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CAPITOLO VII



Briganti e viaggiatori



16 Agosto 1843 - Edward Lear


Il 16 agosto del 1843 un viaggiatore inglese di nome Edward Lear, famoso in Abruzzo per le stampe che ha lasciato rappresentanti molti dei paesi abruzzesi di quel periodo, partì a cavallo da Antrodoco alla volta di Tagliacozzo e a metà del viaggio, fece tappa a S. Anatolia dove fu accolto dalla famiglia Placidi. Qui di seguito riporterò le memorie di questo viaggio, scritte di suo pugno, che non mi sento di riassumere poiché molto leggere, scorrevoli e curiose:

15 Agosto 1843 ... Dopo il pasto di mezzogiorno, che fu abbastanza allegro, a casa Todeschini, sonno e musica riempirono le ore fino a che fu tempo di ricominciare a disegnare. L’immobilità di un centro italiano in queste ore è impressionante. Tre o quattro bambini giocano con una mansueta pecorella sotto la mia finestra, facendo centinaia di graziosi gruppi e figure; le due vedove canticchiano debolmente al suono della chitarra; tutto il resto di Antrodoco sembra sprofondato nel sonno. Verso sera la magnificenza del passo, che è sopra il paese, è maggiore; tranne che nelle opere di Tiziano o Giorgione, raramente si possono vedere tali sfumature di rosso purpureo, azzurro e oro, come quelle che rivestono queste alte colline in un tramonto italiano.

Decisi di andare l’indomani col seguito dell’Intendente a Tagliacozzo (sebbene la mia prima intenzione fosse stata di tornare ad Aquila) poiché pensai che, con questo programma, avrei potuto vedere molto più persone. Così mi congedai dal barone Caccianini e, dopo aver pagato per il mio alloggio da Bagnante, mi ritirai a riposare; ma per metà della nottata fui svegliato ogni quarto d’ora dalla domanda: Eccellenza, a che ora vuole alzarsi ? di uno scocciatore, un vecchio domestico del Segretario, le cui ossequiose attenzioni mi avevano soffocato durante tutto il soggiorno. Permettete! Scusate! Eccellenza! erano continuamente sulla sua bocca; ma non ti rendeva alcun servizio.

16 agosto 1843. - Poiché s’era stabilito di partire un’ora prima del sorgere del sole, ci adunammo nel luogo del mercato all’ora fissata; ciononostante, due ore dopo che il sole s’era levato completamente, non eravamo ancora pronti. Grande era il fracasso nella stretta via dove l’Intendente era alloggiato: la sistemazione del suo bagaglio, il continuo rabbonire o minacciare muli testardi e cavalli nervosi, la raccolta di tutto il seguito di domestici di Sua Eccellenza, il caffè tutti insieme all’ultimo momento e gli interminabili addii degli spettatori Antrodochesi.

Quante selle si dovettero poi invertire, ponendole nel giusto verso sulla groppa di chi le portava! Quanta corda fu necessaria per fissare le parti malferme del bagaglio! E quante volte tutti i cavalli, i muli, gli asini, le valigie, gli staffieri, le guide, gli spettatori furono coinvolti nella più selvaggia baraonda dall’improvvisa impennata di uno o due quadrupedi imbizzarriti! Questi sono fatti che possono essere capiti solo da chi ha soggiornato in Italia. Alla fine fummo pronti: il Segretario e il Giudice su muli dall’aspetto molto trasandato; il cuoco e tutti i familiari di sesso maschile, con l’elaboratissimo accompagnamento di cibo e di utensili, su cavalcature di ogni genere; il Maestro di cavalleria con uno staffiere in sella, che conduceva il cavallo grigio del Principe Giardinelli, e altri due su piccole bestie tanto brutte quanto indemoniate (senza coda e con occhi un bel po’ fuori dalle orbite), nobilitate col nome di cavallini della Pomerania e riservati a Donna Caterina. Quanto a me, avevo un cavallo nero molto decoroso, con una sella scomodissima, le cui staffe cedettero nel giro di un quarto d’ora, rotolando senza speranza giù in un burrone. Dietro venivano i gend’armes con le guide e i muli col bagaglio. Una cavalcata molto pittoresca la nostra, sebbene l’equipaggiamento mancasse di quella necessaria dignità, che è lecito aspettarsi dal seguito di un governatore.

