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Heart & Soul
Intro al CD
E' da molto che seguo Stefano Sabatini con interesse e curiosità; già alla fine degli anni '90, recensendo un suo album, ebbi modo di esprimere valutazioni assai positive sulla statura complessiva dell'artista.
Ovviamente gli anni non passano invano ed ecco quindi Sabatini riproporsi al pubblico degli appassionati con questo nuovo album (il settimo da leader) che rappresenta, probabilmente, il punto più elevato della sua maturazione di uomo e jazzista a tutto tondo. Senza alcun problema o falso pudore a svelare la sua anima, Stefano propone un repertorio che la dice lunga sul suo modo di vedere ed intendere la musica: degli otto pezzi presenti nel CD, Stefano ne ha composti ben sei cui ha aggiunto uno straordinario evergreen di Bill Evans, "Turn out the Stars" ed un pezzo tratto dal pop italiano, "L'arcobaleno" (Mogol – Gianni Bella) riveduto e corretto con grande sensibilità.
Comunque, se si vuole avere un'idea precisa di quella che è l'attuale cifra stilistica di Sabatini, basta ascoltare con attenzione il brano che dà il titolo all'intero album. Si tratta di una ballad, "Heart & Soul" in cui appare evidente il desiderio di ricercare la bellezza della linea melodica, e questo desiderio, questo obiettivo lo si riscontra in tutte le composizioni e anche nei due arrangiamenti.
Insomma, andando contro una certa corrente che sembra rifuggire da qualsivoglia ricerca melodica, Sabatini compie un'operazione esattamente opposta: bandisce dal suo pianismo ogni tentazione virtuosistica fine a se stessa (pur avendone i mezzi) e si gioca la partita soprattutto sul lato della valenza compositiva, potendo contare su una tecnica sopraffina che gli consente di sorvolare su inutili ghirigori. Ed in effetti molto curata appare l'esecuzione.
Il trio, che può contare ormai su una eccellente intesa cementata da tanti anni di fattiva collaborazione, si muove all'unisono, l'uno perfettamente conscio di ciò che l'altro sta sentendo e suonando. Di qui un flusso sonoro straordinariamente omogeneo in cui gli strumenti si integrano alla perfezione all'interno di un jazz moderno ma caratterizzato da indubbia eleganza, un jazz a tratti grintoso, a tratti lirico se non addirittura onirico, che riesce, comunque a trasmettere al pubblico le emozioni degli interpreti. In tale contesto Luca Pirozzi alle volte fa letteralmente "cantare" il suo contrabbasso che dialoga alla pari con il pianoforte mentre il sostegno ritmico di Pietro Iodice è puntuale, preciso, trascinante senza essere invadente... insomma una vera lezione di batteria.
Dal canto suo Sabatini, come si accennava, evidenzia una maturità ormai consolidata. I suoi brani sono tutti ben costruiti, con un solido senso architettonico, una ricercata linea melodica e impreziositi, sul piano degli arrangiamenti, da soluzioni armoniche tutt'altro che banali.
Dal punto di vista esecutivo, il suo pianismo si caratterizza per la modernità del linguaggio pur legato alla migliore tradizione jazzistica, per il fraseggio quanto mai fluido, per l'assoluta padronanza delle dinamiche, per un tocco che sa essere, alla bisogna, energico o leggero e per l'estrema facilità improvvisativa che gli consente un perfetto equilibrio tra parte scritta ed improvvisata.
---Gerlando Gatto

ONLINE JAZZ
12 aprile 2012
SABATINI: LA MELODIA FA PARTE DEL MIO DNA
Sono seduto davanti a Stefano Sabatini alla vigilia della presentazione, alla "Casa del Jazz" della sua ultima fatica discografica, "Heart & Soul", prodotta da "Alfa Music".
C'è in questo tuo nuovo lavoro una qualche caratteristica che lo distingua dai precedenti album?
