next essay Studi Storici 3, luglio-settembre 1995 anno 36


Franco De Felice, Antifascismi e resistenze

4. Adottare la categoria di "guerra civile" come criterio interpretativo della fase aperta dalla grande guerra, significa che già da allora è aperta la questione della nazione (nel senso proprio di Stato nazione) come forma adeguata di un'appartenenza comune. Su tale snodo esiste, in Italia, una discussione significativa, che ha conseguenze dirette sulla stessa valutazione dell'esperienza fascista: già Chabod tendeva a non isolare la specificità di tale questione nel complesso della vicenda italiana dopo il 1918. Pur dando grande spazio al tasso di novità registrabile nello svolgersi della vita ed organizzazione politica del secondo dopoguerra, la sua valutazione complessiva sottolineava piuttosto la capacità della compagine unitaria a reggere prove durissime e drammatiche; ciò era connesso al giudizio sul fascismo come una "estremizzazione" del nazionalismo21. Romeo invece, nel quadro di una valutazione di lungo respiro, riteneva che una questione della nazione si ponesse, ma solo dopo la seconda guerra mondiale ed i suoi esiti22. Analogo giudizio è presente nel complesso della interpretazione del fascismo italiano proposta da R. De Felice ed è stato ribadito con grande energia recentemente assegnando un valore periodizzante all'8 settembre 194323.

Dissento da tali giudizi e penso che la stessa esperienza fascista italiana, che fa del recupero e rinnovamento della nazione la ragione della propria legittimazione e l'obiettivo della propria "rivoluzione", esprime e teorizza una concezione della nazione che segna una discontinuità significativa non solo rispetto alla esperienza e cultura liberale ma anche a quella nazionalista. Emilio Gentile24 ha fornito un contributo molto denso e ricco su questo snodo storico-culturale essenziale.

Partendo come è giusto dal valore dirompente che ha la questione su cui si apre la crisi del fascismo il 25 luglio - la divaricazione tra fascismo e nazione -, Gentile raccoglie, organizza e propone una lettura di una mole molto ricca di materiali che copre l'intera esperienza fascista, dall'avvio "diciannovista" fino alla crisi della guerra. Senza voler ripercorrere neanche per grandi tratti il filo della riflessione proposta da Gentile, a me sembra che i punti significativi siano due: a) l'inversione dei rapporti che, a partire dalla seconda metà degli anni Venti, è possibile registrare tra nazione-Stato-partito (il fascismo da espressione e strumento della nazione che vuole diventare Stato, si investe del ruolo di creatore della nazione, strumento della riforma degli italiani. Su queste basi è fondata culturalmente la legittimità e la funzione dello Stato totalitario, etico-pedagogico, che interviene ad organizzare la vita "dalla culla alla tomba"); b) il modo in cui viene elaborato, nel corso degli anni Trenta, il rapporto tra nazione ed espansione, tra nazione ed impero, tra Europa e "nuova civiltà". La lettura della fase aperta dalla grande guerra come "crisi di civiltà", portava ad individuare nella creazione di unità imperiali, in un'Europa innervata dalla nuova civiltà che solo il fascismo poteva assicurare, il superamento dell'esperienza nazionale. La fortissima caratterizzazione ideologico-politica dell'appartenenza nazionale creata e teorizzata dal fascismo si riproponeva proiettandosi su di una realtà storico-spaziale piú ampia: la nuova civiltà (fascista) definiva l'appartenenza ad un'Europa rinnovata e in ciò risolveva - conservando o superando (su questo punto, nota Gentile, c'era discussione) - la piú limitata appartenenza nazionale. Lo stretto intreccio tra densità dell'ideologia e forme politico-istituzionali determinate attraverso cui tende ad esprimersi (Stato nazione, di cui ripete la logica costitutiva su una dimensione piú ampia) si conferma come tratto distintivo del secolo.

