next essay Studi Storici 3, luglio-settembre 95 anno 36


TRENTA ANNI DI SCUOLA. RELAZIONE*

Giuseppe Granata

Un discorso sulla esperienza didattica non può ovviamente iniziarsi che dall'oggetto su cui l'azione dell'insegnante si è esercitata e cioè dalle scolaresche stesse. Pur consapevole che solo per astrazione si può parlare degli alunni come di oggetti dell'altrui attività e che nella realtà concreta del magistero esiste solo il rapporto dialettico di discente e docente (un aspetto, questo, del piú vasto nesso, pur esso dialettico, di società e scuola), mi sembra valido il tentativo di ricostruire i progressi spirituali degli alunni che si sono succeduti sui banchi delle mie aule dagli anni del primo insediarsi della dittatura fascista ad oggi, progressi che solo in parte sono riconducibili all'effettiva opera della scuola. Non si dimentichi, infatti, che gli alunni prima ed oltre ad essere tali sono figli della famiglia e membri della società e che la scuola li riceve cosí come il mondo ad essa estraneo li ha, almeno parzialmente, formati.

Cercheremo soprattutto, a questo riguardo, di conoscere i mutamenti intervenuti nel corso dell'ultimo trentennio nell'interesse con cui i giovani si sono accostati all'insegnamento della storia e della filosofia. Ritengo di poter affermare a questo proposito che quell'interesse è oggi assai minore di quello di una volta. Piú di uno i fattori che, a mio giudizio, spiegano il fenomeno. In primo luogo l'esser venuto meno il fervore storicistico che caratterizzò i primi decenni del secolo, il periodo, cioè, in cui pressoché incontrastato era il predominio, specialmente nella zona di cultura media e giornalistica, dell'idealismo crociano e gentiliano. Ma piú importante e complesso ci appare il fattore politico.

Si viveva allora sotto la dittatura, e due categorie di giovani - gli entusiasti e i dubbiosi o avversari - traevano dalla situazione politica l'impulso a ricercare nelle due discipline o un fondamento alla loro istintiva e sentimentale adesione al fascismo o le ragioni ideali che gli altri sentivano dover esistere e dover legittimare la loro opposizione. Piú numerosi questi ultimi e non infrequente il passaggio, travagliato e talvolta drammatico, di qualche giovane dal primo al secondo gruppo [...] Che cosa trovavano gli uni e gli altri nelle mie lezioni? La norma cui sempre mi sforzai di rimanere fedele nel mio insegnamento fu da un lato il rispetto, in tutto ciò che dicevo, della verità, di quella che io ritenevo essere la verità, e dall'altro l'educare i giovani a non adagiarsi sulle opinioni fatte e comunemente accettate, a disprezzare la farisaica prudenza dei benpensanti che sempre è stata di remora ad ogni progresso civile e politico e soprattutto l'educazione alla fedeltà all'ideale abbracciato, checché fosse accaduto. Talvolta mi chiedevo, però, se era giusto da parte mia inculcare nell'animo dei giovani il dovere di una cosí assoluta intransigenza che poteva portarli, come effettivamente avvenne per qualcuno di essi, a scelte in cui una delle alternative era il rischio del carcere o per lo meno di un avvenire pericolosamente incerto. Piú vivo e angoscioso si faceva poi il mio dubbio al pensiero di quanto lontana da quell'esemplare intransigenza restava la mia condotta politica, il mio nicodemismo1. Valse a liberarmi dal dubbio, che in me mal si distingueva da un cocente rimorso, l'impegno col quale alla fine mi rigettai nella lotta antifascista e che mi condusse prima in carcere e poi alla deportazione in Germania. In questa nuova situazione mi fu piú facile apprendere con serenità che alcuni giovani, spinti forse anche dalle mie parole, si trovavano a sopportare analoghe sofferenze e ad affrontare analoghi rischi.