Innanzitutto è di nuovo un disco in trio e può considerarsi la logica prosecuzione del primo inciso con Roberto Gatto e Furio Di Castri in quanto c'è molta attenzione alla melodia, cosa che è in me è del tutto naturale, unitamente ad un certo romanticismo che credo faccia parte del mio dna: Questi elementi si ritrovano anche nelle improvvisazioni: quando suono "libero" mi piace tracciare delle melodie piuttosto che fare sfoggio di virtuosismo, pur rispettando quanti, viceversa seguono questa linea. Per me la tecnica deve essere al servizio della creatività e non viceversa.
Si può dire che questo tuo modo di sentire il jazz si inserisce in quel filone che comunemente si definisce come "Jazz Italiano"?
Credo proprio di sì; se c'è una cosa che abbiamo di bello noi musicisti italiani è il calore e la ricerca della melodia e quando, poi, a questa melodia si può abbinare una raffinatezza ed una eleganza armonica allora sei già a buon punto. Noi possiamo competere nel mondo con gli altri musicisti proprio con queste armi. Ad esempio se la mettiamo puramente sul piano dello swing è chiaro che diventa molto difficile superare i musicisti americani. [...]
---Gerlando Gatto
Leggi tutta l'intervista in A Proposito di Jazz

MUSICA JAZZ
N°2
febbraio 2005
Per questo disco (nato nell'ambito del Saint Louis Music Center, dove insegna) Stefano Sabatini è partito con l'idea giusta, chiamando due partner di grande statura e di più collaudata esperienza, ma soprattutto affini al suo mondo musicale: Furio Di Castri e Roberto Gatto (erano già vent'anni fa con lui nei Lingomania di Maurizio Giammarco, un gran bel gruppo).
E una volta assicuratosi della solidità di tutta l'architettura del trio, ha potuto esprimere le sue molteplici doti individuali.
Come solista Sabatini convince per quella sua impostazione d'una classicità quasi austera e per il rigore nella ricerca degli effetti, ma di grande interesse, sono anche le sue composizioni.
Qui per rendere ancor più netta la sua impronta, sono sei: scorrono dall'accattivante eloquenza melodica di Sad Eyes al brio di 2 A.M., toccando il gusto un po' esotico di Sooner Or Later o l'intricato fraseggio di Minnie's Bounce.
Tre soli i prestiti esterni-anch'essi ben arrangiati- prelevati rispettivamente da Broadway (I'll Never Stop Loving You), dai Beatles (The Fool On The Hill) e dalla canzone italiana (Amico che voli, repertorio di Edoardo De Crescenzo).
Oltre ad assecondare in ogni momento il leader, Di Castri e Gatto trovano più volte modo di venire alla ribalta e richiamare su di sé tutta la luce dei riflettori.
'Melodies' è un laboratorio di autentici maestri.
---Gian Mario Maletto

LA DISCUSSIONE
31 marzo 2005
"MELODIES" LA PUREZZA DEL TRIO
È uscito l'ultimo lavoro discografico del brillante pianista romano Stefano Sabatini che con l'incisivo supporto di Roberto Gatto alla batteria e Furio Di Castri al contrabbasso offre una valida proposta per una formazione tra le più rischiose del jazz
Ne ha fatta di strada Stefano Sabatini, brillante pianista jazz romano oramai da tempo accreditato tra i più sensibili innovatori italiani ed europei del genere musicale. Già tre decenni alle spalle con collaborazioni e progetti originali che spaziano dai primissimi "Kaleidon" alle performances con Massimo Urbani e Tony Scott fino alla purtroppo esaurita stagione dei Lingomania, straordinaria invenzione del sassofonista Maurizio Giammarco. Ora Sabatini ritorna al disco non senza, nel frattempo, aver dato prova di grande sensibilità solistica e corale, eccezionale tecnica e vastità compositiva in precedenti lavori ("Waiting", "Wonderland", Dreams") in cui la sua poetica affiorava costante attraverso riletture di standards ma, principalmente, brani originali che non conoscevano il pantano della banalità.
