può notare come si intreccino tendenze e linee derivanti da matrici diverse come la linea ligustica ed il postermetismo fiorentino, da un neoclassicismo postmoderno all’esperienza della poesia civile postbellica che trovò nel sud il suo epicentro nutrito tuttavia da linfe mediterranee e solari. Ma con questo repertorio abbiamo tentato anche di coprire lo spazio di una ricerca orfica, interna anch’essa alla nostra tradizione, e le presenze di Paola Lucarini Poggi, Alberta Bigagli, Giovanna Markus e Rita Baldassarri ne sono testimonianza. In concreto, ci muoviamo dalla poesia mistico-panica della Lucarini, così intrisa di linfe europee; alla notazione distonica del nostro essere tesi alla ricomposizione cosmica della Bigagli, che rimanda alla traccia di Dino Campana per la pulsione psichica da un lato e la scansione retorica dall’altro; mentre per  Giovanna Markus si può certamente parlare di una ricerca rastremata ai limiti del correlativo oggettivo, del silenzio delle metafore. Rita Baldassarri giunge all’estrema affabulazione con le cose, fino a mutuarle in linguaggio e ad affidare loro il largo respiro della poesia. Luigi Manzi e Carla Mazzarello portano ad ulteriori esiti questa ricerca, criptandola nella preziosa iconicità del significante, dove il tempo viene sospeso (Manzi) o vissuto nell’ossimoro morte-vita (Mazzarello). A Enrico Bagnato e Laura Pulin affidiamo il compito di rappresentare il modello in cui la lirica e l’elegia – misure totalizzanti e  di crisi della poesia moderna – cercano di uscire dal cerchio stregato delle verità particolari per tentare la ricomposizione globale del rapporto fra privato e pubblico con una scrittura esterna alla circolarità endecasillabica e più propensa alla naturalità epico lirica della versificazione naturale eliotiana. Un altro dato da segnalare è il valore assegnato alla presenza della figura femminile nelle opere qui incluse di Alberta Bigagli, Paola Lucarini Poggi, Franco Manescalchi, Giovanna Markus, Carla Mazzarello, Laura Pulin, Walter Nesti ed Anna Ventura. Né i testi degli altri autori sono esenti da riferimenti. Nella sostanza, la conferma che la donna ha segnato la storia del secondo Novecento propronendosi come protagonista cosciente del proprio riscatto e della propria specificità e la poesia è stato uno strumento essenziale per realizzare questo percorso. E qui ci fermiamo, per non oltrepassare la pulsione del cuore costante. In sintesi, lo scopo di questo lavoro è di documentare la coerenza di un impegno generazionale che ha sviluppato una scrittura non separata da verifiche storiche, sociali, culturali, letterarie, estetiche, interdisciplinari, per cogliere ed accogliere – infine -  i segni di una tradizione sempre aggiornata con innovazioni che partono ex imo da un percorso policentrico, da Firenze ad altre realtà nazionali e viceversa. Se è vero, infine, che il fiorire, oggi, di molte iniziative antologiche crea l’inevitabile insorgere di qualche sospetto circa il fine da raggiungere, o i criteri di scelta di opere e autori, è anche vero che alla base di esse – fatta eccezione per le operazioni brutalmente economiche, di cui non si vuole tener conto – c’è, comunque, una volontà di aggregazione e di confronto che è di per sé positiva. Meglio poi se l’iniziativa si inserisce in un programma di lavoro – ed è il caso della presente – che ha un passato e si proietta verso un futuro. L’opera, in tal senso, viene a collocarsi come il tassello di un mosaico più ampio, e può essere di qualche utilità in una realtà letteraria come quella dei nostri giorni, che, per un eccesso di frammentarietà e per certi sbarramenti invalicabili, rischia di mancare di agganci con il passato, di attenzione per il presente e di promesse per il futuro. In questo spirito di testimomianza dell’oggi, di rispetto per la tradizione e di proiezione verso il futuro nasce Il cuore costante, che anche nel titolo (un sostantivo e un aggettivo facile bersaglio di facili ironie) si rivolge a chi nella costanza e nel cuore delle lettere ha ancora il coraggio di credere.