Sotto il profilo educativo, nel suo rivolgersi a quanto di piú nobile e generoso alligna nell'animo dei giovani, il mio insegnamento era dunque tale da soddisfare le esigenze sia degli alunni fascisti che degli oppositori. Ne erano prova l'unanime favore con cui veniva accolto e il rispetto, affettuoso e deferente ad un tempo, che ha accompagnato la mia opera in tutte le sedi [...] Ma era naturale che con gli alunni antifascisti si stabilissero rapporti di piú intima comunione spirituale. Erano rapporti quali potevano esistere in tempi di profonda lacerazione nel tessuto della società nazionale, come quelli della dittatura fascista e come in parte sono ancora oggi e come forse saranno, fino a quando non sarà risolta la crisi che travaglia tutta la società contemporanea. Il docente, che non può non schierarsi, voglia o non voglia, consapevole o non consapevole che ne sia, con una delle grandi correnti politiche e culturali in cui, piú evidentemente e drammaticamente che nel passato, si è diviso il mondo, si fa tramite nel suo insegnamento dei principi, dei motivi ideali di uno degli schieramenti in lotta, con la conseguenza che i giovani della sua parte, sentendolo a loro vicino, stabiliscono con lui rapporti analoghi forse a quelli che dovevano unire i docenti cristiani ai loro alunni nelle scuole pagane, all'epoca di un'altra grande crisi della civiltà.

Questo era ed è ancora in parte il caso mio. Ma ciò non implicava, e tanto meno implica adesso, alcuna faziosità nella mia diuturna opera nella scuola. Da questo lato il mio animo è tranquillo: so di non aver tradito il mandato affidatomi e di non essere venuto meno agli obblighi che, prima che dalla legge, mi son dettati dalla mia coscienza di educatore. Il mio insegnamento non era fazioso e settario perché non era dogmatico. Pur non nascondendo e lasciando agevolmente scoprire verso quale concezione del mondo si orientava il mio pensiero, mia cura costante era quella di mantenere l'insegnamento quanto piú possibile aperto al dialogo e alla discussione. Né ci si poteva aspettare di meno da chi, come me, aveva posto a base della sua opera educativa il rifiuto, nel campo delle idee e del sapere, di ogni principio di autorità e la fede nel potere illimitato della ragione. Ma da questa impostazione dell'insegnamento scaturiva implicitamente anche il rifiuto o l'adesione a particolari dottrine, che finivano col costituire la linea di divisione tra i fascisti e gli oppositori. Tale valore assumevano, ad esempio, il ripudio totale di ogni concezione irrazionalistica e misticheggiante (e questo al tempo in cui da piú parti si blaterava di "mistica fascista" e quando era universalmente conosciuta l'ammirazione di Mussolini per Nietzsche), ripudio che si estendeva all'idealismo gentiliano per il carattere quasi teologico del suo atto puro; la presentazione irriverente degli spiritualisti italiani dell'Ottocento e, al contrario, il manifesto favore all'esposizione del pensiero del Cattaneo. Lo stesso poteva dirsi della difesa dell'Illuminismo dalle critiche di uno storicismo esasperato e di quella del marxismo che indirettamente scaturiva dall'esame e dalla discussione delle obbiezioni crociane alla teoria marxista del valore e alla legge della caduta tendenziale del saggio del profitto.

Ma erano le lezioni di storia ad offrire maggiormente il destro alla discussione che vedeva poi schierati in opposto campo gli alunni fascisti e gli antifascisti. Il terreno piú frequente per gli scontri era il problema della portata del fattore sociale ed economico sugli eventi storici o quello dei rapporti tra "creature sovrane" e masse, e della rispettiva influenza nella storia. A questo proposito debbo confessare che, venendo meno all'obbligo dell'obbiettività, io calcavo esageratamente la mano nel tratteggiare la figura di Napoleone divertendomi a farne risaltare gli aspetti piú negativi e ridicoli. E se osavo tanto con un genio come Napoleone, si può immaginare come uscivano conciate dalla mia esposizione figure di rilievo di gran lunga inferiore. Finivo coll'essere ingiusto, ma valga come scusante l'intenzione che era buona. Parlavo a quel modo di autori di colpi di Stato, come Napoleone III, o di ministri autoritari e reazionari, come il Crispi, ma sapevo che gli alunni avrebbero ritrovato nel duce parecchi dei tratti che rendevano odioso e ridicolo il personaggio da me bersagliato. E non mi ingannavo. Me lo diceva il sorriso divertito dei ragazzi antifascisti e l'incupirsi dello sguardo degli altri. Ma subito dopo, osservando questi ultimi e vedendoli combattuti tra l'impulso a insorgere e protestare e il rispetto per l'insegnante che pur amavano, mi sentivo in disagio davanti a loro e maledicevo la dittatura che mi costringeva a siffatti mezzi.

