Oltre il confine
rassegna stampa
Corriere delle Alpi
Domenica 28 ottobre 2001
Una
commedia per vivere
Nel debutto di venerdì a Castion successo
delle Pubbliche Bugie con «Oltre il confine»
LA PRIMA L'Olocausto sul filo dell'ironia
Lina Beltrame
BELLUNO. «Pubbliche Bugie», il nome della
compagnia teatrale di Castion, evoca l'intenzione di portare sul palcoscenico
storie di fantasia, storie che facciano sorridere. Ma il dramma "Oltre il
confine", che ha avuto il suo debutto venerdì scorso, ha consegnato agli
spettatori che riempivano la sala parrocchiale, un fardello di verità, di
emozioni e pensieri scottanti.
Guidato dall'abile regia di Paolo Martinazzo, che abitualmente lavora con i
Topi di Longarone, un gruppo di soli sette interpreti è riuscito a
materializzare per il pubblico e con il pubblico un libero adattamento del
film «Train de vie - Un treno per vivere», che Radu Mihailenau ha diretto
qualche anno fa (il lavoro sarà replicato fino a questa sera).
Non era un'operazione facile e il pubblico se n'è accorto subito, ma puntando
sulla recitazione, sulla gestualità, sul vorticoso movimento dei corpi, sul
veloce avvicendamento di elementi semplici ed essenziali (sei casse da imballo
formavano la scenografia), sul cambio di costumi e quindi di ruoli, i sette ci
sono riusciti con successo. A tutto questo ha contribuito il sapiente
artificio delle luci, guidato da Franco De Col, la musica evocativa di Goran
Bregovic e i rumori fuori scena.
Chiara Dal Pont, Elio Piasente, Emanuele Reolon, Francesca D'Incà, Igor Burlon,
Marco Corazza e Michela Da Rold hanno offerto una recitazione generosa, sempre
equilibrata nel rispetto dei ruoli, mai "sopra le righe", né prevaricante. Per
alcuni di loro era la prima esperienza teatrale, e non è stato un inizio da
poco.
Chi ha visto il film, ha ritrovato la storia in esso narrata, ma arricchita
dall'emozione e dalla comunicazione che da sempre il teatro trasmette, in modo
circolare, tra palcoscenico e platea.
«Era l'estate del 5701, cioè del 1941», così Schlomo, il matto del villaggio,
inizia la sua favola che affonda le radici nella storia drammaticamente vera
dell'Olocausto. Un villaggio intero si traveste da treno di deportati, in cui
alcuni recitano la parte delle perseguitate vittime ebraiche e altri quella
degli aguzzini nazisti. Per tutto lo spettacolo, la tragedia è tenuta a
distanza, indossando la veste leggera della commedia un po' satirica, un po'
ironica, grazie a quel tipico umorismo yiddish che Moni Ovadia ha insegnato a
gustare. Sembra di viaggiare all'interno dei villaggi e delle vicende
descritte nei racconti di Singer, Babel, Agnon, Hazaz...Basta un solo rabbino
a rappresentare il consiglio dei saggi, una donna per esprimere l'attaccamento
alla famiglia e ai figli, un finto nazista per darci l'immagine del rigore
tedesco che, passando per gli occhi giudei, viene quasi affettuosamente preso
in giro: «Si diventa tedesco per merito, non per nascita». Con delicatezza si
affrontano i problemi della nuova società, l'affermazione di una coscienza
individuale di fronte all'ideologia che minaccia di sopraffarla, il contrasto
tra l'incalzante paura e la paziente saggezza, il pericolo della pazzia
derivante dalla guerra, lo stereotipo dell'attaccamento al denaro, la
difficoltà di comprensione tra vecchie e nuove generazioni. Si va al di là di
quello che per secoli è stato l'interrogativo dell'intero popolo ebraico: «Che
cosa significa essere ebreo?», per porsi una domanda più universale: «Che cosa
significa essere uomo?»
Corriere delle Alpi
martedì 23 ottobre 2001
Soddisfatto il regista Paolo
Martinazzo: «E' il mio spettacolo più importante»
Un "Train de vie" a Castion
In scena venerdì il lavoro de
"Le pubbliche bugie"
Lina Beltrame
BELLUNO. "Oltre il confine" è il titolo della
commedia che debutterà venerdì sul palcoscenico della sala parrocchiale di
Castion. A portarla in scena è la compagnia "Le pubbliche bugie" che l'ha
realizzata (potremmo dire creata) partendo dalla scrittura del testo, dei
dialoghi, proseguendo con la sceneggiatura e la scenografia. Quando il gruppo
e il regista Paolo Martinazzo, dei "Topi" di Longarone, hanno dato forma
all'idea, si sono accorti di trovarsi di fronte a un progetto ambizioso e
coraggioso, in quanto della storia non esiste un testo teatrale. Si trattava
di trasferire sul palcoscenico il film di Radu Mihailenau, "Train de vie - un
treno per la vita".
