Storia e vita della Zona 3

 

Pubblico con l'autorizzazione di Guido Lopez una parte del testo da lui scritto nel 1989 per la guida Informazioni Consiglio di Zona 3 pubblicata dal Comune di Milano, Consiglio di Circoscrizione 3.

Scrittore e giornalista, cultore di storia milanese, Lopez è nato in Monforte, cresciuto in Città Studi e abita da trent'anni in Zona Venezia.

Credo che sia interessante anche se riguarda solo una parte della attuale Zona 3. Ho aggiunto collegamenti alla descrizione degli edifici della Zona 3 ed agli itinerari liberty.

 

BASTIONI, CARROZZE, LA VAPORIERA

 

Priva di blasoni storici, la Zona 3 duecento anni fa stava all'ultimo margine delle piante di Milano. Non c'erano da segnalare né case civiche né vie urbane. C'era qualche cascina, qualche posteria, un deposito di munizioni e di divise dell'esercito detto 'la Polveriera' (esiste ancora la facciata: corso Buenos Aires, 19), e poi campi, filari di pioppi, ondulati percorsi tra le rogge. Appena fuori Porta Orientale, estremo lembo della città, oltre i cancelli del dazio, il grande quadrilatero dell'ex-Lazzaretto ( cinquecentesco), in vari modi adoperato per magazzinaggio, scuderia, abitazione, infermeria, sonnecchiava tra concerti di rane e cicale. Sull'altro lato dello stradone, l'antica (poi rifatta) chiesa di Santa Francesca Romana sovrintendeva a un cenobio di frati Agostiniani Scalzi, che il governo napoleonico del 1804 avrebbe svuotato dai religiosi e adibito a scuola - ospedale veterinario (sopravviverà fino al terremoto edilizio post 1931). Ad est del Lazzaretto, il Foppone di S. Gregorio, ultimo asilo per i morti a grappoli della peste del 1630, e ampliato a cimitero di tutti nel 1787, avrebbe accolto spoglie di riguardo (ma dimenticate al momento di chiuderlo): Carlo Porta, Andrea Appiani, Vincenzo Monti. Assai più in là, la chiesa della Madonna del Loreto - di cui oggi rimane soltanto un'ombra di nome: Loreto - eretta per disposizione dei due cardinali Borromeo, chiamava alla devozione e alla scampagnata gente di città e del contado, sistemata com'era alla biforcazione verso i largo mondo: Brianza, Prealpi, Veneto.

Il documento di nascita della Zona 3 reca la data 1782, ed è un bando emanato dal Reale Giudice delle Strade sotto Giuseppe II d'Austria. Riguarda "l'appalto della rinnovazione, e consecutiva manutenzione, della Strada Provinciale dalla soglia del Ponte Levatore fuori del Dazio di Porta Orientale sino al Piazzale rimpetto la Chiesa di Loreto", rinnovazione che deve tradursi in un rettifilo alberato (1). L'Arciduca d'Austria si è fatta la residenza di campagna (e quale residenza dentro quale parco!) a Monza, le grandi famiglie con le ville in Brianza "scoprono" la parte orientale di Milano, fra Naviglio e Bastioni. Dà l'esempio il conte Ludovico di Belgiojoso (futura Villa Reale di via Palestro), presto imitato dai Saporiti, dai Bovara, dai Carcano. I terreni per palazzi e giardini si ricavano sfruttando gli orti dei conventi soppressi dalle leggi Giuseppine prima, e poi dalle requisizioni napoleoniche. Gli stessi Bastioni sistemati a nuovo, con loro bella cinta di alberi; al posto della casupola del gabelliere sorgono ( 1828) i due edifici classicheggianti che oggi si conoscono come Porta Venezia.

Già all'arrivo di Stehdhal a Milano, ufficialetto di napoleone, i bastioni di Porta Orientale sono diventati luogo di convegno per le scarrozzate del bel mondo: un'abitudine che proseguirà più di un secolo, sino a lambire l'epoca dei motori. "Dopo un breve caracollare per quel chilometro di bastioni, gli equipaggi venivano a disporsi in una sola fila al lato sinistro - scriverà uno degli ultimi testimoni, Carlo Linati in Milano di allora - e lì, sotto l'ombra degli ippocastani, cominciavano, come in un immenso salotto all'aperto, il grande chiacchericcio e le visite di rito da carrozza a carrozza. Era una parata di ricchezza, d'eleganza, d'attacchi fulgidi, d'idilli, di saluti, di amori". Col tramonto del Settecento, il recinto del Lazzaretto festeggia (9 luglio 1797) la nascita della Repubblica Cisalpina col concorso di migliaia, dicono anzi decine di migliaia di persone.