Procedemmo lentamente a zig-zag, su verso il passo, fino a Rocca di Corno, dove ci fermammo per circa un’ora (ma per quale scopo, non ebbi la più pallida idea); in seguito, dopo aver proseguito per due o tre miglia sulla via per Aquila, piegammo su una mulattiera che conduceva a destra. Nell’ultima parte del nostro cammino avevamo variato il lento incedere del nostro viaggio con il trotto o il piccolo galoppo su una buona via maestra; ma, come cominciammo a scalare un’aspra e ripida montagna, pian piano ci rimettemmo in fila al passo, ad eccezione di quei maledetti cavallini Pomerani, che erano particolarmente svelti sia nello scalare i sentieri rocciosi che a tirare calci a profusione verso tutti quelli che sorpassavano. Ci sorbimmo un po’ dell’accecante caldura del giorno per conquistare faticosamente questa montagna e, quando ci riuscimmo (ad eccezione di una fugace apparizione della catena del Gran Sasso, simile ad una muraglia), non ci fu niente che ci ripagasse della nostra sfacchinata: una lunga e monotona distesa di terreno irregolare, e nessun luogo attraente degno di ricordo. A mezzogiorno ci fermammo per il riposo e il pasto in una tenuta (cioè riparo per il bestiame) in rovina.

C’è sempre da divertirsi molto in un’eccitante e disordinata spedizione di questo tipo. L’eccellente montone freddo, il pane e gli agli non furono certo meno buoni per il fatto che li mangiavamo sul piano di un barile e seduti sul tronco di un albero. Il nostro vino, ahimè!, era quell’infame vino cotto, allo stesso tempo disgustoso e malsano; infatti, per poco che ne bevvi, dal momento che non c’era acqua, la pagai cara con un bel mal di testa. Ripartimmo nel pomeriggio, mentre la maggior parte della compagnia si lamentava amaramente per la fatica e non partecipava minimamente al mio entusiasmo per la bellezza delle vedute, che, scendendo, si aprivano su pianure dorate, racchiuse tra meravigliosi boschi di querce, che si stendevano da ogni lato ai piedi delle magnifiche montagne Marsicane; eravamo infatti entrati nell’antico territorio dei Marsi.

La nostra via si snodava attraverso uno di questi boschi sotto il caratteristico paese di Corbara del Conte; lasciando a distanza, alla nostra destra, Torano, le cui torri risplendevano al tramontare del sole, ci dirigemmo verso Sant’Anatolia, un paesino che si presentava pulito, dove dovevamo passare la notte. Tutta questa parte degli Abruzzi abbonda di antichissime vestigia, e gli studiosi fissano in queste valli l’ubicazione di molti insediamenti degli aborigeni d’Italia. Anche la storia dei Sicoli del Martelli dà molte informazioni in merito, se si ha il coraggio di setacciare queste notizie dai suoi due volumi, pieni di elaborate ricerche di scarsa importanza. Parte della compagnia, ed io con essa, cavalcò avanti per annunciare il nostro arrivo e per sollecitare a riceverci gli ospiti che non ci aspettavano; ma, poiché tutti i Don e le Donne Placidi (le persone più importanti del luogo) erano fuori per una passeggiata, non ottenemmo nulla col nostro affrettarci, e dovemmo attendere un bel po’ in mezzo alla strada. Quanto a me, caddi in un sonno ristoratore; quando mi svegliai, il resto della nostra carovana, giunto in uno stato di grande spossatezza, era occupata a bere acqua fredda con liquore di anice, servito da una varietà di cortesi vecchiette, senza scarpe e senza calze.

