LA PESCA A SAN BENEDETTO DEL TRONTO

Per quanto riguarda l’economia sambenedettese dobbiamo dire che essa si è sempre identificata con la pesca. Non siamo in grado di stabilire il momento di avvio della commercializzazione del pesce ma dobbiamo dire che dal 1700 in poi, con le immigrazione di famiglie già appartenenti al più generale contesto Adriatico, ha inizio un decisivo sviluppo dell’attività peschereccia sambenedettese.

E’ certo, comunque, che il normalizzarsi delle comunicazione, il loro rendersi sicure, favorisce la crescita di altre attività lavorative, quali quelle di Vetturini  e di Carrettieri con somaro, attraverso le quali si avvia un sistematico commercio che riguarda nello specifico tutto l’entroterra Piceno ed Umbro e più genericamente tutto lo Stato della Chiesa, con penetrazioni anche nel Regno di Napoli.

Subito dopo la metà del ‘700 a San Benedetto giungono alcune imbarcazioni denominate Paranze, di origine meridionali, le quali soppiantano gradualmente altri modelli di scafi pescherecci. Queste sono barche che viaggiano e pescano a coppia, più piccole degli ingombranti tartanoni pontifici e più efficaci e veloci dei bragozzi veneziani in uso sino ad allora.

Nel 1763 a S. Benedetto vi sono 12 tartane ma queste già sono scomparse dieci anni dopo e, sin cui si contano, proprio nel 1773, 20 paranze. Le paranze, come abbiamo detto, potevano pescare “soltanto a coppia” una tecnica che si realizza attraverso una rete tirata da due capi posti ciascuno di essi a poppa di una paranza.  Una prassi quanto mai redditizia, assistita dal sistema di riportare a terra il pescato con un’imbarcazione più piccola (un semplice battello che lo sbarzocco usava come vero e proprio collegamento con la paranza, utilizzato per trasportare il pesce a terra ma anche per il caricamento dei viveri), che consentiva alle barche più grandi di rimanere in campagna di pesca per più giorni.

Una vera e propria rivoluzione tecnologica che moltiplica il pescato, che apre orizzonti assai più vasti ai mercati, che incentiva l’applicazione di quanti hanno propensione per quelle attività e denaro da investire. Gli ampi spazi disponibili alla “Marina” invitano ad aprire cantieri, a costruire magazzini, ad avviare nuove imprese, ma ci sono altre condizioni incentivanti legate all’apertura dei mercati dell’Ascolano e transappeninici, resisi ormai più sicuri e più pervii ai coraggiosi commercianti che viaggiano con le ceste e gli asinelli. L’ottima posizione di S. Benedetto, comunque periferica dello Stato Pontificio, ma centrale rispetto a tutte le direzioni, allarga lo sguardo anche a sud, a ragione della contiguità col Regno di Napoli, pressochè priva di attività pescherecce in tutto il litorale Teramano, ove non esistono ostacoli sino a Giulianova. In quella direzione si verificheranno nostre emigrazioni, ma altrettanto importanti saranno più tardi quelle di ritorno dal sud, attraverso altri lidi, soprattutto Vasto, Ortona  Castellamare Adriatico (Pescara) e la stessa Giulianova.

Nel 1809 San Benedetto contava un numero complessivo di 200 tra marinai e pescatori, con 24 paranze e 13 battelli.

Ma la flottiglia peschereccia sambenedettese era però, in quei tempi, colpita da tre memorabili incursioni barbaresche, l’una del 4 giugno 1803, l’altra del luglio dell’anno successivo. Questo significò per la marineria locale la sottrazione di ben 90 persone d’equipaggio, nell’incursione del 1803, e 40 l’anno seguente, a cui si aggiunse quella del 29 maggio 1815 quando i barbareschi catturarono altri 38 sambenedettesi, procurando sgomento e collassi di tutta l’economia cittadina.

Quei marinai, paroni, sottoparoni e pescatori resi schiavi, vennero deportati ad Algeri e Tunisi e solo per intercessione del Governo inglese, nel 1816, la maggior parte di loro poté far ritorno a casa. 

Subito dopo la restaurazione lo Stato Pontificio effettuò un censimento generale della gente di mare, intendendovi i pescatori, marinai e naviganti nelle diverse categorie. Quindi nel 1823 gli iscritti con residenza S. Benedetto erano 413.

Tra il 1824 e il 1831 le imbarcazioni raggiunsero il numero di 60, mentre nel 1820 si contavano 12 paia di paranze, 4 bragozzi e 9 lancette.