Chi saprà mai l'amarezza dell'insegnante antifascista in quei tristi tempi, l'amarezza di sentirsi in colpa davanti ai propri alunni, in colpa di mancata sincerità e franchezza?

Se scarso campo al dibattito offrivano le biografie dei grandi personaggi storici, ben altrimenti avveniva per il problema della loro effettiva funzione nella storia. In generale la maggioranza finiva col riconoscere il peso determinante delle masse negli eventi del passato lontano, come la fine del mondo antico, la Riforma e la Rivoluzione francese [...] Piú vivace diveniva invece la discussione a mano a mano che l'oggetto dell'indagine si faceva piú vicino nel tempo, quando, cioè, quel riconoscimento e l'altro strettamente connesso dell'influenza nella storia del fattore sociale ed economico importavano determinate prese di posizione su problemi storici, che però nel clima fascista assumevano un carattere prevalentemente politico. Cosí era del problema, per esprimerlo nei termini del Rota, della spiritualità e dell'economismo nel Risorgimento. Sul problema in se stesso era relativamente facile raggiungere l'accordo ammettendo la presenza di entrambe le componenti e rinviando alla sede filosofica la primarietà dell'uno o dell'altro fattore. Le divisioni si accentuavano appena si passava alla valutazione complessiva del risultato al quale, sotto la spinta delle forze economiche borghesi e nell'assenza di una larga partecipazione delle masse, era pervenuto il moto di riscossa nazionale. Rivoluzione incompiuta e tradita: era la voce concorde. Ma in che senso tradita? I fascisti, sulle orme dell'Oriani, vedevano il tradimento nella decadenza, nell'Italietta postrisorgimentale, degli ideali di grandezza e di primato nazionale che, a loro giudizio, avevano costituito l'ispirazione fondamentale del pensiero politico italiano dell'Ottocento. Gli altri, che facevano colpa alla borghesia di aver deluso le aspettative di riforma sociale e di avere con ciò determinato l'assenza delle masse contadine dalle lotte del Risorgimento, lo vedevano invece nell'istituzione, dopo la raggiunta unità nazionale, di un regime che della democrazia aveva solo l'apparenza. Non si salvavano dalle loro critiche né la Destra storica né la Sinistra e neppure Giolitti, del quale del resto io, in opposizione all'apologia fattane dal Croce nella Storia d'Italia dal 1871 al 1915, mettevo in rilievo gli aspetti che ne giustificavano la definizione salveminiana di "ministro della mala vita".