Subito dopo arrivò la famiglia Placidi: un gruppo molto singolare, composto da una venerabilissima vecchia signora di 98 anni, con i lunghi capelli bianchi sciolti sulle spalle, e da due figli, entrambi sui settanta e, in apparenza, vecchi come la loro madre, che li chiamava fanciulli miei e figliuolini. Da questa buona gente fummo accompagnati al Palazzo Placidi, una casa enorme, irregolare e antica; le stanze degli ospiti erano sporche e scure, piene di vecchi mobili sistemati tutt’intorno alle pareti, divani di damasco, sedie di cuoio e tavole dalle gambe dorate; ma tutto sembrava che non fosse stato più usato fin dal tempo dei primi re Sicoli, i cui nomi D. F. Martelli cita diligentemente in una lista da Sem in poi. Il vuoto nelle stanze di questi palazzi, l’assenza di libri, di lavori ad ago, di un qualunque segno di occupazione mentale, così costante nelle nostre case, lo si nota sempre e suscita nel nostro animo inglese un’impressione di freddo disagio, tutt’altro che piacevole.



PALAZZO PLACIDI


Niente, tuttavia, avrebbe potuto essere più accogliente e ben fornito della tavola da pranzo, che con piacere raggiungemmo. Donna Serafina de’ Placidi era una meravigliosa vecchia signora, in pieno possesso di tutte le sue facoltà, e, mentre conversava, lavorava alacremente a maglia. Una camera dall’aspetto disordinato mi fu mostrata per la notte; conteneva un largo letto con velluto cremisi tutt’intorno, tanto da poter bastare per tre letti di quel genere; preferii riposarvi sopra, avvolto nel mio mantello, visto che la sua comodità e il suo decoro erano del tutto esteriori.

17 agosto 1843. - Ci alzammo presto. Prima che fosse giorno riprendemmo la nostra via senza caffè, circostanza insolita in Italia, dove, benché nessuno mangi prima del giorno inoltrato, la mattutina tazza di caffè viene raramente dimenticata. Dopo aver visitato la cappella di Sant’Anatolia, la nostra cavalcata si trascinò per una o due ore in mezzo alla piacevole frescura dei boschi. Superato il paese di San Donato, scendemmo verso Tagliacozzo ...


[estratto da: Edward Lear - Viaggio nei tre Abruzzi - pag. 67-70 - Biblioteca comunale di Rieti]




Cenni sull’origine del fenomeno del brigantaggio



Gli anni posteriori al 1860 furono molto travagliati per il nostro Cicolano. La conquista del regno di Napoli da parte dei Savoia dette origine ad una reazione fra chi, ancora nostalgico verso il vecchio regno, rimase fedele al re Francesco II° di Borbone e chi, per motivi di interesse verso lo Stato Pontificio, tentò di rimettere sul trono il vecchio re consapevole di essere il prossimo obiettivo di conquista piemontese. La reazione inizialmente politica e militare ebbe culmine nel fenomeno del brigantaggio che fu favorito soprattutto nelle nostre contrade dal territorio montagnoso e poco accessibile e dalla posizione geografica quale zona di confine con l’ancora non annesso Stato Pontificio.

Lo Stato Pontificio ed a sua volta una gran parte del clero offrì rifugio e assistenza alle bande di briganti che, considerate come eroiche squadre militari, venivano premiate ed incitate nelle loro azioni. Anche il Re Francesco dopo la conquista del regno si rifugiò nello Stato Pontificio e spesso invitava, nella sua dimora a Roma, i capo-briganti offrendo aiuti in armi e denaro, incitandoli alla rivolta contro i piemontesi (1).

Già nel 1861 una squadra di reazionari borbonici di parvenza militare comandata dagli zingari Fiore e Nicola di Giorgio di Pescorocchiano, dopo esser passati per Villecollefegato e Torano, per disarmare i paesi e comporre una truppa in favore del re Francesco Borbone, erano giunti il 15 gennaio alle h. 3:00 di notte a suon di tamburo alla volta di S. Anatolia. Lì avevano tolto a Ferdinando Scafati, a Costantino Placidi e ad Alessandro Panei i fucili che possedevano aggregando alla loro truppa Angelo Passalacqua e dirigendosi poi verso Tagliacozzo. Nella casa di Alessandro Panei essi ebbero anche da mangiare e da bere (2).