 

Lancette in pesca

Dal censimento del 1861 sappiamo che nell’ambito marinaro, includendovi quindi tutte le attività che facevano capo o che sono correlate al mare, 18 erano i calafati, 19 i canapini, 26 i funari e cordari, 21 gli sciabicotti, 244 gli uomini indicati indifferentemente come marinaio, pescatore, navigante, 24 tra braccianti e facchini di marina, oltre alle donne con 103 tessitrici e 288 filatrici. 

La traballante economia sambenedettese fu di nuovo scossa profondamente in occasione di ondate coleriche, accese, a quanto sembra, proprio da marinai provenienti da altri porti. La prima, del 1831, non procurò molte vittime e solo intralci burocratici nel commercio del pesce e dei prodotti per la pesca, ma la seconda, che si manifestò nel 1854 con una forte recrudescenza nel 1855, ebbe a mietere quasi 400 vittime. Una terza giunse improvvisa nel 1886, in piena stagione balneare,  e vide 760 colpiti, con 194 decessi. 

Il XX secolo aveva aperto nuove speranze per chi, appartenente al contesto marinaro, necessitava di stabili guadagni o per lo meno nella speranza di questi. Molti erano i marinai che, imbarcandosi con la qualifica di fuochisti, su Piroscafi diretti nelle Americhe, o in terre decisamente lontane dal vecchio continente, riuscivano al loro ritorno con quel poco guadagno fatto, a mettersi in proprio, varando un’imbarcazione da pesca. La mancanza di un porto, però, implicava l’approdo sulla spiaggia aperta, con dispendi enormi di energie e di tempo per il varo in acqua e la rimessa a terra. Tale situazione perdurò sino a quando non si riuscì, intorno ai primi anni del secolo, a costruire due piccoli bracci (molo sud e molo nord) perpendicolari al litorale.

Il porto era l’orgoglio della città “marinara”: iniziato nel 1907, su una spiaggia aperta, nell’intento di creare uno specchio di mare tranquillo che potesse accogliere le barche da pesca. Il problema più grande del porto di allora, così come lo è oggi, era però l’insabbiamento. Per rimuovere questo inconveniente si utilizzò, e si utilizza ancora oggi una draga in modo da mantenere una profondità di 4 metri.

La San Benedetto marinara e peschereccia d’inizio secolo, era così descritta:

Non credo di esagerare scrivendo che la spiaggia di S. Benedetto del Tronto sia una delle più importanti per l’industria della pesca nella regione marchigiana non ostante che qui non si abbia né grande né piccolo porto, né ombra di canale nel mare profondo. eppure l’attività, l’energia di questi nostri pescatori ha fatto sì che senza capitali importanti, ma col soldo messo da parte giorno per giorno dagli stessi pescatori, si è costituita una flottiglia non disprezzabile di barche pescherecce. E se col risparmio dei pescatori isolatamente presi quest’industria nel nostro paese ha preso tanto sviluppo da potersi dire che la vera vita commerciale dipende dal mare, quanto maggiore non se ne avrà al sorgere di una società seria, che manifesti vero amore, sincero affetto a questa classe rozza sì, ma laboriosa, ma pacifica, ma quasi patriarcale? Per questa prima volta ci contentiamo di presentare la semplice statistica delle nostre barche da pesca.

Abbiamo 12 paia di barche chiamate Paranze a vela latina, con reti a strascico, dello spostamento da 20 a 30 tonnellate, ciascun paio condotto da 18 marinai con a capo il parone. Rimangono in mare per 8 ed anche 15 giorni scaricando il pesce nella nostra spiaggia oppure in Ancona, a Porto Recanati od a Porto S. Giorgio. Ciascun paio di paranze completamente arredato costa circa 20.000 lire.

Oltre alle paranze esistono 70 paia di Lance condotte da quattro o 6 persone per paia, a vela quadra con reti a strascico. Partono al mattino e tornano alla sera, rimanendo in mare alla notte soltanto nella buona stagione.

Abbiamo inoltre 37 piccole barche a vela quadra che non sono addette alla pesca colle reti, ma al trasporto del pesce, al rifornimento di viveri ed alla pesca delle seppie colle così dette nasse. Vi sono pure 6 barche chiamate sciabiche, senza vela, le quali quando il mare è calmo, sono adibite per la pesca con le reti tirate da terra. Abbiamo un totale di 207 galleggianti con un equipaggio di circa 700 uomini.