«Considero questa la mia prima vera, importante regia», dice Martinazzo,
«perché mi ha impegnato non solo dal punto di vista tecnico, ma anche in
quello personale, con un percorso interiore che ha coinvolto anche gli attori.
La prima difficoltà che ho dovuto affrontare insieme con la Compagnia, è stata
quella di ridurre la marea di personaggi, situazioni e immagini che un film
può dare, a un contesto di soli sette attori, mantenendo, tuttavia, sul
palcoscenico, l'essenza della vicenda».
Vi siete attenuti, per quanto possibile, al copione del film?
«Non è stato esattamente così. Parliamo, per esempio, dei dialoghi. Abbiamo
dovuto rivederli tutti perchè si riferivano a centinaia di personaggi, molti
dei quali abbiamo eliminato. I dialoghi sono stati stravolti, per ricostruire
storie di pochi personaggi che ne rispecchiassero più di una, ma non solo,
abbiamo anche aggiunto qualcosa di nuovo, rielaborando situazioni che nel film
si presentavano con un loro vigore e che nello spettacolo assumono nuove e
significative energie».
Qual è il messaggio che vuol dare lo spettacolo teatrale?
«Fin da quando ho visto il film che mi aveva incantato, ero rimasto
profondamente colpito dal dramma dell'Olocausto, e da questo pensiero ne era
subito scaturito un altro. Nella storia (e non solo in quella del film), da
sempre si scontrano e sono in lotta tra loro forti ideologie ai quali gli
uomini sono abbarbicati con caparbietà. Alla fine scoppia il dramma della
guerra che, per usare le recenti parole del Papa, "porta con sé solo
distruzione e morte"; tutto avviene perché ognuno rimane fermo nelle proprie
posizioni».
«In questo momento», prosegue, «ritengo più che mai attuale chiederci quanto
sia importante schierarsi da una parte piuttosto che dall'altra, visto che
siamo tutti abitanti della stessa Terra. Questo è il punto attorno al quale ho
fatto ruotare lo spettacolo; mi auguro vivamente che lo spettatore riesca a
cogliere il messaggio e che alla fine il dubbio faccia scaturire degli
interrogativi, anche se è quasi impossibile trovare le risposte o le
soluzioni. Credo, tuttavia, che scavare in noi e porci delle domande, aiuti ad
affrontare la vita con lo spirito che questa richiede. E' lo stesso cammino
che abbiamo percorso noi: prima di pensare alla stesura del testo, ognuno ha
portato il contributo della propria storia interiore, a volte drammatica,
altre volte lieta, ma sempre costellata di perché. Ne abbiamo tratto
commozione o gioia, abbiamo accostato quei sentimenti alle emozioni trasmesse
dalle storie del film. E' stato un viaggio importante perché infine abbiamo
lavorato sulla consapevolezza e sull'autenticità».
Come avete risolto il problema della
scenografia?
«E' essenziale, ma restituisce, con adeguate
simbologie, treni che si materializzano, che partono, che si fermano, un
popolo che scappa inseguito dalla paura (in un film le riprendi, in un teatro
bisogna inventare qualcosa che richiami tutto questo). Un espediente teatrale
che metto in pratica volentieri (come negli Stracotti alla Locandiera) è
quello di condurre lo spettacolo in mezzo al pubblico, pubblico che non viene
usato, ma è dentro la scena. Non mi piace la divisione fra palcoscenico e
platea: a teatro l'emozione si deve propagare in tutte le direzioni e senza
confini».
A questo proposito va segnalato un limite della sala parrocchiale di Castion:
ci sono 140 posti a sedere e per esigenze di scenografia, non ne sono previsti
in più. Alla rappresentazione sono comunque riservate tre serate (da venerdì a
domenica). Gli organizzatori non possono assicurare un vero e proprio servizio
di prenotazione, però telefonando allo 0437 925066, è possibile dare la
propria adesione o chiedere informazioni.
IL GAZZETTINO
Giovedì, 18 Ottobre 2001
LA «PRIMA» Dopo un anno di lavoro va in
scena lo spettacolo «Train de vie», racconto-sogno della fuga rocambolesca di
un gruppo di ebrei
Il
treno per la vita delle Pubbliche Bugie
Il debutto a fine mese nella sala parrocchiale
di Castion. Gli attori: «E’ una storia che farà pensare»
A questo punto hanno deciso di uscire allo
scoperto. Dopo un anno e più di studio, di prove, di trascrizioni e
sistemazioni, le Pubbliche Bugie affrontano la ribalta, con un debutto che
durerà tre giorni.