E questo ritorno è con il trio, da sempre formazione tra le più rischiose del panorama jazzistico. La difficile tenuta dell'equilibrio, la complicata introspezione e proposta della melodia e dell'armonia sembrano proprio non trovare ostacoli in "Melodies", proposto dalla neonata etichetta romana Saint Louis Jazz Collection nata da una costola della storica e prestigiosa scuola omonima fondata nel lontano 1976 e frequentata da sempre da centinaia di allievi. Nove i brani (di cui ben sei di Sabatini) nei quali lo spessore compositivo ed esecutivo del pianista si rivela in tutta la sua forza e magia con l'inossidabile e prezioso lavoro di Furio Di Castri e Roberto Gatto, ritmica tra le più valide del panorama non soltanto italiano ma di certo dell'intera Europa (allargamento recente compreso). Così, oltre alla personale rilettura di alcuni standards come "I'll Never Stop Loving You", interpretata con una intro che ricorda la migliore tradizione pianistica, o la successiva "Amico che voli" (della fortunata coppia "leggera" Migliacci - Mattone) rivisitata con sensibilità ed un disegno armonico perfetto che ricordano il mai troppo compianto Tete Montoliu, segnaliamo anche la cantabile "The Fool On The Hill" della pregiata ditta "Lennon - Mc Cartney". Stefano Sabatini a nostro avviso sfodera, però, un autentico asso nella manica con "Something About You". C'è interplay con i due compagni di viaggio, c'è ricerca compositiva di grande struttura ed una padronanza dello strumento che trova pochi eguali in giro. Da tempo non ascoltavamo un disco così completo. Un omaggio così autentico all'arte di chi vive sopra e dentro le note restituendo chiarezza di progetti, e lungimiranza nella manipolazione dei materiali a disposizione.
---Enzo Gravante

IL MANIFESTO
ALIAS
n.5 del 05 02 2005
Il pianista e compositore vanta una ventennale carriera, arricchita da un'apprezzata e preziosa attività didattica. Le sue qualità di autore ed interprete non hanno spesso avuto i riconoscimenti che meriterebbero ma Sabatini è musicista molto apprezzato dai colleghi. I nove brani di Melodies dimostrano in pieno il suo valore; accompagnato da una splendida sezione ritimica con Furio Di Castri (contrabbasso) e Roberto Gatto (batteria), il pianista propone le sue elaborate composizioni - ora intimistiche (Sad Eyes), ora cariche di ritmi e asimmetrie (Minnies Bounce), si muove con personalità sul terreno degli standard (I'll Never Stop Loving You), dà spessore jazzistico alle canzoni di Lennon-McCartney (The Fool on the Hill).
---Luigi Onori

JAZZ CONVENTION
Year 2005
Melodies è un disco di notevole impatto. I musicisti coinvolti sono tra i più affermati nel panorama jazzistico italiano, le composizioni proposte, sia quelle scritte da Stefano Sabatini che i brani non originali scelti dal pianista per completare il disco, sono confezionate con cura e intelligenza.
Il piano trio risulta da sempre essere un banco di prova, come il piano solo, per qualunque pianista: vuoi per la difficoltà di sottrarsi al confronto con i grandi della storia della musica, vuoi per la completezza che il musicista è chiamato ad esprimere nel corso del lavoro, sobbarcandosi il maggior peso del lavoro, vuoi per la monodimensionalità della musica proposta, non c'è possibilità di cambiare, di inserire molti altri elementi. Il piano trio guidato da Stefano Sabatini in Melodies rappresenta la giusta mistura di tutti gli elementi che solitamente compongono l'essenza di questo genere: una corposa sezione ritmica - nessun piano trio resiste senza una ritmica solida... e ognuno avrà la sua coppia preferita; brani che offrono un ampio ventaglio di situazioni, dalla ballad alle escursioni più ritmicamente sostenute, canzoni e improvvisazioni; la partecipazione e il pathos esecutivo, la cura per l'effetto finale, per l'emozione che chi ascolta deve avere e sentire, senza scadere mai in trovate facili e scontate.
