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DIBATTITO
In questa pagina pubblichiamo gli interventi e i contributi di compagne e compagni che desiderino commentare o esprimere la propria opinione su questioni nazionali o locali


Interventi

La nuova "impresa" del Cavaliere (Filomena Pavese)
Sui referendum del 15 e 16 giugno (Filippo Mazzoni)
Il referendum: l'unità e la radicalità (Giuliano Ciampolini)
Note sul post-referendum (Ivano Bechini)

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La nuova "impresa" del Cavaliere [Su]

Come premessa ringrazio "Rifondazione" se riterrà opportuno pubblicare questa lettera. Non sono impegnata in politica, né userò il "politichese", per quello già ci pensano, ovviamente, certi vecchi politici, (anche se oggigiorno c’è molto da diffidare fra chi invece è rimasto in auge perché fa politica e si vanta di non usarlo) vorrei solamente esprimermi con semplicità, perché ritengo la semplicità una virtù. Essere cittadini italiani oggi non è affatto rassicurante. . Fra gli attuali governanti mi sembra prevalere l’inadeguatezza all’alto e delicato compito, una incapacità che non di rado risalta a tutto tondo se la paragoniamo all’opera degli artefici della nostra Repubblica e della nostra Costituzione. Il mio sdegno verso l’operato ed il comportamento dei nostri attuali governanti mi sconvolge soprattutto per il pessimo esempio che offrono alle più giovani generazioni, cioè al nostro futuro. E non ci lamentiamo, con la solita tiritera dei sociologi d’accatto, che i giovani non hanno più alti ideali! Manca preparazione, lungimiranza e saggezza e la gente se ne accorge, eccome! Promesse non mantenute, impegni solennemente presi davanti alle telecamere (e persino firmati) disinvoltamente disattesi e nascosti dietro grosse ed inconsistenti vendite di fumo.

Vedo che tanti di quegli onesti e fiduciosi lavoratori che recentemente avevano dato credito ad una compagine governativa, che a me e molti altri già prima del suo esordio appariva inadeguata, oggi si sentono defraudati ed insicuri nel presente e nel futuro. Sempre più incessanti acrobazie economiche occorrono per far quadrare i bilanci familiari ed a fronte di questi disagi, la sera, mettendosi davanti alla televisione, anche questi cittadini, già "fiduciosi", non possono esimersi, insieme a noi, dal fare il confronto fra le loro incombenti difficoltà quotidiane e le ostentazioni quasi arroganti di sfarzo e ricchezza di coloro ai quali avevano dato credito e che continuamente, con un sorriso che sa di beffardo, sfoggiano il superfluo: dagli yacht, alle ville, agli orti botanici e quant’altro! (Come mai non esibiscono più i sondaggi come erano soliti fare?). Tantissimi hanno tratto soprattutto la penosa impressione di gente che è stata brava nel mettere in mostra i propri privilegi e che ha rivelato soprattutto una indubbia capacità nel saperli tenacemente difendere, a volte anche in barba alle leggi finora vigenti, ma a fronte di questo, sono venuti esili, se non nulli, segnali di attitudine a gestire la cosa pubblica. Grazie a Dio molti di questi cittadini ed elettori onesti, già confidenti in chi, alla prova dei fatti, appare oggi evidente che non se lo è meritato, sentono ora il bisogno di voltar pagina, di respirare aria nuova.

