Il
disagio dei minori accolti in comunità educative: la mediazione come
sostegno alla famiglia e agli operatori.
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L'esperienza quotidiana in un contesto educativo di comunità per minori evidenzia come il disagio giovanile spesso provenga da una conflittualità familiare, in cui il disagio, non necessariamente deriva da una situazione di divorzio dei genitori del minore. Si tratta per lo più di famiglie il cui nucleo è apparentemente "sano", ma nelle quali, in realtà, i componenti la famiglia vivono una situazione statica, di non crescita. Il conflitto, tra il minore e la sua famiglia, ostacola spesso l'intervento educativo degli operatori poiché rallenta nel ragazzo il processo di crescita e il superamento del disagio. Inoltre, anche gli operatori che ruotano attorno al minore vengono coinvolti dal conflitto che viene accentuato soprattutto dalla paura che la famiglia ha di perdere il proprio ruolo genitoriale. Paura, per altro legittima, alla quale non viene data la possibilità di essere espressa, ma che è addirittura celata dal conflitto. La Mediazione in tale contesto favorisce la condivisione del bene del minore da parte della famiglia e da parte degli operatori che si trovano a cooperare favorendo il processo di crescita, il superamento del disagio e il lenimento della sofferenza.
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Dottore in filosofia, educatrice per minori, mediatrice, formatrice di mediatori, responsabile del "Servizio di Mediazione" (Cagliari) |
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"Il disagio dei minori accolti in comunità educative: la mediazione come sostegno alla famiglia e agli operatori." |
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La costruzione della propria identità è legata certamente
alla storia personale di ogni individuo: attraverso lo sviluppo e l'acquisizione
di capacità, competenze fisiche e sessuali, attitudini intellettuali,
affettive, culturali e relazionali. Ma affinché lo sviluppo dell'identità
si realizzi è necessario adattarsi alle regole esterne, identificarsi
o opporsi a persone o gruppi, interiorizzare stili di vita, norme e valori,
e ancora inserirsi in una rete di rapporti. Attraverso tali processi ciascuno
costruisce la propria identità e la definizione dell'immagine che
avrà di sé stesso. Alla base del disagio adolescenziale si ritrovano importanti fattori
di rischio, quali il sistema dei valori, la debolezza della formazione
psicologica, la debolezza dei sistemi relazionali significativi. In quest'ultima,
rientra la famiglia d'origine dell'adolescente con le proprie fragilità
educative, la difficoltà della comunicazione, dell'ascolto e della
comprensione che spesso si aggiungono a situazioni sociali, economiche,
culturali in cui è probabile che sussistano disoccupazione, povertà,
basso livello di istruzione dei genitori, separazioni, conflitti familiari.
I modelli di intervento attuati in genere dalle comunità di tipo
familiare tendono alla realizzazione di iniziative, capaci di individuare,
stimolare e valorizzare le potenzialità del ragazzo, tali da offrirgli
un "codice di comportamento" volto al suo reinserimento sociale
e familiare. In questo delicato e faticoso percorso di maturazione è di fondamentale
importanza per il ragazzo ospite delle comunità, la totale collaborazione
da parte di coloro che sono coinvolti nel suo processo di crescita, in
particolare modo con la sua famiglia di origine anche perché, nella
maggior parte dei casi, a conclusione dell'intervento educativo il ragazzo
farà rientro nell'originario nucleo familiare. Non è raro che i genitori vivano l'allontanamento dei propri figli,
anche quando sono consenzienti, come atto che genera in loro un senso
di minaccia alla propria identità genitoriale, sentendosi ingiustamente
espropriati del figlio ad opera di "altri genitori". È
quindi comprensibile che la famiglia crei una sorta di rivalsa e competizione
nei confronti degli operatori delle comunità, mettendo così
a rischio il percorso comunitario del ragazzo. Questa competizione crea
anche un conflitto tra il minore e la sua famiglia, poiché si trova
combattuto tra il vincolo affettivo familiare e il contesto della comunità
che gli offre una realtà diversa con la quale confrontarsi (stimoli
culturali e sociali migliori, maggiore e più costante attenzione
ai suoi bisogni). Per evitare che venga innescato questo tipo di dinamica, è importante
che si trovino ulteriori modalità per un giusto coinvolgimento
dei genitori al processo di crescita del proprio figlio: fiducia, rispetto
e chiarezza sono le componenti di una giusta collaborazione tra le comunità
e la famiglia. Collaborazione che risulterà utile e a vantaggio
del ragazzo che non dovrà né mettere in discussione i suoi
legami affettivi, né scegliere tra essi e la sua nuova condizione. L'intervento del terzo neutro permette di creare un clima sereno in cui
emerge la paura che la famiglia ha di perdere il proprio ruolo genitoriale,
paura legittima alla quale non viene data la possibilità di essere
espressa perché celata dal conflitto. L'emergere della paura, della
sofferenza e del sentimento di perdita consentono ai genitori di rivalutare
il ruolo delle comunità non vedendole più su un piano antagonista
nel processo educativo del proprio figlio. Contemporaneamente, emerge
anche il ruolo effettivo degli educatori che non si pongono come sostituti
dei genitori, anche se il loro ruolo li porta ad adempiere a funzioni
genitoriali. Nel caso specifico, il caso di mediazione socio-educativa tra famiglia
ed operatore che viene proposto, è il risultato di una serie di
incontri avvenuti presso il Servizio di Mediazione tra i mediatori, vari
professionisti (psichiatri, psicologi, psicoterapeuti, psico-oncologi,
psicologi del lavoro, educatori, facilitatori di gruppo, insegnanti) e
diverse associazioni, quali Alcolisti Anonimi e Al-anon. La mediazione del caso proposto è avvenuta tra gli operatori di
una comunità per minori e la famiglia di un minore ospite della
comunità. Alla base del conflitto c'era la rabbia e il senso di
tradimento da parte della famiglia per non essere stata né informata
né coinvolta nella decisione, presa dal Servizio Sociale, di inserire
il proprio figlio presso una comunità. La richiesta, fra l'altro,
era stata fatta esplicitamente all'assistente sociale dallo stesso ragazzo
(creandogli un profondo senso di disagio e sofferenza), il quale da tempo
non riusciva più ad avere un rapporto positivo con i genitori. L'intervento di mediazione ha consentito alla famiglia di: chiarire le motivazioni che hanno determinato la scelta del Servizio Sociale; recuperare la propria "posizione" di genitori; essere più disponibili a porre in discussione e modificare gli atteggiamenti verso il figlio. Agli operatori ha consentito di poter creare le basi per una collaborazione con la famiglia al processo educativo e comunitario nell'interesse del ragazzo. A seguito della mediazione, il ragazzo, pur non essendo stato coinvolto personalmente nel processo di mediazione, ha ottenuto comunque il vantaggio di superare il senso di tradimento che aveva nei confronti della famiglia, riallacciando i rapporti con essa. |
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