C'è molto più da ascoltare in Melodies di quanto si possa dover dire o raccontare: la musica emoziona ed è fluida. Prendiamo ad esempio la rilettura di The fool on the hill: Sabatini allarga l'orizzonte e dilata le maglie della canzone per inserire sospensione, lirismo, per creare zone di passaggio e di riflessione, per introdurre il pezzo, per inserire la cifra della propria personalità; la canzone diventa tema, i passaggi inseriti dal pianista sostengono le improvvisazioni, senza stravolgere l'originale beatlesiano. Un brano che riesce in una ad avere una interpretazione personale, rimanere conforme all'originale e avvicinare lo status di standard. Così Sooner or later che avrebbe potuto essere eseguita tranquillamente in quintetto per gli stacchi, per la ritmica funkeggiante, per la costruzione del tema nel quale si possono ascoltare le parti per i fiati e quelle per il pianoforte; eppure il brano viene eseguito con una tale schiettezza e tranquillità da mantenere la sua forza e conferma la levatura della scrittura e del trio e dei tre musicisti che riescono a leggere ed interpretare il pezzo in modo da renderlo un brano veloce da piano trio.
Le brillanti e sostenute One more step, 2 a.m. e Minnie's bounce, nelle quali il trio si misura sul ritmo e sul versante energico, non esagerano mai nella forza. Come vedremo dopo, la cifra del trio guidato da Stefano Sabatini è nella capacità di esprimere il risvolto più intimo dei sentimenti; ciò nonostante, i sentimenti hanno il proprio lato più spigoloso e forte e il trio asseconda questo aspetto con grande capacità e con una buona verve. Temi, assolo e scambi, si susseguono e scorrono con piacevolezza e mettono in risalto le scelte azzeccate operate in fatto di sonorità e di arrangiamento.
Sono però i brani lenti, le ballad, i momenti riflessivi quelli nei quali il trio esprime al meglio la propria voce: Sad eyes, I'll never stop loving you, Something about you e Amico che voli sono calde, avvolgenti e liriche con gusto, misura e poesia. Le capacità melodiche di un contrabbassista come Furio Di Castri e di un batterista come Roberto Gatto si mettono al servizio della scrittura e delle intenzioni di Stefano Sabatini, il quale, da parte sua, se ne avvale con la delicatezza del tocco e con la classe delle soluzioni. Malinconiche e pacate, lievi e allegre, le parti più calme del repertorio proposto in Melodies sono interpretate con sapienza ed efficacia.
---Fabio Ciminiera

ITALIAN JAZZ CONVENTION
Year 2004
Con raffinatezza e lirismo, come pure con decisiva efficacia, si espandono i pregiati quadri jazzistici in trio del pianista Stefano Sabatini. Con armonioso delineare, spigliato giustapporre e rigoglioso raffittire, Sabatini con briosa leggiadria fa scorrere un fraseggio ben tornito dal limpido svolgersi in crescenti onde dal munifico sbrigliare in continuità e dalla mirifica perizia di conduzione e con venustà di linguaggio, ricco di rispondenze interne e dal crescente diramarsi tra nitide punteggiature e un ben innestato sciorinare dal fluido irradiarsi con continui sbocchi con un inoltrarsi improvvisativo incastonato da adamantine e aggraziate sequenze dal prezioso risonare. Sulla base del duttile sottendere di Di Castri al contrabbasso e di Gatto alla batteria, dal diafano e pertinente supporto, Sabatini protende ed estende lussureggianti rivoli d'alea dalle doviziose sortite, dal gradevole, fantasioso e ben articolato dispiegarsi e dal ben foggiato svolgersi con sentimento, afflato e naturale disinvoltura, con chiarezza d'orientamento e un periodare dal pregiato disporre con freschezza e slancio tra feeling e atmosfera.