Come giudicare chi, nell’urgenza di "far cassa", non ha trovato di meglio che "riformare" (leggi tagliare) le pensioni esibendo per questo un gran coraggio per aver messo un punto sulla situazione: "chi ha avuto, ha avuto, chi ha dato ha dato" Si è sostanzialmente voluta creare una divisione fra i lavoratori "privilegiati" (si fa per dire, visto l’importo medio delle pensioni e il costo della vita in crescita) fino al 2008 e "malcapitati", cioè tutti gli altri "segnati" dal fatidico post-2008. Anzi si è cercato di mettere i primi contro i secondi, che reclamando i loro diritti e la stessa parità di trattamento che loro deriva dall’aver pagato i contributi e dall’essere stati assunti alle stesse condizioni, metterebbero in forse le pensioni dei cosiddetti "privilegiati". Perché i lavoratori "malcapitati" che andranno in pensione (ma ci andranno?) dopo il 2008, dovranno pagare il malcostume di tanti anni di favori in disinvolte concessioni televisive e di sprechi in precoci "pensioni baby", intoccabili "pensioni d’oro" e frequenti condoni per i "furbi"? La riforma era stata già fatta, andava proprio rifatta? E in questa forma? Sono queste le coraggiose "discese di campo" da mostrare agli italiani, oppure sono soltanto utili (per chi le compie) ed ingiuste (per che le subisce) prevaricazioni? Hanno dimostrato di non saper far quadrare i bilanci e, usando anche i comodi ritornelli dei deficit pregressi e dell’adeguamento agli standard europei (che viene tirato fuori solo quando serve ad aumentare i costi ed i disagi per il cittadino italiano), cercano semplicemente la strada oggi più sicura per "far cassa"! Ma sarà poi vero, come ci dicono, che facendo lavorare tantissimi, arrancando, fino ad una penosa ed incerta maturità, i giovani troveranno nel futuro più facilmente lavoro? Oppure, e forse basta il buonsenso per capirlo, non si finirà per aumentare la disoccupazione giovanile?

Vedremo. Ancora è il popolo che consegna il potere politico e che, all’occorrenza, saprà anche toglierlo!

10 ottobre 2003

Filomena Pavese
Pistoia


Sui referendum del 15 e 16 giugno [Su]

Ho avuto modo di ascoltare con vivo interesse il dibattito che si è sviluppato sia tra i compagni ma anche all'interno del coordinamento dei circoli comunali della nostra federazione circa l'esito della consultazione referendaria del 15 e 16 Giugno u.s.

Ebbene, senza ombra di dubbio condivido la scelta fatta a suo tempo dal partito, poiché ritengo che questo strumento rappresenti una sorta di tutela delle minoranze con cui si può fare ricorso per chiedere alla cittadinanza di intervenire nel tessuto legislativo al di fuori dei canali istituzionali che noi tutti conosciamo.

Siamo consapevoli che l'istituto referendario sia stato utilizzato, diversamente da quanto accaduto negli anni settanta, in maniera distorta ed inflazionata nel corso di questi ultimi anni anche per ottenere riforme di importanti settori fondamentali del nostro sistema politico e pertanto tutto ciò è da annoverare tra le cause che hanno contribuito a far fallire la consultazione del 15 giugno. Pertanto è quantomeno necessario un profondo ripensamento dell'istituto in oggetto per non perdere le finalità per cui è stato previsto dal dettato costituzionale.

Decisivo si è rivelato anche il silenzio e il disinteresse dei mass - media, in particolare del mezzo televisivo e conseguentemente della stessa TV pubblica che ha mandato in onda, più di una volta le tribune referendarie in fasce orarie improponibili e con audience scarsissima se non nulla e che hanno ulteriormente contribuito dall'allontanare il cittadino elettore dall'assumere, attraverso il referendum, una presa di posizione su un argomento di così vitale importanza.

Ancor più determinante si è rivelata la scelta di quasi tutto lo schieramento di centro - sinistra di invitare il corpo elettorale a non recarsi alle urne, scelta, peraltro non presa alla lettera da una buona percentuale di tradizionali elettori DS che hanno ritenuto utilizzare questo sacrosanto diritto ed esprimere il proprio voto favorevole per l'estensione dell'articolo diciotto.

Nonostante le ombre è opportuno evidenziare gli aspetti positivi, peraltro in numero esiguo, della scelta referendaria:
1) Attraverso essa siamo stati capaci di creare delle contraddizioni all'interno dei DS
2) Siamo riusciti a coagulare un variegato schieramento di forze politiche, sindacali e dell'associazionismo;
3) Undici milioni di italiani hanno compreso il significato della nostra proposta;

Non possiamo ritenerci soddisfatti, il partito e i lavoratori escono sconfitti, e certamente dovremmo attraversare un periodo difficile, poiché il governo proseguirà nel suo attacco al mondo del lavoro, avviatosi con il Patto per l'Italia e proseguito con i disegni di legge 848 e 848 - bis che renderanno ancor più precarie e fortemente instabili le condizioni di migliaia di lavoratori e lavoratrici, inoltre nei prossimi mesi si accentueranno quelle politiche di distruzione del Welfare State, cominciato con la Riforma Moratti e che proseguirà inevitabilmente con la controriforma delle pensioni e con ulteriori tagli che molto probabilmente saranno contenuti nella prossima legge finanziaria, e già anticipate da alcuni autorevoli quotidiani nazionali es. taglio delle pensioni di invalidità per poi estendersi alla sanità ecc.