È possibile a questo punto cercare di ricondurre la profonda riorganizzazione dell'appartenenza nazionale, registrabile a partire dalla grande guerra, ad un processo di fondo, strutturale: lo scarto tra la nuova dimensione mondiale dei processi economici e politici, la ridefinizione di una gerarchia tra i protagonisti di questo scenario cosí dilatato e la limitatezza degli strumenti a disposizione (lo Stato nazione). La riorganizzazione dell'appartenenza nazionale avviata dal fascismo non è separabile dall'obiettivo della modernizzazione economico-produttiva ed ancor piú dalla modifica degli equilibri internazionali come condizioni per rimanere protagonista in uno scenario mutato25.

Recuperare il dato che la crisi della nazione non è conseguenza dell'esperienza fascista né tanto meno della "partitizzazione" dell'appartenenza, ma al contrario che la stessa esperienza fascista è dentro quella crisi di cui costituisce una risposta, non è senza effetti sul modo in cui viene impostato oggi il rapporto tra antifascismo e nazione e le forme e possibilità di un'appartenenza comune. Il riferimento deve essere costituito dall'analisi delle forme che ha assunto la risposta a quel problema, nella riorganizzazione europea del dopoguerra. Detto in estrema sintesi, ed anticipando alcuni elementi di cui parlerò successivamente, a me sembra che il punto centrale sia da individuare nell'equilibrio stabilito tra governo nazionale dello sviluppo (la conservazione cioè di strumenti del nazionalismo economico) e processi d'interdipendenza. Le forme di definizione dell'appartenenza seguono le linee già tracciate nel periodo tra le due guerre, perseguite con maggiore consapevolezza ed organicità (Welfare State, politiche stabilizzatrici e orientate all'occupazione ed al benessere), potenziate dalla espansione che al tempo stesso le consolida ed estende e ne è alimentata (domanda interna, sviluppo dei consumi); l'elemento di novità è che tali forme si intrecciano ed innestano con trend uniformizzanti che investono un'intera area, creando forme piú ampie di appartenenza. È quanto sostiene Milward nella sua analisi del "recupero" dello Stato nazionale europeo nel dopoguerra26. La funzione dirigente si risolve nella qualità e nel governo del rapporto stabilito tra questi due elementi. L'esperienza italiana non è diversa, nelle scelte, da quella degli altri paesi europei occidentali: la diversità sta nel modo in cui ha operato il rapporto tra nazionale ed internazionale, cioè nel tipo di equilibrio che si è venuto definendo.

Che l'equilibrio fissato nel secondo dopoguerra fosse sottoposto a fortissime tensioni in seguito all'operare della crisi mondiale ed al salto di qualità che la stessa esperienza europea doveva fare, trova conferma nell'affermarsi di orientamenti culturali che sembrano tendere a recuperare l'appartenza nazionale in termini classici. Molto significativo di questa tendenza è il dibattito, molto aspro, che nella seconda metà degli anni Ottanta, si avvia nella Rft sui crimini nazisti e sul loro ruolo nella elaborazione di una memoria storica tedesca27. Il dibattito si allarga subito ad una riflessione sul rapporto tra la Rft ed il passato, al recupero di alcune categorie classiche della storiografia tedesca (la Germania potenza del Centro europeo, ruolo costitutivo delle relazioni internazionali, rapporto tra politica interna ed estera). Fare i conti con il passato significava recuperare un senso ed una unità alla storia tedesca, una identità che, "sistemando" l'esperienza nazista, permettesse di superare il sentimento di una "colpa collettiva". Per questo è cosí importante nel dibattito la discussione sull'unicità oppure no della violenza organizzata nazista. Recuperare un rapporto con il passato significava ricreare le condizioni culturali che assicurassero alla Rft - sempre erede dell'intera storia tedesca - un ruolo politico europeo ed internazionale adeguato alla sua forza effettiva. Come è stato scritto limpidamente, un punto centrale che caratterizza la critica alla "storiografia sociale critica" ed al "primato della politica interna" da essa sostenuto è nella "riacquisizione di un atteggiamento responsabile da parte dei tedeschi nei confronti dell'idea di "potenza" intesa come categoria fondamentale della politica, in particolar modo della politica internazionale", sfuggendo ai due estremi dell'"ossessione della potenza" del nazionalsocialismo e dell'"oblio della potenza" del periodo successivo, quello dei "tedeschi addomesticati"28.

