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Quello che segue è il contenuto della voce SERRAMANNA del Dizionario
corografico dell' Italia pubblicato negli anni intorno al 1865 dal
Tipografo-Editore Vallardi di Milano. Lo riporto integralmente, perché
rappresenta uno specchio fedele di come stavano da noi le cose in quel
periodo; ho solamente variato l'impaginazione, soprattutto separando meglio
i paragrafi ed evidenziando in grassetto gli argomenti per permettere una
più facile consultazione del lungo testo.
Dalla
lettura appare evidente che molte cose sono restate dopo 140 anni
invariate, ma tante altre sono da allora cambiate: il fiume Caralita lo
chiamamo oggi Mannu, tante colture agricole sono state abbandonate e
sostituite da altre, le zatte le chiamiamo angurie e non arrivano mai
a due metri di circonferenza ed al peso di oltre 40 Kg, non c'è più nel
Planu il
pascolo comunale per il bestiame e, oltre a mancare i cinghiali, non ci
sono più neanche tutte quelle specie di animali di cui si poteva allora andare
a caccia. Nei giorni festivi non si danza più al suono delle launeddas,
gli sposi non fanno più il contratto matrimoniale, non c'è quasi più
traccia di nuraghi essendo state le pietre fagocitate dai nostri avi...
avidi di materiale per le fondamenta delle loro case. Le nostre donne non
hanno più in casa i vecchi telai su cui si tessevano panno e tela per i
bisogni della famiglia e per commerciarli. Gli elettori non
sono più solo quelle 100 persone veramente "elette".
SERRAMANNA -
Comprende poche case sparse, che all'epoca del censimento del 1861
ricettavano 15 abitanti. Ha una superficie di 8384 ettari.
La sua popolazione di fatto, secondo il
censimento del 1861, contava abitanti 2971 (maschi 1451, femmine 1520),
quella di diritto era di 3047.
La sua guardia nazionale consta di due compagnie
con 223 militi attivi.
Gli elettori amministrativi nel 1865 erano 96, e
107 i politici inscritti nel collegio di Nuraminis.
Ha ufficio postale di seconda classe, stazione
telegrafica, pretura di mandamento, delegazione di sicurezza pubblica,
carceri mandamentali. Appartiene alla diocesi di Cagliari.
Il suo territorio si stende interamente in
pianura. Vi scorre il fiume Caralita, che è valicato da due ponti
in legno, detti Bau Mannu e Santa Maria; le acque nella state diminuiscono
tanto da lasciare scoperte molte parti del letto con molti pantani. Nel
Calarita, poco lungi dall'abitato, si versa il torrente Leni,
formato dai vari rivoli delle valli che sono poste a libeccio del paese.
Il Leni ha un letto poco profondo, spesso cangia direzione, e non ha molto
che la sua foce si portò a circa mezzo chilometro dalla sua prima
confluenza nel Caralita, recando grandi guasti nei poderi di nuovo
attraversati: da esso gli abitanti ritraggono l'acqua potabile. Nei mesi
estivi per frequenti tratti scorre sotto le ghiaie: le sue acque sono
ottime perché scorrono in un letto ghiaioso e pietroso. Superiormente
alla confluenza di questo torrente, entra nel letto del Caralita un canale
che porta le alluvioni che prima stagnavano nella parte della palude di
Sanluri, chiamata sa Cora de Stani. In una parte di ponente del
territorio si trova uno di quei siti acquitrinosi che sono detti
volgarmente tuerras: vi furono aperti dei canali da scolo, ma non
vi si può far coltura d'inverno. Questa tuerra è recintata da siepi
vive, verdeggia di molti canneti, ed ha complessivamente una superficie di
forse 500 ettari, che sono tra i terreni più produttivi del Serramannese.
Serramanna è uno dei principali
paesi agricoli della Sardegna. Il suolo è attissimo alla cultura dei cereali, e di una fertilità da reggere il confronto con quelli di altre
celebri regioni granifere; ma esige una laboriosa coltivazione.