Il giorno seguente un’altra squadra comandata da Ascenzo Napoleone di Corvaro giunse a Borgocollefegato dove sostò fino al giorno seguente. Il 18 gennaio effettuarono il disarmo di Spedino e nello stesso giorno circa in quindici entrarono in S. Anatolia dove si presentarono a Ferdinando Scafati, cassiere comunale di Borgocollefegato, per sapere quali somme fossero nelle casse comunali. Questi rispose che nelle casse comunali non vi erano denari visto che nessun contribuente adempiva al proprio dovere a causa degli sconvolgimenti reazionari ma Ascenzo Napoleone volle comunque che gli fossero consegnati 30 ducati per far fronte alle urgenze di massa. Lo Scafati si recò da Costantino Placidi per chiedergli i trenta ducati ma questi non li volle prestare ed allora Ascenzo Napoleone si dovette accontentare di quattro ducati per i quali rilasciò formale ricevuta (3).

Dichiarò io qui sotto scritto di aver riceuto docati quattro
dalle sig. Fiore Scafati - lì 18 gennajo 1861 - Santa Anatolia
Il commandante delle truppe a massa Ascenzo Napoleone (4)


In seguito, sopraggiunto il resto della squadra di circa duecento individui, Ascenzo Napoleone seppe che Ferdinando Scafati aveva incassati, il giorno precedente, 150 ducati per un cespite comunale. Allora egli assumendo un’aria molto truce pretese altri 100 ducati che lo Scafati, sotto minaccia di fucilazione, dovette farsi prestare da Costantino Placidi (5).

Dichiaro io qui sotto scritto di avere riceuto la somma di docati cento dal signore Fiore Scafati nella qualità di casiere comunale di questo comune di Bolgo Collefecato, i quali docati cento servono per pacare la reggia massa - S. Anatolia li 18 gennajo 1861
Il commandante della reggia massa di Francesco secondo Ascenzo Napoleone (6)


In seguito una parte della squadra passò in casa di Alessandro Panei che dovette consegnare un fucile e la somma di 50 piastre (7).

Nel febbraio del 1861 le truppe piemontesi giunsero nel Cicolano per reprimere la reazione e già nel marzo dello stesso anno le fucilazioni ed il carcere avevano definitivamente sbandato le piccole truppe borboniche e Ascenzo Napoleone, arrestato la notte del 19 marzo 1861 presso Civitella di Nesce, venne fucilato due giorni dopo (8). Ad aprile del 1861 la reazione ormai repressa si era trasformata definitivamente in brigantaggio. Non era più una guerra di carattere militare ma poteva forse assomigliare ad una guerriglia dall’apparenza partigiana.



Carta del 1853




I Briganti e la banda di Cartore



La maggior parte dei briganti nel periodo invernale, cioè dai primi di novembre fino alla fine di aprile, rimanevano ospiti nello Stato Pontificio occupandosi di lavori campestri o di pastorizia ma, quando giungeva la primavera, col clima meno rigido e con la possibilità di nascondersi meglio nei boschi ricoperti di foglie, tornavano in piccole bande nel nostro Cicolano per sfrenarsi in ogni tipo di violenza soprattutto contro quelli che erano ritenuti fautori del nuovo regime (9).

Le montagne della Duchessa erano, nei nostri dintorni, sede di rifugio di alcune bande di briganti. C’era una banda in particolare detta banda di Cartora che scorrazzava sulle nostre montagne; essa era composta da venti o trenta individui e fra essi si distinguevano  i briganti Baldassarre Federici (figlio di Giovanni) e Giuseppe e Gaetano Luce di S. Anatolia ed altri sette provenienti dai paesi subito intorno: Michele e Berardino Pietropaoli, Stefano Casagrande e Domenico De Felice di Poggiovalle, Carmine Marcelli di Grotti, Fiore Salvatore di Torano e Giuseppe Nicolai di Rosciolo (10).

In quel tempo i più influenti personaggi di S. Anatolia erano l’abate parroco Costantino Placidi, figlio di Nicodemo, appartenente alla famiglia più ricca del paese e Alessandro Panei, anch’egli molto ricco e apparentato con i sacerdoti del paese.