Archi di trionfo posticci verranno innalzati a Porta Orientale di volta in volta per il Buonaparte in veste di Liberatore, per Napoleone imperatore, per i Reali Imperiali d'Austria e i loro Arciduchi.

Il rettifilo da e verso la Madonna di Loreto, coi suoi pioppi fruscianti e la soda carreggiata, comincia ad attrarre attenzione, commerci minuti, l'occhio dei costruttori di case. Sempre contado è, ma l'inurbamento si avvicina.

In vista di Porta Orientale si inaugura (1842) lo "Stabilimento di esercizio e scuola di Nuoto" - in altri termini, la prima piscina in Italia - dall'araldico nome di bagno di Diana (ma le donne, agli inizi, ne sono escluse).

Un paio d'anni prima, al Ponte della Gabella - dove si paga il dazio per il sale - si è inaugurata la strada ferrata con vaporiera Milano-Monza (seconda in Italia) di gestione privata, e nel '43 già si prospetta una ferrovia di patrocinio Regio-Imperiale (e intitolata all'Imperatore: la Ferdinandea) a collegare Milano con Venezia; se ne inaugura il primo tratto nel '46 fino a Treviglio, e nel '57 l'Arciduca pone la prima pietra della futura Stazione Centrale. Sorgerà sull'attuale Piazza della Repubblica, e il terrapieno ferroviario, lungo la traiettoria degli attuali Sidoli - Regina Giovanna - Tunisia, scavalca e taglia in due con una lunga arcata il quadrilatero del Lazzaretto. Non si poteva pensarlo duecento metri più fuori città? Si poteva; ma è noto che comodità e 'progresso' non si fanno in qua, neppure davanti al Manzoni.

D'altro canto emozioni più forti, col 1859, sono in arrivo: Milano è liberata; Porta Orientale diventa, in omaggio alla città sorella rimasta in mano austriaca, Porta Venezia.

 

LA DISTRUZIONE DEL LAZZARETTO

 

8 luglio 1876: con partenza davanti ai caselli di Porta Venezia si inaugura la prima tramvia a cavalli di Milano, la novità sta nelle rotaie di scorrimento - e precisamente un servizio Milano - Monza. E' gestito dalla Società degli Omnibus, che dal 1861 già serve la città con linee senza rotaie.

Nell'aprile 1881 prende avvio anche la prima linea urbana, dai bastioni al Duomo, in vista dell'Esposizione Industriale ai Giardini Pubblici che, da maggio a ottobre, richiamerà più di un milione di visitatori, milanesi e di fuorivia. Trionfo del progresso, esordio dei telefoni, affermazione dei tram, che si diramano per tutta la città.

Lo 'stabilimento' della Società degli Omnibus è proprio alla svolta dei bastioni, di fronte al Bagno di Diana: ci sono ben 2 scuderie per oltre 500 cavalli, un'infermeria veterinaria con 48 posti-paglia., e annesse tettoie per le carrozze, magazzini dei cereali, maniscalchìa e letamaia. Ad ogni epoca, i suoi problemi di inquinamento.

Il 1881 è anche l'anno della messa all'asta del Lazzaretto che, privo di manutenzione, e abitato dai più diversi affittuari dell'Ospedale Maggiore - ferrovieri, maniscalchi, ortolani, lavandai, fabbricanti di ghiaccio, artigiani e venditori ambulanti - era andato sempre più degradando.

Poco decoroso davvero, con la roggia fetida da parte dei bastioni, le tende stracce verso lo stradone di Loreto, quale inizio del percorso che la carrozza di S.M. il Re Umberto imboccava rombando in direzione di Monza - e le donne lungo la via, preavvertite dal polverone sul rettifilo, si facevano all'uscio, vita ben stretta, petto ben esposto.

Un milione e ottocentomila lire è il prezzo pagato per l'acquisto dell'area da parte della Banca di Credito Italiano, incluso ilo diritto di levar di torno le architetture, le memorie borromeiche e manzoniane e gli abitanti. Si risparmiò il San Carlino, già cappella centrale del Lazzaretto, e fu imposto di conservare un tratto della cinta sul lato del Foppone di S. Gregorio (è ancora lì, in uso alla Chiesa Ortodossa). Quanto al resto, ciao. Si spianò, si scavò, si costruì fitto e borioso, non venne piantato neppure un albero, non fu lasciato spazio per nemmeno un'aiuola. "Ora le croci del cimitero di S. Gregorio pareva avessero un ben più mesto significato, accanto ai ruderi del Lazzaretto, - scriveva Emilio Guicciardi, ricordando le fasi dello sconquasso. - Forse in tutti veniva la smania di cancellare ogni traccia, come si trattasse di una malattia vergognosa sul corpo della città. Eppure, ancora si ripeteva ogni anno lo spettacolo popolare del giorno dei Morti a Porta Venezia, la fiera delle bancarelle sul corso Loreto. Ghirlande, croci, custodie, lumini, rosarii. Ancora metà di Milano, ricchi e poveri, veniva a trovare i sò Mort, sapendo che presto il cimitero sarebbe stato chiuso..."