---Giordano Sellini

SAINT LOUIS
Jazz Collection
Nella storia recente del piano trio italiano il nome di Stefano Sabatini si è ritagliato un ruolo significativo e di tutto privilegio. Per meglio dire, Sabatini è uno dei pochissimi pianisti in circolazione in grado di allestire trii dalla spiccatissima cifra stilistica qualunque sia la ritmica impiegata. In virtù di una sapiente capacità di organizzare i diversi materiali (melodico, armonico, ritmico e improvvisativo), e di fonderli utilizzando un prisma interpretativo originale e personale, Sabatini sembra come se ragionasse sulla forma trio (formazione rischiosa, perimetrale), senza mediazioni o sovrastrutture, e indipendentemente dalla sua realizzazione pratica.
L'approccio timbrico è caratterizzato da una lucida progettualità: ben lontano dall'essere la semplice somma di tre singole voci strumentali, i trii guidati dal pianista romano si pongono come organismi dalla compiuta e riconoscibile cubatura sonora, e dunque caratterizzati da un suono limpido e raffinato.
Come improvvisatore, poi, il pianista dimostra non soltanto una conoscenza enciclopedica della storia e degli stili del jazz moderno, quanto una scioltezza ideativa di altissimo lignaggio. Poeta dello, e nello spazio, sonoro, Sabatini esprime un innato senso della buona forma (un senso quasi gestaltico dell'equilibrio), e la predisposizione a un'economia (ossimoricamente generosissima) dei mezzi, per cui ogni singola nota, ciascuna singola frase possiedono il dono dell'inevitabilità, della necessità.
Ma non si comprenderebbe a fondo l'idea alla base dei progetti sabatiniani se non si considerasse l'elemento forse decisivo della sua poetica, ovvero la profondità delle sue composizioni.
Al di là delle cover - i cui criteri di scelta rispondono all'esigenza di affrontare un repertorio mai banale, dalle sottili e imprendibili sfumature melodico-armoniche e d'impianto - è la scrittura di Sabatini a costituire l'elemebto attorno al quale si coagulano e si cristallizzano le dinamiche del trio.
Arioso e cantabile, armonicamente brillante, ma anche in grado di esprimere sensazioni robuste od ombrose e introspettive, Sabatini è songwriter di razza, dalle risorse e dalle idee a volte assolutamente sorprendenti. Alcini suoi brani meriterebbero di comparire su un ideale songbook ideale del jazz italiano del jazz, per la loro capacità di colpire e affascinare l'ascoltatore.
Quando poi l'estro del pianista si coniuga con una delle ritmiche più affiatate e prestigiose del mondo, il risultato è un piccolo gioiello di grazia, inventiva e interplay, registrato, peraltro, con una presa sonora di forte impatto. Buon ascolto.
---Vincenzo Martorella

MUSICA JAZZ
N°5
maggio 2005
STEFANO SABATINI: "ANCHE IL PIANOFORTE ESIGE SOPRATTUTTO CANTABILI MELODIE"
Sabatini, poco meno di trent'anni di carriera e sei dischi a suo nome, e ora "Melodies" che arriva a quattro anni di distanza dal disco precedente. Come mai una discografia così frammentata?
Ho bisogno di tempo per comporre, la pratica musicale alla quale mi dedico con molta cura, tanto da non riuscire a scrivere un brano al giorno. Accade inoltre che molti progetti finiscono del dimenticatoio. Il mercato discografico del jazz ha un andamento fluttuante, per cui ho deciso di pubblicare "Melodies" solo dopo aver avuto il master tra le mani, varato alcune possibilità e optato per l'amico Stefano Mastruzzi della neonata etichetta Saint Louis Jazz Collection, affiliata al Saint Louis Music Center di Roma. Lì insegno pianoforte, arrangiamento e composizione. In questi anni, oltre all'attività didattica, ho partecipato comunque a molti altri dischi.