La notte del 18 maggio 1863, nel molino del barone Francesco Antonini presso Torano, sei o sette briganti della banda di Cartore sequestrarono Alessandro Panei, lo condussero sulla montagna della Duchessa ed andarono a chiedere alla sua famiglia un pesante riscatto in denaro. Questi si affrettarono a consegnare ai briganti una somma di circa tremila lire che i briganti accettarono ma, nonostante questo, invece di essere lasciato libero, Alessandro Panei fu torturato, legato ad un faggio ed infine bruciato vivo. Il primo giugno di quell’anno il suo cadavere quasi irriconoscibile fu ritrovato sulla montagna Duchessa nella valle Giaccio della Capra tra il Colle Cardito e Fonte della Vena (11).

Al Sequestro e all'omicidio avevano partecipato, oltre al resto della banda, anche i briganti Giuseppe e Gaetano Luce e Baldassarre Federici di s. Anatolia. Narra la tradizione che in seguito il brigante Baldassarre, dopo aver passato un lungo periodo lontano dalle nostre contrade, tornò di nascosto a S. Anatolia per ritrovare i suoi parenti. Era inverno e la terra era ricoperta di neve. Il brigante si nascose in una grotta nei pressi delle Case Vecchie dove venne accolto dai familiari. Fu fatta la spia ad Antonio, il figlio di Alessandro Panei, che, con un fucile in mano, si avviò verso la grotta per vendicarsi. Quando il brigante Baldassarre vide il Panei, lo salutò dicendo: come sta sor' anto ? E questi gli rispose : lo sai solo tu!!! e gli sparò uccidendolo (da un racconto di Angelo Amanzi).

La notte fra il 7 e l’8 giugno 1863 circa trenta briganti della stessa banda di Cartore riuscirono a penetrare nel palazzo dei signori Placidi dove si trovava il sacerdote don Costantino. Dopo aver saccheggiato il palazzo ed aver rubato tutto ciò che sembrava avere un certo valore, i briganti presero la strada che conduceva verso Rosciolo tenendo sequestrato il parroco con i suoi due garzoni. I tre vennero rilasciati dopo poche ore con la promessa che, entro 24 ore, il Placidi avrebbe spedito ai briganti mille ducati e non avrebbe fatto denuncia del sacco sofferto. Costantino si rifugiò a Luco de’ Marsi. Sembra che egli inizialmente cercò di mantenere la promessa fatta ma pare che la persona incaricata della consegna della somma richiesta non riuscì a ritrovare i briganti poiché questi si erano spostati in altro luogo. In seguito dopo una lunga trattativa con i briganti non andata in porto don Costantino Placidi venne punito per la mancata promessa con l’uccisione di circa 15 buoi. (12)




Il brigante Giuseppe Luce di S. Anatolia



Giuseppe Luce figlio di Gaetano era nativo di S. Anatolia, “giusto di statura, colore cretaceo, poca barba”, era stato soldato sbandato dell’esercito borbonico fin dall’anno 1860. Si dette al brigantaggio per non passare all’esercito italiano (13). Nell’ottobre del 1860 era sottocapo delle truppe reazionarie comandate da Ascenzo Napoleone (14) e il 18 gennaio del 1861 faceva probabilmente parte delle truppe di quest’ultimo partecipando forse alla raccolta dei denari e delle armi anche a S. Anatolia. Nell’estate del 1862 era uno dei componenti della banda di Cartore composta da Michele e Berardino Pietropaoli di Poggiovalle, Stefano Casagrande anch’egli di Poggiovalle, Carmine Marcelli di Grotti ed altri (15). Nella notte fra il 9 e il 10 settembre di quell’anno insieme ad altri venti briganti giunse a Pagliara presso Castelmenardo dove partecipò al saccheggio delle case dei fratelli Domenico e Giuseppe Chiarelli e al furto di trenta piastre commesso contro Franco Pozone fu Marco “bettoliere” (16). Nell’ottobre dello stesso anno, come buona parte dei briganti, si rifugiò nello Stato Pontificio (17).

Nel maggio del 1863 Giuseppe Luce tornò nel Cicolano aggregato alla banda Colajuda ma, mentre la banda transitava per la montagna di Valdevarri, si unì alla banda di Pietropaoli che poi era sempre la comitiva che scorrazzava sul monte di Cartora. La notte del 18 maggio, insieme ad altri sei o sette briganti, partecipò al rapimento ed all’uccisione di Alessandro Panei. Sembra che i veri assassini del Panei fossero stati oltre al Luce, Fiore Salvatore di Torano, Giuseppe Nicolai di Rosciolo ed Albino Ruscitti di Castelnuovo (18).