Nell'infittirsi dei nuovi casoni, alti e addossati, andò a farsi benedire la saggia disposizione urbanistica detta "servitù del Resegone" che vietava di tirar su case più alte dei bastioni, onde restasse libera la vista delle Prealpi col tipico monte a denti di sega. Ma l'architetto dello stabile d'angolo (attuale Corso Buenos Aires, 1), come perseguitato dai rimorsi, lungo il cornicione del cortile - stretto, alto, soffocante - fece modellare a tutto tondo (18887) le facce dei personaggi manzoniani col colo teso in fuori dal cemento, inebetite. L'edificio prese il nome del ristorante-birreria sistemato a pianterreno e primo piano, il Puntingam (neppure il Piantanida seppe dirci il perché di questo nome): un gran salone di stile gotico, tavolini all'aperto e orchestrina per la buona stagione, all'ammezzato accoglienti separé per le coppiette. C'era ancora negli Anni Trenta.

 

NASCITA E CRESCITA DEL CORSO BUENOS AIRES

 

"Una città vive perché si adatta, si adatta perché vive": uno specialista in storia urbana del medioevo lo ricorda, Il cantiere del Lazzaretto ebbe funzione di innesco per l’edificazione del Corso e delle sue adiacenze. Rapido il profitto privato, e dietro ad esso, più o meno di buon grado, i lavori pubblici: le elementari di via Tadino-Casati, a edifici attigui, uno per i maschi l’altro per le femmine, messe in cantiere nel 1888, rappresentano il meglio per l’epoca: sono le prime ad avere il riscaldamento. Ci vorrà più tempo per l’edilizia popolare ad uso abitazione: i blocchi e le case a schiera di Benedetto Marcello-Scarlatti-Petrella e di via Valazze-Porpora-Lulli sono datate 1905-1909. Nel 1905 si costruisce anche la caserma (poi passata ai pompieri) di via Boscovich-Marcello, l’edificio che oggi ospita, fra l’altro, gli uffici della Zona 3.

Alla svolta del secolo XX, corso Loreto diventa Buenos Aires (un omaggio alla grande colonia di immigrati italiani in Argentina) e su corso Buenos Aires al 54 si affaccia un nome nuovo per qui: Ingegnoli. Sono in parecchi, questi Ingegnoli, padri e figli, fratelli e zii, sino a poco prima con negozio di sementi in sotto-passaggio Orefici, Il loro palazzo sul Corso non potrebbe meglio esprimere la "doppia anima" del quartiere: sul retro, un pezzo di campagna con serre e vivai; in facciata, un disegno architettonico che esprime solidità e possesso; all’interno, la "F & P Ingegnoli & Soci" - capitale interamente versato di 5.000.000 - offre aree edificabili nelle zone di sviluppo della città, incluso il quadrilatero 5. Gregorio-Settembrini-Petrella-Buenos Aires.

Tira buon vento per le imprese di costruzione, per gli artigiani delle piastrelle, del cemento scolpito e dei ferri battuti: sull’area dell’ex Stabilimento degli Omnibus con particolare estro felice (via Malpighi 3 e via Malpighi 12), ma un po’ ovunque dal Monforte al Buenos Aires in Pisacane come in Boscovich lo stile floreale lascia i segni di una società ottimista, pacifista, privilegiata. "Il quartiere di Porta Venezia per ora è il più fortunato della città", scriverà sul Corriere Arnaldo Fraccaroli il capodanno del 1910, riferendosi ai percorsi del dirigibile dell’ing. Forlanini fra gli hangar di Crescenzago e la Madonnina del Duomo: spettacolo gratuito. Un giovane pittore, che adora le corse in automobile, aerei e dirigibili e il galoppo dei cavalli a S. Siro, prende stanza e studio in via Castelmorrone 7, angolo Goldoni: "vicinissimo alla campagna": è Umberto Boccioni. "Ci voglio molto lavorare - annota nel suo diario ma il freddo è intenso e ne soffre il mio petto". Nella buona stagione, comunque, sistemerà in terrazza il cavalletto per un autoritratto (oggi a Brera) che sullo sfondo ha la città che sale dai prati e, in lontananza, il treno che sbuffa sul viadotto dell’Acquabella. Ogni cosa è ribaltata destra-sinistra, perché Boccioni dipinge guardando se stesso e il paesaggio nello specchio.