Nonostante il quartetto sia l'organico che ha spesso prediletto, ha optato per il trio. Come si è trovato?
Non avevo mai registrato un disco in trio, pur avendo suonato in diverse occasionicon la formula a tre. Quando ci ho pensato ho ritenuto opportuno radunare dei musicisti che possedessero una sensibilità musicale molto prossima alla mia. Conosco piuttosto bene Furio Di Castri e Roberto Gatto, abbiamo suonato insieme diverse volte dai tempi dei Lingomania a oggi e adoro il loro feeling musicale. Gatto vive a Roma come me, ci vediamo di frequente. Di Castri risiede a Torino, è un po' più complicato.
Chi la segue, specie nei club romani, sa bene che ultimamente ha suonato con un trio composto da nomi differenti da quelli che appaiono su "Melodies"...
Sì, sperimento l'organico a tre da diverso tempo con Gianluca Renzi o Dario Rosciglione al contrabbasso e Lorenzo Tucci o Marcello Di Leonardo alla batteria. Può capitare che Gatto sia impegnato nei suoi progetti, tiene anche diversi seminari in giro per le scuole di musica, e fa parte del quintetto di Enrico Rava; Di Castri è spesso in tour con Paolo Fresu, e anche lui ha diverse proposte, per cui non si riesce a suonare. Proprio per la presentazione ufficiale del disco Gatto non è potuto venire, era impegnato per cinque serate con Rava. Non mi sognerei mai di chiedergli di non seguire Rava per unirsi al mio trio... Così mi sono impegnato con altri musicisti, altrettanto affini a me, ma più disponibili.
Il disco presenta un repertorio per lo più composto da brani originali. La sua tensione verso la melodia, l'arte del comporre, ha avuto libero sfogo?
Curo particolarmente la composizione. Questo è il sesto disco a mio nome, non sono tanti, ma la maggior parte sono plasmati su mie composizioni. Il mio modo di operare è piuttosto variabile. Sad Eyes mi è venuta di getto; in altre occasioni trovo una cellula melodica stimolante e inizio a lavorarci finché non viene fuori una melodia che posso in seguito armonizzare in modi disparati. Questo era uno dei compiti che mi davano al corso di arrangiamento e composizione alla scuola che ho frequentato negli Stati Uniti. L'armonia, insegnavano, non è mai un problema, il vero momento ostico è la composizione della melodia.
Già, perché ha avuto modo di studiare a Los Angeles alla fine degli anni Settanta. Ma prima aveva suonato nei club di Roma?
Ho iniziato come tutti, prendendo delle lezioni di pianoforte. Una sera in televisione vidi un concerto di Oscar Peterson, rimasi folgorato, successivamente ho scoperto Bill Evans e tanti altri. In Italia, più o meno a metà anni Settanta, non c'erano scuole di musica dove si approfondiva il jazz, però c'era molto fermento in giro. Si suonava nelle cantine, magari con Maurizio Giammarco o Nicola Stilo; chi si metteva in bella mostra finiva al Music Inn. Una delle prime volte che salii su quel palco dovevo accompagnare Tony Scott e a malapena sapevo suonare blues. Non c'erano tanti musicisti come oggi, c'era un'ingenuità tipica di quegli anni. Oggi mancano locali dove si viva per jam session. Mi capitano allievi che dopo poche lezioni sognano di andare in tour con Vasco Rossi e guadagnare soldi. Si dovrebbe partire dal piacere della musica, un concetto romantico, che forse oggi non funziona più.
Torniamo sul suo percorso, com'è finito negli Stati Uniti?