Così «Train de vie», tratto dall'omonimo film
che qualche anno fa ha riempito le sale cinematografiche di mezzo mondo, andrà
in scena il 26, 27 e 28 ottobre a Castion, nella sala parrocchiale.
Interamente e completamente sceneggiato e prodotto dalla giovane compagnia che
lavora dal 1995, guidata alla regia, per l'occasione, da Paolo Martinazzo.
Chiara Dal Pont, Elio Piasente, Emanuele Reolon,
Francesca D'Incà, Igor Burlon, Marco Corazza e Michela Da Rold (con la
supervisione audio di Alessandro Rossi) faranno rivivere il treno per la vita
che, soprattutto di questi tempi, hanno deciso di fare partire.
«Ci è sembrato giusto uscire in questo, che è un
momento di crisi: il nostro "Train de vie" è stato soprattutto un sogno. Con
il quale speriamo di emozionare», dicono i giovani attori, giunti alla loro
quarta prova teatrale.
Avevano debuttato la prima volta nel 1996 con
«Due dozzine di rose scarlatte», per proseguire nel 1998 con «Quando il paese
a mezzogiorno sona» e fare un altro passo, per la regia di Milena Danieli, con
«Il rifugio» di Agatha Christie.
Ora «Train de vie» diventa la prima produzione
in tutto e per tutto originale, firmata dalle Pubbliche Bugie.
«Dopo tante ricerche in Internet, ci siamo
arresi - raccontano i provetti attori - Quando abbiamo iniziato questo lavoro,
non sapevamo che non esisteva nessuna sceneggiatura disponibile. Così ci siamo
trascritti tutto il film, battuta per battuta, e poi abbiamo iniziato un lungo
lavoro di pulitura e di arricchimento nei punti che avrebbero potuto essere
più deboli. Noi siamo soltanto in sette, per un film che ha impiegato
centinaia di comparse. Ma pensiamo di essere rimasti fedeli a quella che è la
storia».
Europa dell'Est, 1941. Per raggiungere la
salvezza un gruppo di ebrei decide di tentare il tutto per tutto. Si
spartiscono le parti: alcuni interpreteranno i deportati, altri le SS di
scorta al convoglio.
La prova, per le Pubbliche Bugie, è estremamente
impegnativa, ma il clima è pieno di entusiasmo. «Sappiamo che non è stata una
scelta facile, ma questo è un lavoro che è stato voluto, dall'inizio alla
fine. Forse, adesso, dopo quello che è successo nel mondo, farà pensare ancora
di più».
Michela Fregona
Corriere delle Alpi 09 settembre 01
COMPAGNIE BELLUNESI
Accanto alle Pubbliche Bugie
sul treno di una commedia per vivere
Il gruppo di Castion traduce a
teatro il film di Mihaileanu
BELLUNO. Ai ragazzi della compagnia bellunese Le
Pubbliche Bugie il film «Train de Vie» non era semplicemente piaciuto. Quando,
a uno a uno, l'hanno rivisto, se ne sono fatti un'idea precisa, l'idea di
"sfidare" la sceneggiatura in una traduzione per il teatro. «Azzardato» fin
che si vuole (e proprio «azzardato» è il termine che usa il regista-attore
Paolo Martinazzo), il lavoro è andato avanti e ha preso fiducia a forza di
prove, e ora programma il debutto entro la fine del mese prossimo.
«Dopo la pausa estiva, abbiamo ripreso la serie degli incontri settimanali
(lunedì e mercoledì) nella sede del gruppo a Castion», fa il punto Martinazzo,
«Ci sono molti aspetti tecnici da registrare, soluzioni di scenografia e
dettagli di costumi e interpretazione». Le musiche, infine, aspettano (da
Alessandro Rossi) il mix che incolli una serie di pezzi «in clima» con il
soggetto e con la colonna sonora calibrata su pellicola da Goran Bregovic.
Intanto, il progetto si è sbarazzato della patina da "salto nel vuoto" e alza
la testa fino ad osservare ormai i caratteri di stampa della locandina.
E pensare che non si era cominciato nemmeno con un copione. «Abbiamo scritto
le parti guardando il film di Radu Mihaileanu, ricopiandone in "presa diretta"
le battute (i dialoghi italiani vennero curati da Moni Ovadia, ndr)».
Martinazzo ritorna come davanti a una gran matassa di personaggi: «E noi siamo
in 8», fa l'appello, «e allora è stato necessario pure dare una sforbiciata
all'intreccio e alla sfilata del cast cinematografico».