E il treno che (per usare la toponomastica d’oggi) da piazzale Susa si dirige verso piazza della Repubblica lungo la traiettoria Sidoli-Regina Giovanna-Tunisia, scavalcando su un ponte il corso Buenos Aires. Tipico cavalcavia che i milanesi oltre i settant’anni ricordano bene: "Al tempo di cui parlo, l’America confinava per me col nostro quartiere di Monforte, ne era quasi l’appendice - scrive Alberto Vigevani in Fata morgana, riferendosi agli anni 1922-24. Sulla spalletta del cavalcavia ferroviario attraversava il Corso uno striscione del Fernet Branca: l’aquila dalle ali spiegate reggeva fra gli artigli un globo azzurro, su cui mi era stata indicata l’America. E i nomi, da piazza Lima a Corso Buenos Aires, m’inducevano a fantasticare praterie e grattacieli, com’erano illustrati nel Corriere di Piccoli. Dell’America faceva parte anche via Vitruvio, tanti anni sarebbero occorsi per esplorarla tutta. Dietro ogni facciata si nascondevano rimesse, cortili con cataste di legname, di bidoni e laterizi, fra cui si eclissavano i gatti... Lustrini cingevano le tempie delle sirene dagli occhi gonfi sulla giostra che strideva a tempo di polka in mezzo ai prati infangati di viale Morgagni. Oltre la ferrovia s’innalzava la ciminiera della fabbrica di cerotti Bertelli; accanto era ancorato il gasometro con la poppa verniciata di rosso e di grigio, dalle cui aeree passerelle sbarcavo la mattina nel cuore dell’America.."

 

DAGLI ANNI DEL FLOREALE AGLI ANNI DELLA VERNICE

 

Poi ci fu il terremoto urbanistico conseguente allo spostamento in fuori della cinta ferroviaria. Con l’entrata in servizio della nuova stazione, emersa come scenario di Ben Hur dalle ultime palizzate che la nascondevano (l’inaugurazione ufficiale fu il 1 luglio 1931) e per la successiva demolizione del percorso vecchio, i quartieri a ridosso dell’ex tracciato ebbero un’impennata nella Borsa dei valori. Via la massicciata col suo ingombro, via i corpuscoli del carbone, i fischi del vapore e lo sferragliare; aperte le strade a fondo cieco, aerati i cunicoli, tra Monforte e Venezia si fece un continuo di viali e di strade. Fu un quinquennio di sfratti, un bengodi per l’edilizia.

Ancora una volta l’occasione si aggirava per il quartiere: case di ringhiera, affacciate sui binari ora deserti, avrebbero lasciato il posto a edifici signorili (e chi voglia rendersi conto come erano, è di faccia a via Pancaldo l’ultimo esempio, lungo il muretto di Regina Giovanna). Abolito il passaggio a livello dell’Acquabella (piazza Susa), svuotato e tolto di mezzo il gasometro e la scuola di veterinaria a S. Francesca Romana, aperti i vari rondò all’incrocio dei viali, si fece spazio alla voglia di grattacielo, senza costruirne più che due, di qua e di là da via Vittor Pisani, e neanche tanto alti. Comunque, senza sfogo. Ma erano gli anni della vernice littoria, e il lucido déco, succeduto al liberty, flirtava col mussoliniano.