Conobbi a Roma una ragazza statunitense che poi ho sposato. Non sapevo molto, comunque chi si recava negli Stati Uniti prediligeva New York o Los Angeles. Era il 1978, New York mi attraeva ma spaventava molto per tutte quelle storie sulla criminalità. C'era anche un batterista che avevo conosciuto nella formazione di Tony Esposito e mi aveva contagiato questo interesse nei confronti di Los Angeles. Era il periodo della fusion, tanto che anch'io registrai qualcosa del genere con Chester Thompson alla batteria. Nello studio accanto i Weater Report stavano registrando "Night Passage" e un pomeriggio trovai mia moglie a giocare a biliardo con Joe Zawinul. In quel periodo a Los Angeles ho frequentato un corso di arrangiamento e composizione presso la Dick Grove School of Music, l'unica scuola dove si poteva scrivere un arrangiamento e con un frequenza settimanale avere un'orchestra che lo eseguiva. Dave Garibaldi dei Tower of Power insegnava batteria, ho frequentato anche seminari di Quncy Jones e Henry Mancini. Poi ho deciso di tornare per pochi mesi in Italia, per raggiungere presto mia moglie a New York. Ci siamo separati e più o meno nello stesso periodo Giammarco mi ha invitato a entrare nei Lingomania, così come Giovanni Tommaso mi ha inserito nel suo quintetto con Massimo Urbani. Dal canto mio ho messo in piedi il Fusion All Stars con Francesco Bruno alla chitarra. C'era fermento a Roma, così sono rimasto.
Dagli Stati Uniti ha portato con sé quella cifra stilistica di cui parlavamo e che oggi la contraddistingue, l'amore per la melodia?
Il concetto di contabilità fa parte del nostro Dna, tuttavia nel corso degli studi a Los Angeles ho avuto modo di apprendere fino in fondo la sua importanza. C'è chi si lascia attrarre da forme più complesse, io preferisco la contabilità che non vuol dire escludere la difficoltà. Ricordo gli insegnanti che mi dicevano come nel contrappunto le linee melodiche che si intrecciano devono in qualche modo essere cantabili, anche la linea del clarinetto basso. Wayne Shorter nella sua genialità e complessità scrive tutte le linee rispettando questo parametro. Per esempio "Atlantis", disco entusiasmante e complesso, si serve della contabilità come frammento chiave con il fine di smussare e rendere meno ostica una musica così complessa.
Non ritiene questa componente della narrazione una prerogativa dei fiati, magari chi suona la tromba?
Chet Baker, con cui ho anche suonato, cercava di suonare le note essenziali per esaltare la contabilità della melodia. Ho una grande ammirazione per quel modo di suonare, come anche per Miles Davis e la sua approfondita ricerca tesa a un lirismo assoluto. Non metto al bando il virtuosismo, però il jazz è formato da un insieme di tasselli, sempre nell'ottica di un senso ben definito: ci deve essere uno sviluppo, un crescendo, quindi la tecnica è importante. Però la composizione lo è altrettanto
Anche l'improvvisazione ha dunque un ruolo importante nella sua musica?
Per chi vuole suonare musica creativa come il jazz credo che l'improvvisazione sia un elemento cardine, così come lo è la composizione. In fondo l'improvvisazione non è altro che una forma di composizione estemporanea. C'è chi è più portato verso una direzione, ma se si riesce a combinare le due pratiche si è davvero un musicista completo. Chick Corea, per esempio, è un grande compositore e un grande pianista, scrive in modo meraviglioso e suona come un padreterno. Stesso discorso è adattabile a Keith Jarrett, con l'unica differenza che quest'ultimo di scrivere non ha molta voglia (o molto tempo). Alcune sue composizioni, come So Tender, sono incredibili. Ma Jarrett è così geniale che si potrebbe impugnare un suo qualsiasi disco di solo pianoforte, ascoltarne trenta minuti e realizzarci una sinfonia, o qualsiasi altra cosa. Questi sono doni innati che il pianista ha coltivato studiando il contrappunto.
Nella sua vita l'insegnamento è fondamentale?
Pongo la stessa passione nel suonare come nell'insegnare. Ho un mio metodo, ho idee piuttosto chiare, mi diverto anche molto, specie quando trovo allievi che si impegnano.
---Federico Scoppio

Ultimo aggiornamento: 01-Mag-2012