Nella notte fra il 30 e 31 maggio 1863 la banda Pietropaoli, di cui faceva parte Giuseppe Luce, rubò nella casa di Francesco Silvi di Alzano poi, in Collemaggiore, sequestrò le armi a quattro elementi delle guardie nazionali piemontesi e infine, dopo averlo derubato, rapì il parroco Alessandro De Sanctis. Il parroco venne rilasciato il 1 giugno dopo aver sborsato trecento ducati di riscatto. Nel pomeriggio del 31 maggio, nella zona S. Francesco Vecchio (presso Corvaro), la stessa banda penetrò nel casolare di Carlo Musier e nella vicina casa rurale di Niccola Romano rubando dal primo del pane, olio e sale e dal secondo una bottiglia di olio per mangiare (19). La notte fra il 7 e l’8 giugno del 1863, sempre insieme alla banda Pietropaoli di Poggiovalle, composta in quella occasione di circa trenta individui, Giuseppe Luce partecipò al sacco del palazzo di don Costantino Placidi parroco di S. Anatolia.

Nel mese di luglio la repressione militare verso le bande brigantesche divenne molto più efficace. Il 2 luglio si costituì ai granatieri distaccati a Borgocollefegato il brigante Domenico di Cesare. Il 5 luglio venne arrestata sulla montagne di Poggiovalle Angela Pietropaoli moglie del brigante Stefano Casagrande. Il 6 luglio dopo uno scontro a fuoco quest’ultimo venne arrestato insieme al piccolo brigante Domenico De Felice tredicenne; Stefano Casagrande venne fucilato lo stesso giorno. Fra il 14 e il 17 luglio altri tre briganti della stessa banda si costituirono alle forze militari. Il 20 luglio, in un conflitto a fuoco con il distaccamento di granatieri di Borgo-collefegato, sulla montagna di Poggiovalle, fu ucciso il capo banda Michele Pietropaoli (20).

Il 22 luglio, alla morte di questi, il fratello Berardino e l’amico Carmine Marcelli delle Grotti si costituirono nel paese di Pace a Vincenzo de Felice sottoprefetto del Circondario di Cittaducale (21).

Vedendo la gravità della situazione, sul finire del luglio 1863, Giuseppe Luce, Albino Ruscitti di Castelnuovo, Giuseppe Nicolai di Rosciolo e Ferdinando Salvatore detto Fiore di Torano, si rifugiarono nello Stato Pontificio dove rimasero per circa un anno.

Il 26 aprile del 1864 Giuseppe Luce ed Albino Ruscitti che si trovavano a Roma s’incamminarono sulla via Valeria Tiburtina diretti verso le loro terre natie. Albino Ruscitti in seguito raccontò:

Partii da Roma domenica ultima di mattino, e, passando per Tivoli, giunsi con Giuseppe Luce al confine presso Verrecchie sul far della sera, e continuando sempre pe’ monti, scendemmo per le pianure di Scurcola, giungendo alle ore sei della stessa notte a Castelnuovo (22). Giuseppe ed Albino presero alloggio a Castelnuovo in casa del compare di quest’ultimo Angelo De Andreis e lì, probabilmente seguiti o spiati, vennero catturati ed arrestati. Con sentenza del 15 ottobre 1865 Giuseppe Luce fu condannato alla pena dei lavori forzati a vita, alla perdita dei diritti politici e alla interdizione patrimoniale, solidamente alle spese del procedimento a favore dell’erario dello Stato e alle indennità dovute alle parti lese (23). I suoi amici briganti più intimi ebbero quasi la stessa sorte: Albino Ruscitti fu condannato a dodici anni di carcere, Ferdinando Salvatore ai lavori forzati a vita (24) e Giuseppe Nicolai, arrestato nel dicembre del 1870, venne condannato a 25 anni di lavori forzati (25).



PANORAMA 1894


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