Con l’autunno del 1930, il corso Buenos Aires si guadagnò anche un teatro, in sostituzione del vecchio scricchiolante Politeama Milanese - baraccone di 1800 posti, adibito per lo più a incontri di boxe; anzi, di pugilato. Lo inaugurò una edizione della Bohéme, e fu intitolato a Puccini: architettura Anni Trenta firmata Mario Cavallé, strizzatina d’occhio alla Galleria del Corso, un repertorio più di prosa che lirico, più di varieté che di prosa, e spesso - giustamente per il suo pubblico - dialettale. Bonecchi (morto da un pezzo Ferravilla) per il milanese. Angelo Musco ci recitò l’ultima volta: morì sulla breccia, o forse nelle braccia d’una soubrette; comunque, d’amore. Chiuso uno dei più vecchi locali per il cinematografo, il Dumont, alla confluenza di via Melzo con via Frisi, in declino il Gran Cinema delle Palme di viale Piave - le palme erano del giardino ex Bagno di Diana, diventato campo per la Pelota -, frequentatissìmo l’ex kursaal adattato allo schermo, ma rimasto d’architettura liberty come anche il Giardini; ecco le nuove sale degli Anni Trenta: in via Ciro Menotti l’X Cine ("la finestra sul mondo"), su viale Abruzzi il Plinius (Plinius, non Plinio: Roma docet), in Vitruvio l’impero, cinema e avanspettacolo cioè ‘luce rossa" di allora. Ed ecco, primavera 1934, la prima piscina coperta d’Italia, la Cozzi, giusto risarcimento alla smobilitazione del campo di calcio dell’Inter in via Goldoni. Una domenica di giugno (1930) in piena partita, le sue tribune di legno erano crollate sotto il peso dei tifosi: un centinaio di feriti, manco male morti nessuno; ma l’area fu messa in vendita, diventò campo per il tamburello; ho ancora nelle orecchie i colpi, tum tum. Fece scalpore la casa accanto, puro stile razionalista, rossa e bianca, disegnata da Gio Ponti, Fornaroli e Soncini nel 1934, piazza Novelli angolo Gustavo Modena: ancora oggi bellissima. Il resto del quartiere era - lo è rimasto - figlio della buona borghesia primo Novecento. "Periferia invecchiata sull’ombra delle due guerre senza dare nell’occhio, con la soave e gretta dignità di certi sciroppi fatti in casa - agro di cedro, amarene -tra filari di tigli che si toccano coi rami, e sontuosi ippocastani" (Alberto Vigevani, L’invenzione). Da quelle parti - aggiungiamo noi - e precisamente in via Giulio Uberti (non diciamo il numero) si apriva una porticina ben nota, da mostrare la carta d’identità se il mento era imberbe, con tariffe adeguate all’entourage. Lo spiazzo dell’Inter, poi tamburello, restò inedificato sino a tempi recenti: al riparo del suo altissimo muro si ballava il liscio i giorni della guerra finita, dell’oscuramento abolito, della libertà riconquistata, primavera 1945.

 

GUERRA - DOPOGUERRA

 

"Formavano un gruppo tragicamente disordinato, per via del sangue, delle pose scomposte, dell’essere in una piazza quasi a contatto coi passanti. Uno addosso all’altro, pieni di mosche, sotto un sole tremendo, chi con le braccia aperte, chi rannicchiato; e sui cadaveri un cartello: ‘Il comando militare tedesco’. La gente, silenziosa e atterrita, che gli girava intorno, una vecchietta rimproverata perché si era fatta il segno della croce". Così ricorda Camilla Cederna, in Milano in guerra, la fucilazione dei 15 militanti della Resistenza, prelevati da San Vittore il 10 agosto 1944 e mandati al macello per direttissima, niente preavviso, niente sentenza, neppure il sacerdote. Atrocemente vendicati nell’aprile successivo, un monumento rossigno ne ricorda il sacrificio al Loreto tra fiati di benzina. Ad ogni ricorrenza si rinnovano le corone di lauro, qui e alle quindici lapidi appese ai muri delle altre quindici fucilazioni del quartiere: pausa di riconoscenza. Ma la vita incalza, il gorgo del traffico, dal ‘45 ad oggi, si è fatto sempre più disumano, Loreto non richiama più né la chiesa di S. Maria né l’osteria che fu meta di scampagnate, dove schitarrava filastrocche semiserie il Barbapedana; e neppure richiama il gran grido di Salvatore Quasimodo: "Non toccate i morti così gonfi così rossi / lasciateli nella terra delle loro case...

Tutto è stato scavato, slabbrato, l’orchestra è oggi il traffico automobilistico, è il rombo della Metropolitana sotto il coperchio d’asfalto. Hanno rasato anche gli ultimi alberi, acceso lampadine computerizzate.

Del resto, la guerra è stata relativamente benigna nei riguardi della Zona 3. I bombardamenti l’hanno colpita a margine, incendiando la Bianchi, la Rizzoli, sfondando e franando edifici di Monforte e in piazzale Bacone. Ma la sua spina dorsale - il corso Buenos Aires - ne è uscita intatta, e abbastanza gelosa della propria fisionomia. Le vetrine, al contrario, non hanno fatto che mutare aspetto e padrone; ma il cappellaio saggio del n. 5, il buon Mutinelli con negozio dal 1888, ha tenuto fermi gli arredi degli Anni Venti; e così, di fronte a loro, il ferramenta Collini, classe 1883. Coeva la farmacia Formaggia: ma il suo arredo favoloso è finito in falò, o dagli antiquari, cent’anni dopo.