Di fronte allo scenario sin qui descritto il Partito della Rifondazione Comunista dovrà ripartire dalla condizione del lavoro ed in ciò ci vengono in soccorso due inchieste, allegate ad un interessantissimo documento che nei giorni scorsi ho ricevuto tramite e- mail dal segretario provinciale ed in cui si mette in luce come il nostro costo del lavoro presenti un tasso nettamente inferiore rispetto a paesi quali Spagna, Grecia e Portogallo. Tutto ciò sta a significare che le imprese e gli imprenditori si qualificano per una politica di progressiva diminuzione del costo del lavoro e relativa compromissione dei diritti dei lavoratori.

Altrettanto significativi ed "inquietanti" i dati riferiti alla nostra provincia ed in particolare laddove si evidenzia che l'11% dei lavoratori occupati in Pistoia e provincia sono assunti con contratti di collaborazione coordinata e continuativa.

1 luglio 2003

Filippo Mazzoni
CPP, Presidente Circ. 1 Pistoia


Il referendum: l'unità e la radicalità [Su]

All'accusa rivolta da Riccardo Barenghi ai promotori del referendum sull'art.18 "di non aver pensato prima che un esito del genere era altamente probabile", viene risposto con altrettanta stizza "dovevi dirlo prima": come operaio tessile iscritto alla Cgil e a Rifondazione comunista devo "confessare" che ho firmato per i referendum proposti solo dopo che ho letto che le 500mila firme erano state superate e, a quel punto, ho detto "meglio una in più", altrimenti non avrei firmato proprio perché pensavo che l'esito era assai prevedibile.

In un paese in cui un terzo non vota mai (per varie ragioni) e un terzo è composto da lavoratori autonomi e piccoli imprenditori, non era difficile prevedere la sconfitta: non si può scadere nel patetico attribuendo la responsabilità al governo, ai "suoi" massmedia, alla Confindustria e a tutte le organizzazioni dei lavoratori autonomi e degli imprenditori di aver scelto la linea dell'astensione ed era assai difficile prevedere un pronunciamento diverso di forze politiche come i D.S. e la Margherita che hanno un significativo consenso elettorale "interclassista" e, di conseguenza, evitano di assumere posizioni conflittuali tra lavoro dipendente e lavoro autonomo (a questo proposito penso di non essere smentito dicendo che anche la stragrande maggioranza dei pochi artigiani e commercianti che votano per Rifondazione, sul referendum hanno scelto anch'essi di non partecipare al voto).

Non si può neanche scadere nel ridicolo, dicendo che 11 milioni di persone hanno "sfidato la data catastrofica ed il caldo torrido", appunto perché "è più facile andare a votare che fare 8 ore di sciopero"; e come è possibile sostenere seriamente che "il referendum ha determinato più risultati positivi che negativi", che "era necessario uscire da una logica difensiva" e che "la scelta del referendum è stata giusta come tentativo di reinventare le forme di lotta e la loro efficacia", come se questi propositi siano acquisiti anche con una pesante sconfitta.

Chi non condivideva la proposta referendaria doveva dirlo prima e pubblicamente, cioè doveva dirlo nel corso di un confronto in cui era necessario utilizzare al meglio tutte le energie per cercare di ridurre le dimensioni di una sconfitta più che prevedibile ?

Anch'io, come Barenghi e il manifesto, ho fatto come la Cgil, ho scelto di impegnarmi, ho fatto volantinaggi, ho portato materiale d'informazione della Cgil in almeno mille famiglie, ecc.: se la conseguenza di questo impegno deve essere la rinuncia a dire con franchezza le ragioni di un dissenso, sarebbe veramente assurdo, anche perché in quei 10 milioni di SI molti sono quelli che hanno fatto questa scelta condividendo le ragioni proposte dalla Cgil, cioè per tenere aperta una prospettiva di estensione dei diritti e delle riforme.