La congiuntura storico-politica in cui si avvia il dibattito storico tedesco è quella caratterizzata - nel quadro di una crisi mondiale che operava già da un decennio - da elementi significativi: forte contenzioso con gli Usa, segnali di processi nuovi nell'Urss, accelerazione del processo unitario europeo. Nella risistemazione dei rapporti internazionali era rilevante ripensare non solo il ruolo dei singoli paesi ma soprattutto i referenti culturali su cui innestare un piú stretto vincolo europeo. All'obiettivo relativamente piú ravvicinato dell'unità politica dell'Europa si tende a collegare una sistemazione del passato che, se non rimuova, per lo meno attenui e smussi la profondità e soprattutto la qualità delle fratture che ne hanno segnato la storia. Tale operazione culturale non è separabile dal parallelo recupero di una continuità della storia nazionale, di un'identità non fratturata, o comunque dall'esigenza che la consapevolezza della frattura non sia tale da condizionare pesantemente un ruolo dirigente e tendenzialmente egemonico. Il revisionismo storiografico, la "relativizzazione" dei crimini del nazismo, di cui si indigna Habermas, sono parte integrante ed espressione di questa operazione politico-culturale, che può convivere con il rifiuto e la condanna di nazismo e fascismo. Il recupero di una memoria storica può avvenire rimuovendo le discontinuità e la profondità delle lacerazioni su cui si costituisce? L'accentuazione ed esplicitazione che De Felice fa, nel suo ultimo libro-intervista29, di valutazioni già presenti nella sua ricerca, e di cui si conoscevano delle anticipazioni giornalistiche, contribuiscono a caratterizzare il dibattito attuale come una riproposizione attenuata della discussione tedesca di un decennio fa.

La rielaborazione della categoria schmittiana di "guerra civile" proposta da Nolte (l'edizione tedesca del suo lavoro è del 1987), individuandone i protagonisti nel nazionalsocialismo e bolscevismo (come partiti della guerra civile), datava al 1917 l'avvio della guerra civile; insistendo sul primato bolscevico nel fornire un modello di radicalità politica, nel trasformare il conflitto sociale in guerra di sterminio, dava un contributo importante ad una revisione storiografica e ad una ricomposizione del passato tedesco. Il lavoro di Nolte ha ovviamente la sua radice in una riflessione ed in un percorso di ricerca piú che ventennale, scanditi da una serie di contributi importanti, unificati dal comune obiettivo di ricostruire le moderne ideologie. Non è però casuale che sia stato uno dei protagonisti piú significativi di quella discussione: infatti rispetto al suo precedente studio edito nel 196330, che costituisce l'avvio del suo itinerario di ricerca ed un rilevante contributo all'analisi dell'esperienza fascista europea, il lavoro sulla "guerra civile europea" registra uno spostamento significativo su aspetti qualificanti, che va segnalato. Lo stesso Nolte, nell'introduzione alla nuova edizione italiana, pur ribadendo la rigorosità e continuità del suo itinerario di ricerca, riconosce l'esistenza di differenze rispetto al suo approdo ma tende a darne una lettura riduttiva: in realtà evidenzia il diverso ruolo che, nei due lavori, svolge la categoria di totalitarismo31 e non mi sembra un punto marginale. Nel lavoro del 1963 l'esperienza totalitaria è ovviamente presente ma non viene assunta come categoria esplicativa; quando viene discussa la relazione tra bolscevismo e nazismo gli elementi della diversità sono tali da prevalere nettamente sull'analogia delle forme di direzione; al contrario queste, dalla diversità delle finalità loro assegnate, ricavano una valutazione differenziata32. Non meno significativo è rilevare che nello studio sulla "guerra civile europea" l'Europa non opera realmente nella costruzione del discorso: l'aggettivo ha un valore descrittivo, indica un'area in cui si svolge il conflitto; nel precedente lavoro il riferimento all'Europa era ben altrimenti incisivo, non solo nella definizione dei tre volti del fascismo (Italia, Francia e Germania), ma come segnalazione di una questione storica determinata: come combinare imperativi di modernizzazione e sviluppo e la possibilità di conservare ed esercitare un potere di decisione su processi sempre piú mondiali? Anche se nella risposta che Nolte tende a dare sembra che i fascismi - come fenomeni europei che caratterizzano un'epoca - rispondano ad una sorta di necessità (il "partito" fascista "avrebbe avuto il proprio posto nell'Europa postbellica anche se Mussolini e Hitler non fossero mai vissuti")33, pure il dato importante sta nell'aver fissato quel rapporto determinato. Tale nesso successivamente tende a disperdersi nella enfatizzazione e polarizzazione del contrasto tra nazismo e bolscevismo.