Sconvolgente, in ogni senso, fu l’operazione Metropolitana Milanese. Squarciato da un taglio chirurgico che pareva non dovesse mai ricucirsi e che fu letale per qualcuno, il Corso un’altra volta fu coinvolto in un fatto urbanistico che obbligava a ripensare un po’ ogni cosa. Ancora una volta: un’occasione. Il giorno inaugurale (1 novembre 1964) del primo tratto della Linea 1, da Sesto S. Giovanni a piazzale Lotto, va segnato nella storia della Zona 3 a lettere d’oro. Scomparsi definitivamente rotaie e tram (ahimè, anche gli alberi) sulla cicatrice rapidamente rimarginata si riversò il grande flusso della città in pieno rigoglio di iniziative. La fisionomia, la vita, il livello merceologico del Corso e delle sue adiacenze mutarono per la pronta iniziativa della gente che vi lavorava. Via gli ultimi provincialismi, ma senza voltare le spalle alla provincia come è pessimo costume dei male arricchiti.

Ora la Zona 3 è coinvolta anche nei lavori del passante ferroviario che attraversa il corso Buenos Aires ripercorrendo sottoterra l’identico tracciato della massicciata 1864-1931. Un gran bailamme, disagi e rintronamenti. Ma l’area di incrocio, con epicentro in Santa Francesca Romana, sarà la Times Square, la Charing Cross di Milano.

 

GENTE DEL TERZO MONDO, LIBRI PER IL GRANDE MONDO

 

Fine del discorso? Naturalmente no. I problemi della Zona 3, i suoi vuoti anche gravi, li abbiamo appena sfiorati sin qui, e vanno dalla carenza di alcune strutture per uso sociale, alla ipercongestione da posteggio e da traffico - persino a mezzanotte, nell’ingorgo della farmacia Formaggia, dell’edicola notturna, dei vicini frullati di Viel, e dei gelati di Wally- al degrado di alcune aree abitative e cronica crisi di edilizia popolare, ai fenomeni tutt’altro che sporadici di delinquenza, violenza, pauperismo, spaccio di droga.

Un problema piuttosto specifico - e relativamente nuovo - della Zona 3 riguarda la "seconda immigrazione" del nostro dopoguerra, cioè l’afflusso della gente di colore: il "terzo mondo" a Milano. Un’evidente e diffusa volontà di affrontare il tema con giustizia e senso della democrazia ne controlla l’iter; ma il fatto che rimanga sub-acuto dipende molto dalle cifre. Abbastanza modeste, ancora oggi. Qualche migliaio di persone, per lo più originari d’Eritrea e del Tigrai, ma anche egiziani, capoverdini, filippini, cingalesi, indiani. Per un fenomeno soprattutto di passavoce, hanno trovato attorno a Porta Venezia il punto di massima confluenza per incontri e per svago; in misura minore per residenza e per lavoro. Richiesti, e soprattutto richieste, le donne, per quei lavori domestici che si sono dequalificati; assunti, più o meno precariamente, altri; tutti, spinti qua da rivolta politica o necessità economica. Diversi da; estranei a. Con tutti i problemi connessi. Si sa: ogni immigrazione, quando si inserisca in un contesto già abitato, assume sempre una doppia valenza: positiva e negativa. Milano, del resto, è tipicamente, fra tutte le città d’Italia, il frutto di immigrazioni. In Zona 3, si occupano di questo tema diverse istituzioni civiche e sindacali che col 1980 sono confluite nel CESIL (sta per Centro di Solidarietà Internazionale Lavoratori) in parallelo con istituti di matrice assistenziale-religiosa. In particolare, quel Convento dei Cappuccini di viale Piave, angolo Monforte (stanno in vista del gran monumento a frate Francesco, detto "cinq e tri vott, cinq che lavòren e tri che fan nagott" per il gesto delle dita che benedicono) dal lungo passato di beneficenza verso ogni genere di affamati. Tipico, a mensa dei Cappuccini, lo spezzatino di carne con salsa di peperoncino rosso su pane spugnoso detto berberé, da qualche tempo affiancato dallo zigulì, che è per l’appunto un mangiare eritreo a base di spezzatino di pollo (ristoranti specializzati: Asmara di via Felice Casati, Africa in via Melzo; e - assai più recente - la cucina mediorientale in piazza Oberdan, ma anche lei sotto insegna africana: Sahara).

Il Convento dei Cappuccini incappò nella storia patria durante le Quattro Giornate di stato d’assedio della città, 7-10 maggio 1898: assedianti, le truppe Regie, il generale Bava Beccaris, re Umberto pronto con la medaglia; assediati il popolo, i radicali, i socialisti, i poarit. La mensa dei "barboni", segnalata come rifugio di rivoltosi, diventò bersaglio d’artiglieria durante il pasto.