Ordinariamente si semina grano, orzo. fave, legumi. lino: i legumi più
comuni sono ceci, lenti e cicerchie: a questi prodotti si aggiungono la
meliga (il mais n.d.r.) e le patate. Un vicario parrocchiale,
non sono molti anni, fece fare il saggio del riso a secco, che diede il 15
per uno, ma si dubita di imitarlo. Il vigneto occupa un'area di oltre 400
ettari, e sarebbe molto produttivo, se nella fioritura non fosse offeso dalla
nebbia e se meno nuocesse la brina delle notti fredde. Le varietà delle
uve rosse e bianche sono molte, e danno vini comuni e fini: sono di bontà
pressoché eguale a quelli del Campidano orientale di Cagliari; nondimeno
se la loro manipolazione fosse meglio intesa, potrebbero avere un pregio
maggiore. E sono pochi i possidenti che traggono profitto dal prodotto
delle vigne, bastando ai più di avere il vino occorrente per la propria
famiglia. Nella sunnotata tuerra l'orticoltura è esercitata in grande; vi
si pianta la meliga con altre piante esotiche che servono a provvedere i
luoghi circonvicini e la città di Cagliari. Vi prosperano tutte le
diverse sorta di ortaggi, ma nessuna meglio delle zatte, dette s'indria,
alcune delle quali ingrossano tanto da avere quasi due metri di
circonferenza, e un peso di oltre 40 chilogrammi e sebbene tanto
sviluppate, hanno un'acqua deliziosa che imita spesso il colore del
corallo. In alcune filamenta delle polpa sono varie, perché bianche,
rosastre e cerulee, e questi sono di minore bontà. Si possono conservare
sino all'estremo inverno, ed allora si trovano in tali condizioni come se
poco prima fossero state spiccate dalla pianta. Un notevole lucro si
ottiene, oltrechè dalle zatte, dai carciofi e dalle canne
che si vendono ai vicini paesi. Abbondano le ficaie che danno un
frutto gratissimo, ma scarseggiano tanto gli altri alberi fruttiferi che
colle varie frutta si fanno fra conoscenti regali tenuti in grande pregio:
scarseggiano anche gli olivi. Da un lustro a questa parte i gelsi e
gli agrumi sono in copia, e vi prosperano a meraviglia.
Vi sono molte terre chiuse per la seminagione e per tenervi a
pastura i buoi, i cavalli ed anche le pecore: le chiusure sono fatte con
grandi siepi di rovi e fichi d'India, e con semplici fosse: la
superficie complessiva di questi fondi dà forse due migliaia di ettari.
Il prato comunale destinato al pascolo de'buoi, ha una superficie
di 200 ettari: fornisce pastura abbondante , ma perché mal guardato, le
sue erbe sono divorate dalle pecore e dall'altro bestiame rude. I pascoli
del bestiame rude poi, sono incerti per la frequenza della siccità in
autunno e primavera; e sono anche male economizzati, perché invece di
procedere da una regione nell'altra, lasciando che là rigermini l'erba
mentre qui cresce, i pastori vagano ad arbitrio ed il pascolo
simultaneamente per ogni dove viene calpestato. Il bestiame rude
posseduto in altro tempo da questi proprietari, contava 800 vacche,
250 tori, 200 maiali e 6500 pecore; ma dopo la
concessione dei terreni demaniali allo stabilimento Vittorio Emanuele e a
quello del conte Vesme nella regione di Pimpisu, il bestiame in generale
è quasi scomparso, perché vennero a mancare repentinamente quei vasti
pascoli, e i proprietari di vacche furono costretti di venderle. Non si
usa mungere le vacche. Il formaggio pecorino è grasso e di buon gusto, ma
sarebbe migliore di molto se venisse confezionato con metodi più
razionali. Si fa formaggio fino e formaggio di cantina, e se ne vende
anche fuori dell'isola in notevole quantità.
L'apicoltura
non è curata; eppure in altri tempi si aveva un considerevole numero di
bugni, i quali diminuirono per imperizia e negligenza dei cultori. Nelle
parti incolte della regione occidentale del territorio, sono sparsi
raramente gli arbusti del cistio, e chi abbisogna di legna deve
provvedersene nei monti di Villacidro. In quelle parti incolte si trovano
lepri, volpi, martore, conigli; si può far caccia di
pernici, e nella stagione opportuna, di quagli, beccaccie, anitre, colombi
selvatici, tortorelle, gru, oche, merli, tordi. Quando eranvi più spesse
e grosse le macchie, si trovavano anche cinghiali.
(I
disegni riprodotti in questa pagina, sono opera dell'artista serramannese
Mario Curreli, fotografati da Antonio Martis)
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