Vivono oltre a questi coll’industria della pesca più di 120 braccianti di marina, i quali sono addetti al ritiro delle barche grandi e piccole, più di 250 retaiole e più di 150 cordari. L’industria delle reti e delle funi ha una grande importanza per noi, non solo per il consumo locale, ma per l’esportazione che se ne fa per tutta la riviera ed anche all’estero. Il pesce della nostra spiaggia arriva alle principali città della nostra penisola, comprese Torino, Venezia, Napoli per opera dei nostri attivi rivenditori all’ingrosso, e nei paesi limitrofi, portatovi da più di 100 piccoli rivenditori.

La nostra popolazione di giorno in giorno cresce e molti sono costretti ad emigrare. Non abbiamo terra per occuparli perché il nostro territorio è ristrettissimo, ma abbiamo innanzi i nostri occhi un vasto e ricco mare, abbiamo marinai esperti e coraggiosi. 

La flottiglia peschereccia del 1907 era costituita da 150 barche a vela. Ma è necessario dire, per una maggiore comprensione numerica, che tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900 le emigrazione di barche e di uomini verso Viareggio, La Spezia, Bocca di Magra, Anzio, Zara, Fiume, Lussino, oltre ai parecchi naufragi avvenuti in seguito alle avverse condizioni meteorologiche, e la prima guerra mondiale, ridussero sensibilmente l’attività dei pescatori sambenedettesi. Altri sambenedettesi emigrarono nell’America latina a Buenos Aires e a Mar del Plata, e molti a Chicago Heights. Da quest’ultima tappa, quelli di estrazione marinara, seguendo come operai la costruzione della ferrovia, emigrarono successivamente verso l’ovest, verso il “mare” approdando dapprima a Connejsville sull’estuario del fiume Sacramento, poi a S. Diego in California. Qui, dopo una breve esperienza di pesca locale, si spinsero a pescare verso altri mari, giungendo persino a catturare il merluzzo in Alaska.


Produzione di funi e tele di canapa

Di queste massicce emigrazioni, ancora oggi, a Chicago Heights, San Diego, Mar del Plata e Viareggio esistono memorie presso le comunità di sambenedettesi che hanno mantenuto rapporti con la terra d’origine.

Per comprendere questo fenomeno di portata considerevole e rimanendo all’ambito italiano, diciamo che nella sola Viareggio, i discendenti dei sambenedettesi sono un quinto della popolazione, cioè a dire circa 15.000 individui. 

Comunque dopo una relativa crisi di inizio secolo dovuta ai diversi fattori sopra esposti, nel 1910 la gente di mare di S. Benedetto era così composta: 500 facchini di marina, 80 carpentieri e calafati, 600 funari o filatori di corde o spago, 300 operaie per la manifattura per le reti da pesca, 150  operai montatori e riparatori di reti, 30 operai per la tintura delle reti e delle vele, 100 facchini per lo scarico e carico merci. Tra il 1907 – 1911, risultavano esistenti in città 25 negozi di pesca all’ingrosso e 50 al minuto per un totale di 200 unità, 5 negozianti nel settore della salatura del pesce con 60 addetti.


Produzione di funi e tele di canapa

In quegli anni a San Benedetto, e precisamente nel maggio del 1912, scese in mare il “S. Marco” il primo battello peschereccio con motore ausiliario varato in Italia, su iniziativa di un sacerdote, Don Francesco Sciocchetti (nacque a Ripatransone 15 Settembre 1863 da Ferdinando, arrotino di professione, e dalla sambenedettese Teresa Badaloni appartenente ad una famiglia di pescatori. Mori a San Francisco, California, il 3 Maggio 1946, ove egli stesso emigrò per stare vicino ai suoi compaesani).
Nel 1921, S. Benedetto, mentre si lavorava ancora alla costruzione del porto, annoverava 53 coppie di lancette e 9 di paranze di 800 tonnellate complessive, equipaggiate da 730 uomini.


A completare il quadro, è d’obbligo ricordare che già dal 1921 S. Benedetto era il centro di una importante industria di funi e tele di canapa; vi si lavoravano annualmente 5.000 quintali di funi di cui 400 per il consumo in paese, il resto per esportazioni anche all’estero. Alla tessitura delle reti lavoravano in casa propria circa 400 donne e 100 nei laboratori. Cinquanta le donne addette alla tessitura delle vele e 50 alla loro cucitura.

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