In ricordo dell’ingloriosa impresa sono rimaste le turgide pagine di Paolo Valera: "La muraglia venne sfondata in due minuti, Il cannone aveva fatto una larga breccia, dalla quale potevano passare tre uomini assieme. I soldati entrarono nel cortile a baionetta in canna al grido di ‘vittoria, vittoria’! Non vi trovarono che gli ultimi poveri che fuggivano, e tre cadaveri. Il primo venne ucciso mentre metteva in bocca l’ultima cucchiaiata di pasta..."

Sul "terzo mondo" a Milano, anzi in Italia, è stata condotta in Facoltà d’Architettura un’indagine pionieristica nell’83, e allestita una mostra (Il ghetto diffuso) nelle sale della Galleria Marconi, come a dire in uno degli spazi d’arte dove si misura il polso del mercato internazionale. Fra un negozio di elettrodomestici e una cartoleria, tra un fornaio e un verduraio, con davanti la scuola elementare del 1888 ridipinta di arancione e bianco, Giorgio Marconi non ha fallito un colpo in venticinque anni (la prima mostra, con Del Pezzo, Adami, Tadini, Schifano è datata novembre 1965) e il portone di via Tadino 15 diventa, per i vernissages della sera, come l’ingresso di un’arma: ognuno va sicuro di incontrarci l’altro. La Galleria Marconi, con la sua scala-ascensore modernissima in cemento armato, entro un pozzo-cortile a ringhiera d’età umbertina, è figlia delle botteghe artigiane dell’ex Lazzaretto: è un gran quadro internazionale nato dalle mani di un legnamé di Porta Venezia, che tuttora fa cornici grandi e piccole; e ci tiene.

Poco più in là, al numero 21, c’è un altro nome internazionale: Mursia. E non è il solo editore in Zona 3: la Rusconi ha due dei suoi molti indirizzi in Vitruvio e in Napo Torriani; e da via Pisacane è transitata la direzione della Bompiani, prima di passare al gruppo Fabbri. Quanto a Ugo Mursia, siciliano di Carini (Palermo), rappresentante di libri (testi scolastici: "lavoravo 24 ore al giorno, fisicamente e col cervello: incontrare professori, convincerli ad adottare i miei libri. La sera avevo i piedi gonfi, la testa che mi scoppiava..."), innamorato della città d’adozione ("Milano ha una dimensione sconosciuta, bellissima. La zona che preferisco? tutta l’area del Lazzaretto. Ci sono case bellissime che andrebbero ripristinate, non demolite. E infine, Corso Buenos Aires, del quale conosco tutte le pietre"), il suo fiore all’occhiello è il "Tutto Conrad", di cui Mursia- lui in persona - fu il più grande conoscitore, cultore, traduttore in Italia, forse nel mondo. Sicché via Tadino è la capitale degli Amici di Joseph Conrad, consorteria equivalente agli Amici di Stendhal, e altrettanto universale.

Pubblicare dei libri è impresa non da poco, specie con i costi che si impegnano, e non basta il leggendario "fiuto" che guidava un tempo i Treves, i Mondadori, i Bompiani. Occorrono le indagini di marketing, serve magari un giro di visite fra la maggiori librerie: Feltrinelli nuovissima, Puccini un alveare, strappare un qualche pronostico a Franco Lagianella, milanese del quartiere (via Ozanam), che vede girare in negozio (Libreria del Corso) qualcosa come 80.000 volumi in un anno -25.000 titoli - e un pubblico "da passo", oltre agli afìcionados, di tutti i tipi e classi sociali. E la caratteristica del Corso, dove i negozi si sono consorziati in una Asco Baires che include 3.100 metri di vetrine, 300 fra botteghe, boutiques, grandi magazzini, supermarket, istituti di credito.

 

QUEI GIORNI DELLA BOMBA AL KURSAAL DIANA

 