Giorgio Cremaschi ha proposto di "discutere seriamente di noi stessi senza sbranarci" ed allora penso sia legittima anche l'opinione di chi pensa che, se vogliamo dare uno sbocco politico al grande movimento di lotta che si è espresso a Genova e poi il 23 marzo a Roma, negli scioperi generali, il 14 settembre di nuovo a Roma, al Social Forum europeo a Firenze e poi nelle mille forme in cui si è articolata una vastissima partecipazione al movimento contro la guerra preventiva, non esistono scorciatoie referendarie, è indispensabile costruire una nuova coalizione democratica che si proponga di sconfiggere il governo Berlusconi, proponendo un programma anche moderato, ma che vada in direzione opposta a quella voluta dal neoliberismo: se "il centro dello scontro è la natura della società che le destre propongono", anche un programma moderato può indicare un percorso verso una società diversa, con al centro non i profitti e gli egoismi individuali, ma i diritti, la pace, la sostenibilità ambientale e quindi il bene comune.

Dice Fausto Bertinotti: "dobbiamo raccogliere la domanda di unità e di radicalità che ci viene dai movimenti e, su questa base (facendo pesare tutta la massa critica dell'insieme dei soggetti sociali, sindacali e di movimento che si sono incontrati e hanno intrecciato relazioni) guadagnare un accordo programmatico e di profilo".

Sono convinto da tempo che una vasta partecipazione popolare alla ricostruzione di una stagione di ricostruzione delle speranze di cambiamento della società, dipende in gran parte proprio dalla credibilità di una proposta e di una prospettiva politica unitaria, ma penso che questo è possibile solo chiarendo cosa significa concretamente "radicalità": se significa, come è scritto sul vocabolario, "risolvere una questione senza compromessi", cioè "escludendo soluzioni parziali o di compromesso", allora penso che sia, di fatto, impossibile ricostruire le ragioni per una nuova prospettiva politica unitaria.

Alcuni esempi per chiarire cosa intendo: se radicalità significa impegnarsi al rispetto dell'art. 11 della Costituzione, alla riduzione delle spese militari e del commercio delle armi, penso sia giusto essere intransigenti; ma se significa pretendere che siano chiuse in tempi brevi le basi Usa e Nato in Italia, non credo sia possibile fare un accordo con l'Ulivo. Se radicalità significa impegnarsi all'estensione dei diritti, alla lotta alla precarietà ed al lavoro nero (di dimensioni vastissime e di cui, anche a sinistra, quasi nessuno propone iniziative che siano davvero efficaci per ridurlo), non sarà facile trovare un accordo, ma dobbiamo insistere facendo proprie le proposte di legge su cui la Cgil ha raccolto oltre 5 milioni di firme; ma se significa estensione dell'art.18 anche sotto 16 dipendenti e salario sociale di un milione al mese per i disoccupati, non credo sia possibile trovare un accordo con l'Ulivo. Se radicalità significa proporre una riduzione graduale degli orari di lavoro di fatto e un aumento graduale dei salari, almeno al passo con l'inflazione reale, penso sia giusto e possibile; ma se vogliamo subito le 35 ore, o aumenti salariali di mezzo milione (come propongono i Cobas), allora temo che i primi a non capirci, nel senso che non ritengono siano obbiettivi concreti e realizzabili in tempi brevi, saranno proprio la stragrande maggioranza degli operai che, per esperienza vissuta, sono capaci di fare i conti con la realtà. Se radicalità significa proporre stili di vita, produzioni e consumi diversi, riduzione dei consumi individuali e aumento delle risorse pubbliche verso la crescita dei servizi sociali e collettivi, rifiuto di uno sviluppo quantitativo che devasta l'equilibrio ecologico, ecc. tutto questo deve tradursi in obbiettivi programmatici concreti, tenendo conto che devono essere sostenuti da una grandissimo impegno culturale e di cambiamento dei valori e degli stili di vita di milioni di persone che oggi concepiscono il "benessere" solo in termini di consumismo individuale.

Insomma, se radicalità significa proporre a tutti di condividere utopie e proposte velleitarie, penso che questa pretesa provocherà sicuramente divisione, perché la politica ha bisogno certo di ideali, ma anche di programmi a breve e medio termine, su cui costruire il consenso e la partecipazione popolare, che facciano fare passi concreti in direzione degli ideali, come indica anche la speranza di cambiamento che ha portato alla vittoria di Lula in Brasile.