I IL SEGNALIBRO

Rosa Berti Sabbieti – Mi ami troppo – Polistampa, Firenze

È romanzo tratta lo sviluppo di un rapporto affettivo fra una donna adulta ed (già il doppio titolo MI AMI TROPPO Mi ami troppo vuole indicare l'intrecciarsi dell’azione), Viene così costruito un percorso umano e culturale dalle reciproche interazioni ed i contributi affettivi ed intuitivi che la bambina porta sono contraccambiati da quelli etico – culturali della donna. Interessa che il rapporto nasca e si sviluppi in una scansione spazio temporale che rompe il piatto e freddo modo di rapportarsi nella società di oggi. Insomma, si passa dalla casualità alla causalità degli incontri e dunque i due soggetti divengono protagonisti di una scelta di vita che il coronamento luttuoso non annulla, ma trasforma bensì in una catastrofe-catarsi. Per precisare l' anello di questo doppio destino si apre in modo casuale, si concretizza con reciproca cognizione di causa di una scelta e si chiude con un evento che non può tuttavia cancellare il doppio percorso di vita costruito con un work in progress di sentimenti e di ragioni che, appunto, nascono da un sentimento di maternità e filialità ulteriore a certi atteggiamenti femministi del passato e capace di porsi in positivo in un contesto sociale arido e arduo. Il romanzo procede nella narrazione con una struttura dialogica, drammaturgia, quasi da  copione teatrale, e gradualmente introduce spaccati di discorso indiretto fino all'epilogo imprevisto, dal tono della cronaca asettica di questi  nostri tempi, temperato e rianimato da una sorta di respiro doloroso della comunità destinataria del messaggio. Per questi motivi ci troviamo di  fronte ad un  testo originale e che costruisce narrazione in itinere senza farsi invischiare da strutture narratologiche sentimentali o, all'opposto, sociologiche. In effetti si tratta di un dialogo dell’autrice protagonista con una figlia interiore, incontrata en plein air in un solstizio dell'anima. Due voci in una, il due nell'uno, il mistero stesso della vita e della morte.  

ROSA BERTI SABBIETI è nata a Camerino, vive a Macerata. Ha due lauree (Roma, La Sapienza); ex docente liceale; ha pubblicato tredici raccolte di liriche, quattro di racconti, due romanzi. Prefazioni di D. Valeri, E. Miscia, G. Bàrberi Squarotti, M. Petrucciani, A. Piromalli (in una antologia), P. Ruffilli, V. Esposito, S. Gros-Pietro; per la prosa: U. Bardi, G. Liuti, F. Ulivi, R. Pasanisi, V. Vettori. Presente in vari volumi di storia e della critica della letteratura. Presente in vari quotidiani, tra cui: «La Stampa», «Corriere della Sera», «L 'Osservatore Romano», «Il Mattino», «Il Gazzettino»,  «La voce Repubblicana»,  «Times di Filadelfia», «La Fiera Letteraria», «Forum Italicum», «La Follia», «ll Ponte Italo-Americano» (USA), «Le Livre Africain» (Cotonou), «Libertas» (Uruguay), «Poietike» (Brasile), «L' Arena» (Pola). Presente in antologie in Italia, Corinto, Atene, Lussemburgo, Ginevra, Canada, Corea. Tra i diplomi, uno da Madras (1989), uno dal Campidoglio (1998), uno da Cambridge (2000). Delle medaglie si ricordano quella dell'Università di Camerino e quella della Legion D'Oro. Dalla corrispondenza solo le firme di Quasimodo, già Premio Nobel, U. Betti, E. Cecchi, G. Debenedetti, L. Fiumi, V. Volpini, P. Volponi, M. Guidacci.

“Intanto Peppe si gustava una pastasciutta alle noci, di cui era ghiotto, con lo zucchero e si lasciava andare ai ricordi che, a casa sua di contadini, era il piatto ghiotto per la festa dei Santi e da piccolo era incaricato di rompere le noci con lo schiaccianoci, ma preferiva invece romperle con un grosso sasso sugli scalini, i tre scalini della porta esterna, perché stava vicino vicino ad una pianta di moscato francese, di cui era ghiottissimo, e come di noci fresche ne faceva una scorpacciata tale che a pranzo poi non aveva appetito e i suoi lo rimproveravano: certo non ti va giù più niente, troppe noci ti sei mangiate! Quelle noci che lui raccoglieva a terra una volta gli avevano provocato anche una colica gastrica ma erano le noci di Sorrento che aveva piantato il suo padrone, Antonio, buonanima, come lo chiamavano alla pari dei morti nell'usanza contadina, ma soprattutto perché era così buono che non andava a dividere i prodotti agricoli e diceva ai contadini: datemi quello che credete, mentre altri padroni, a quei tempi, dividevano tutto dopo averlo contato esattamente. Paola, invece, in quel silenzio della mensa pensava alla bellezza della statua della Madonna, si ricordava che era stata fatta, dopo l'incendio, col pregiato legno di cedro del Libano e ricordava i tre cedri che c' erano nella piazza del suo paese dove lei bambina si rincorreva con altri bambini facendo il girotondo…”

 

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Aggiornato il: 02 aprile 2001