Da Monforte al quartiere dell’ex Lazzaretto, la Zona 3 si inserisce, a proposito di carta stampata, anche nella storia del giornalismo, come uno dei centri "caldi" della battaglia politica degli Anni Venti. In via Settala angolo 5. Gregorio si componevano le pagine dell’Avanti! in uno stabile che il Partito Socialista si era finanziato dopo un attacco vandalico degli Arditi alla sede centrale di via San Damiano. L’inaugurazione era prevista in concomitanza del confronto elettorale del maggio 1921, caratterizzato dalla presenza di un partito nuovo, il Comunista, e dalla dinamicità del movimento fascista in un clima di tensione generale. In un edificio di via Goldoni 3 (quasi all’angolo di viale Piave, allora Monforte) si stampava il quotidiano Umanità nuova degli anarchici, usi a ritrovarsi nelle trattorie di via Frisi e di corso Buenos Aires. Il numero uno del movimento, Enrico Malatesta (in attesa di processo, per cospirazione contro lo Stato, dall’ottobre del ‘20) a metà marzo del ‘21 aveva proclamato lo sciopero della fame. Fu un gruppuscolo di teste arroventate (si autodichiaravano "anarchici individualisti") a organizzare l’attentato al Diana, convinti che sopra l’albergo abitasse il questore. La bomba risultò potentissima, e la collocazione barbaramente errata. I morti furono una ventina, un centinaio i feriti tra i professori d’orchestra e lungo le prime quattro fila degli spettatori nell’attiguo kursaal, dove si dava Mazurka blu di Franz Lehar: ore 23 del 23 marzo 1921. Ne uscì sventrata anche la Farmacia. Una colonna di squadristi, richiamati dall’esplosione, sfionda vendicatrice verso la tipografia anarchica di via Goldoni: si dà fuoco ai mobili, carte, documenti. Alle due di mattina un’altra colonna organizza l’assalto al cantiere socialista di via Settala, dove già sono montate diverse macchine tipografiche: chi dà di spranga, chi di torcia, e chi tiene a bada i pompieri. Ai funerali delle vittime, il fascismo gestisce il cordoglio cittadino. (La sede socialista, presa nuovamente d’assalto il 30ottobre del ‘22 per essere uscita con la condanna della Marcia su Roma, passerà in seguito, con tutte le attrezzature di stampa, a Mussolini. Espropriata nel dopoguerra, il 21 aprile del 1956 vi si stamperà Il Giorno numero uno, di Gaetano Baldacci, primo quotidiano in Italia concepito e impaginato all’americana e longa manus dell’Eni di Mattei).

 

"NON LE CASE DAI BEI TETTI..."

 

Pochi passi dalla sede socialista, scampò ai vandalismi (e salvò il proprio materiale) un altro edificio sospetto ai neri. Costruito dalla Soc. Anonima Case dei Ferrovieri, proprietà d’una fra le primissime associazioni operaie di Mutuo Soccorso, il complesso di via S. Gregorio 46 è arrivato sino a noi con la sua biblioteca specializzata non soltanto in politica ed economia dei trasporti, ma anche in storia dei movimenti sindacali e cooperativi. Ha un catalogo di oltre 10.000 volumi specialistici, un archivio di rarità: raccolte di quotidiani, periodici, volantini e comunicati sindacali. Nel suo campo, è una delle più importanti d ‘Europa.

Non basta per dare alla Zona 3 un posto di rilievo, in fatto di cultura, nel panorama milanese. Delle sale cinema sopravvissute alla erosione da piccolo schermo le più sono a luce rossa. Con tanta distribuzione cinematografica, in via Soperga assente il cinema d’essai. Circoli culturali: nessuno di rilievo. Di teatri, uno solo, l’Elfo. Sale di concerto? nessuna. Niente scuole d’arte o di musica. Musei, nessuno. Con buona volontà ci si mette il Consiglio di Zona, ma non basta. Eppure proprio qui ha vissuto nei suoi anni pieni Elio Vittorini, e portava l’indirizzo di viale Tunisia 29 il suo Politecnico nel primo numero uscito (29 settembre 1945), con in prima pagina l’editoriale ‘Nuova cultura’: "Una ‘Nuova cultura’ - diceva - capace di lottare contro la fame e le sofferenze, perché occuparsi del pane e del lavoro è ancora un occuparsi dell’anima".

In questo senso è cultura battersi perché del gran deposito di tram non più in uso ATM di piazzale Bacone si faccia - come si è fatto - un moderno centro scolastico; è cultura appoggiare la lotta degli inquilini del blocco Dateo viale dei Mille e vincerla con loro per un riscatto e ricostruzione in ambito di edilizia popolare (peccato però: qui si è persa una grande occasione, Il progetto Magistretti era più che un quartiere nuovo; era un segno, un’idea. Lo si è sacrificato per la faccia di un tardo Liberty di terza categoria). Ed è anche cultura, proprio nel senso come Carlo Cattaneo e Vittorini la intendevano, anche questo opuscolo, che mentre affronta i temi del presente, cioè i temi di base, vuole anche ricordare il passato, come si è arrivati là dove siamo.

In uno ieri ancor più lontano, anzi lontanissimo, ventisette secoli fa, un poeta greco, Alceo, disse qualcosa che molto bene calza con le peculiari caratteristiche della nostra Zona, ed è questo: "Non le case dei bei tetti, non le pietre di mura ben costruite, non i canali né le banchine fanno la città; ma gli uomini capaci di sfruttare le occasioni".

Guido Lopez

(1) Questo e altri documenti, per cortesia del prof. Angelo Torricelli del Politecnico di Milano, coordinatore della ricerca sulla Zona Venezia, corso di Composizione.

 

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