L'analisi schmittiana della crisi dello Stato nazionale come quadro di organizzazione interna e come elemento dell'equilibrio dei rapporti internazionali (crisi dello "jus publicum europeum") poneva con nettezza il tratto caratterizzante della fase aperta dalla grande guerra: la radice europea del problema, il carattere europeo dei protagonisti ma anche l'impossibilità di impostare una risposta solo all'interno dell'Europa, senza cioè registrare la radicale novità che quel problema poneva e la profondità della riorganizzazione complessiva che imponeva. Una risposta doveva incorporare la modificazione del ruolo, peso e possibilità di incidenza dell'Europa nei rapporti internazionali e quindi attribuire a protagonisti non europei una funzione costitutiva di tale riorganizzazione. L'antifascismo è importante, non si esaurisce solo nell'organizzare la Resistenza e la lotta attiva contro il fascismo europeo ma è un elemento costitutivo della sistemazione successiva alla seconda guerra mondiale - e può essere quindi considerato come tratto caratterizzante del secolo - in quanto incorpora in sé l'insieme di questo processo di riorganizzazione.


Franco De Felice, Antifascismi e resistenze


 

21 F. Chabod, L'Italia contemporanea 1918-1948, Torino, Einaudi, 1961.

22 R. Romeo, Nazione, in Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1989, vol. IV; Id., Scritti storici 1951-1987, Milano, Il Saggiatore, 1990.

23 De Felice, interviste, 1993, cit.; Id., Rosso e nero, cit.; E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando, Bologna, Il Mulino, 1993; A. Lepre, Storia della Prima repubblica. L'Italia dal 1942 al 1992, Bologna, Il Mulino, 1993; sull'enfatizzazione dell'8 settembre cfr. le osservazioni di Pavone in Passato e presente della Resistenza, cit., pp. 112-113.

24 E. Gentile, La nazione del fascismo. Alle origini del declino dello stato nazionale, in Spadolini, a cura di, Nazione e nazionalità, cit.

25 D. Cofrancesco, Il mito europeo nel fascismo, in "Storia contemporanea", 1983, 1.

26 A. Milward, The European Rescue of Nation-State, London, Routledge, 1992.

27 G.E. Rusconi, a cura di, Germania. Un passato che non passa, Torino, Einaudi, 1987.

28 A. Hillgruber, La distruzione dell'Europa. La Germania e l'epoca delle guerre mondiali (1914-1945), Bologna, Il Mulino, 1991, p. 486.

29 De Felice, Rosso e nero, cit.

30 E. Nolte, I tre volti del fascismo. Il fascismo nella sua epoca, Milano, Mondadori, 1963; nuova ediz. Milano, SugarCo, 1994, da cui si cita.

31 Ivi, p. XIV.

32 Ivi, pp. 635 sgg.

33 Ivi, p. 22 e ancora p. 635.