«Train de Vie» (1998) è la fuga degli abitanti di una comunità ebraica,
perseguitati dai nazisti. Non si danno alla macchia, non scavano tunnel, ma in
piena luce del sole organizzano per finta la deportazione che devono
veramente, urgentemente scampare. La improvvisano su un treno, che perciò
dipinge il suo viaggio transeuropeo con il miraggio della sopravvivenza.
Guidati da un veggente matto (Shlomo), alcuni dei profughi indossano i gradi
militari delle SS di Hitler e imitano il tedesco come lasciapassare ai
controlli e sulle frontiere in guerra. Agli altri, restano i ruoli dei
prigionieri. Mica solo ebrei, ma anche comunisti, zingari, una specie di Arca
di Noé dei senza diritto di patria. E' una commedia, ma al buonumore viene
rifilata una bastonata sul naso con il finale che spegne in un lager la lunga
fatica teatral-esistenziale.
«La rivelazione shock è tutta concentrata negli ultimi fotogrammi del film»,
riprende Martinazzo, «Noi abbiamo invece pensato di inserire qua e là dei
flash, visioni che richiamano le immagini dell'olocausto e che immediatamente
non si spiegano, apparentemente si divincolano dalla narrazione, ma
nell'epilogo tornano a galla e ricompongono in un mosaico la vicenda e il suo
significato».
Qualcosa aleggerà sulla trama e renderà precario l'equilibrio del
divertimento. Sarà stato per il numero ridotto di interpreti o per il bisogno
di infilare un presentimento sotto la facciata grottesca, così le Pubbliche
Bugie hanno anche diluito il colorito carne ed ossa di Shlomo, che apparirà
piuttosto con lo spessore «di una presenza impalpabile, più un pensiero che un
uomo, un fantasma». La voce sragionante che dal mucchio del futuro pesca prima
il pericolo dello sterminio, quindi la rocambolesca architettura di salvezza e
poi la confessione allo scadere, quando nel mucchio ci sarà rimasto poco da
ramazzare e setacciare. Shlomo «è un arlecchino straccione», lo vede
Martinazzo, «un profeta terreno», spirituale e povero allo stesso tempo»,
onnisciente e impotente e in ogni caso strambo, un ibrido tra Puck e lo
spettro dell'Amleto. A proposito, ma i soliti classici dove sono andati a
nascondersi?
«Si dice teatro amatoriale», risponde il regista "in prestito" dal gruppo dei
Topi (Longarone), «e con la mente si va verso pièce di fattura semplice o
semplificata. Le ambizioni raggiungono qualche testo dialettale o si
aggrappano a un mostro sacro. Non che Shakespeare o Goldoni siano facili, ma
funzionano da garanzia: sono stati rifatti milioni di volte, ci puoi
aggiungere un'ennesima lettura e stai tranquillo di non poter "fare danno". Ti
offrono una "complessità protetta". In questo caso, abbiamo voluto cambiare
rotta: prendere di petto una storia scottante, intricata e affollata,
difficile da ricombinare in modo coerente, radicata in un tema delicato ed
enorme».
Rieccoci all'azzardo. Ma il repertorio di cultura ebraica nel bagaglio di «Train
de vie»?
«Gli aspetti storici e culturali al confine delle due metà del Novecento,
nell'Europa della Shoà, non sono stati approfonditi dietro le nostre quinte.
In effetti, ci siamo concentrati sulla possibilità di immedesimarci in
situazioni vissute da altri. Più che un allestimento filologico, sarà la
presentazione di un lavoro sulle emozioni».
Il film però si diverte con le differenza linguistiche tra tedesco e yiddish.
«Il tedesco, suggerisce un personaggio, è "l'yiddish senza l'ironia". Ok, ci
giocheremo su in tre scene, ma è stata un'altra la citazione-faro del nostro
progetto, l'interrogativo di Shlomo a due compagni di fuga che litigano per
delle sciocchezze. Li separa e domanda "Vi siete chiesti chi è l'uomo?". Il "Train
de vie" che metteremo su palcoscenico è un tentativo di affermare che non ci
sono differenze tra gli uomini, né di religione, né di lingua e nemmeno di
ideologia. I due contendenti divisi dal matto sono ebrei che si azzuffano su
cosa sia meglio tra ortodossia religiosa e comunismo, e avanti con i cavilli
legati ai distintivi ideologici...»
Mentre a un metro la storia insegue con la follia dei campi di
concentramento...
«Le ideologie sono il più grande male del mondo. Fanno perdere il contatto con
la realtà, portano ai deliri dell'olocausto. Invece, servirebbe l'umiltà di
guardare alle cose, che non sono scontate per il solo fatto di essere
essenziali. Appunto: "Chi è l'uomo?"» |