22 giugno 2003

Giuliano Ciampolini
Agliana


Note sul post-referendum [Su]


Con il 25% nazionale e il 32% provinciale abbiamo perso sui quesiti e su questo non ci sono dubbi. E' vero che il boicottaggio dei media, l'invito all'astensione da parte del 90% delle forze politiche, l'assoluta sproporzione tra i NOSTRI mezzi e quelli degli altri hanno avuto un ruolo enorme; è anche vero che tutti sapevamo benissimo che non avremmo raggiunto il quorum e che speravamo di arrivare tra il 35% (i pessimisti) e il 40-42% (gli ottimisti) per poi poter affermare che il mondo del lavoro dipendente aveva capito e che la dicotomia tra società civile e politica si era riaffermata in qualche modo. Non è andata così. Perché:
1- Non siamo riusciti a far diventare patrimonio comune - della gente intesa in senso largo - una cosa che è semplice ma che implica fatica per essere accettata dopo vent'anni di liberismo: il diritto ad essere trattati come detentori di diritti e doveri;
2- Non abbiamo lavorato su un'idea di blocco sociale (quanti "autonomi" si riconoscono nel valore del lavoro in senso lato e del ruolo di classe dei lavoratori dipendenti? Non ci abbiamo neanche provato a confrontarci con le organizzazioni di categoria tipo CNA, Confesercenti, ecc.);
3- Abbiamo peccato di avanguardismo (non scherziamo, è stata anche una scommessa azzardata e persa quella di pensare di trascinarci dietro l'Ulivo e i riformisti);
4- Non abbiamo la capacità di "percepire" i muti messaggi popolari, viste le aspettative che avevamo fino a domenica stessa e la loro distanza dai risultati, nonostante piazze semivuote, assemblee disertate dagli "altri" e - oggi è ben chiaro - solitudine politica (a parte quegli scherzi di partito che a Pistoia sono Verdi e PdCi che infatti si sono ben guardati dallo spendersi seriamente) e quindi non riusciamo a capire il "clima";

E ora? Ora ci troviamo a gestire un'altra sconfitta, non particolarmente grave per il Partito quanto per la CGIL (ora sì, veramente isolata e voglio vedere che contratti si firmeranno) che rimane spiazzata dalle scelte dei DS (che hanno "vinto" apparentemente stando in panchina ma che dovranno spiegare alla maggioranza dei loro elettori e militanti - che hanno votato SI - perché rinunciano ad un cordone ombelicale come la CGIL rischiando di darla in pasto a noi - rischio minimo vista la nostra strutturale incapacità di provarci - o, peggio ancora, di dichiarare anche formalmente finito il tempo del movimento operaio come punto di riferimento generale) e dall'opportunismo cofferatiano (per il quale è meglio non spendere parole). Gli extraconfederali a Pistoia non mi sembrano un serio problema.

Noi dovremo stare attenti a varie reazioni: quelli incazzati che rafforzeranno forme di settarismo e autoisolamento anche sociale (cioè di comunicazione con i cittadini "che non capiscono niente, visto che non hanno capito il senso di questo referendum"), quelli che hanno il problema del proprio ruolo come ceto politico e che premeranno per un accordo alle prossime elezioni "sia quel che sia", quelli delusi che coglieranno l'occasione per annunciare che hanno bisogno di tempo per riflettere e andranno a casa, quelli per i quali il congresso non è ancora finito e riapriranno conflittualità di linea, le reazioni esterne che - anche e forse soprattutto per sparare sulla CGIL locale e tenerli al palo - ci chiederanno a noi abiure e anche altro.

E' arrivato anche il momento di riflettere sulla nostra testardaggine nel voler insistere ad usare mezzi e sistemi che oggettivamente non raggiungono più né il cuore né altro dei cittadini; non nascondiamoci dietro la effettiva povertà finanziaria: è anche un problema di nostra cultura di comunicazione; dovremmo cominciare seriamente a impostare un modo diverso di comunicazione.

Una proposta immediata: provare ad aprire una riflessione "aperta e collettiva", cioè con Comitato x il Si e la CGIL, in tempi rapidi a Pistoia e - magari usando lo spazio di una ns. festa - un attivo provinciale del partito.

Una proposta meno immediata: e se provassimo a fare una vera campagna di inchiesta operaia e di lavoro autonomo su condizioni di lavoro e aspettative? Giusto per rientrare in contatto con almeno pezzi del ns. riferimento storico...

17 giugno 2003

Ivano Bechini
Segreteria Provinciale Prc


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