Qualcuno mi muoverà l'appunto che, favorendo siffatte discussioni, allontanavo i giovani da una corretta concezione storiografica e li facevo cadere nell'errore di applicare nella valutazione del passato criteri di giudizio, piú che storici, morali e politici. In realtà io mi proponevo, è vero, di portare i giovani a una valutazione morale e politica, ma del presente e a ciò non ostava uno storicamente corretto ripensamento del passato. Mi sforzavo, infatti, di fare intendere che ogni epoca ha i suoi problemi e che non è lecito trasferire i problemi di oggi in un tempo che non poteva avvertirli, anche se unico è poi il criterio per la comprensione e valutazione storica degli eventi: il loro dipendere, cioè, dalle condizioni sociali ed economiche del tempo, il loro essere in funzione del reale rapporto tra forze sociali. Cosí era antistorico, mi sforzavo di far capire, far colpa alla borghesia dell'Ottocento di non aver posto mano a una radicale riforma agraria: quella borghesia aveva perseguito i suoi scopi e i suoi interessi dei quali nessuno poteva essere miglior giudice di essa stessa. Che il raggiungimento di quegli scopi avesse portato successivamente a conseguenze che tutti giudichiamo negative, era prova non di una sua colpa, ma della cessazione della sua funzione progressiva nella storia. Il passo da una tale costatazione alla condanna morale e politica era breve, e io nulla facevo per allungarlo, al contrario speravo che nella coscienza dei miei alunni si accorciasse ancor di piú mano a mano che l'esposizione degli eventi contemporanei, cioè della fase imperialistica del capitalismo, offriva l'occasione a meglio far risaltare il ruolo sempre piú regressivo di quella classe sociale. Per questo, chiaramente seppure con molta prudenza, facevo intravvedere il carattere borghese e capitalistico dello stesso movimento fascista, sia inquadrandone le origini nelle lotte sociali della Valle Padana nel dopoguerra e sia facendo in modo che i giovani scorgessero gli aspetti chiaramente "classisti" della sua attività di governo. Ad esempio, non trascuravo di ricordare, magari a titolo di semplice curiosità storica, che il primo decreto firmato da Mussolini era stato quello sull'abolizione della nominatività dei titoli azionari. Mia speranza era che gli alunni, specialmente gli antifascisti, comprendessero come la storia è sempre storia di lotte tra le classi e come la sorte del progresso civile e con esso dei grandi valori morali e politici è ineluttabilmente affidata alla classe che lotta per prendere il posto di quella sotto il cui dominio tutta la civiltà regredisce. In altri termini, facevo dipendere tutta la negatività della dittatura fascista dal suo carattere di reazione borghese. Ma per amore di verità e di giustizia, non trascuravo neppure di mettere in risalto le nefandezze delle democrazie borghesi. Sapevo di avvicinarmi, cosí, alle impostazioni propagandistiche del fascismo contro le cosiddette demoplutocrazie, ma tuttavia non ritenevo di dover nascondere ai miei alunni lo sfruttamento schiavista delle masse coloniali da parte degli Stati capitalistici, la spietatezza delle loro campagne d'Asia e d'Africa e il reale carattere classista dei loro ordinamenti costituzionali. Fidavo che, in questo modo, a poco a poco, nell'animo dei miei alunni si facesse strada il convincimento che solo quando fosse cambiata la guida della società, quando un'altra classe avesse preso il posto della borghesia, l'umanità avrebbe ripreso la sua marcia verso il progresso, e che nulla pertanto c'era da sperare in questo senso, per quanto riguardava il nostro paese, né da un eventuale ritorno all'ordinamento prefascista, né tanto meno dal fascismo che, come il regime che lo aveva preceduto, era espressione di interessi borghesi e capitalistici.

Tutto ciò, ovviamente, era da me fatto con molta prudenza fidando soprattutto nella capacità dei giovani di cogliere anche le piú sottili sfumature allusive e, lo ripeto ancora una volta, senza alcun tentativo di servirmi della mia autorità di insegnante per forzare all'adesione gli alunni, ai quali lasciavo sempre la piú ampia facoltà di discussione e la libertà di giungere a conclusioni le piú lontane da quelle da me sperate.

Si deve certamente a quest'aria di libertà spirante nelle mie classi il fatto che per tutto il periodo della dittatura io potei svolgere il mio insegnamento, e nel modo che ho esposto, con una certa tranquillità: gli alunni mi difendevano col loro silenzio e col rifiuto di ogni opera di delazione, e i presidi o ignoravano o fingevano di non sapere. Con particolare gratitudine ricordo il preside dell'"Annibale Mariotti" di Perugia, il compianto Don Pizzoni, il quale con abilità estrema riuscí ad appianare un incidente con le autorità fasciste che avrebbe potuto avere sviluppi assai pericolosi. Era stato provocato da certe parole poco rispettose per il duce pronunciate da una ragazza antifascista durante una trasmissione radio per la scuola. La cosa si era risaputa fuori, ne era stato informato il federale che, infuriato, chiedeva la testa dell'alunna e dell'insegnante che a quell'ora era in classe (ero io) e che non solo non aveva preso alcun provvedimento, ma si era anche astenuto dal dar notizia dell'accaduto alla presidenza. Don Pizzoni riuní il consiglio dei professori e, forte della sua autorità e del suo prestigio, ci chiese di accettare che non si aprisse alcuna discussione e ci si limitasse ad ascoltare la lettura di un verbale da lui stesso precedentemente redatto: un vero capolavoro di furbizia e di fine umorismo che si concludeva con la decisione presa all'unanimità (cosí vi era scritto) d'infliggere all'alunna poco educata la sospensione dalle lezioni per un giorno. A me si faceva l'appunto di essere rimasto durante la trasmissione fuori dall'aula a fumare (e non era vero).

L'unico provvedimento a mio carico (un trasferimento per servizio) fu preso dal ministero dell'Educazione nazionale per fatti compiuti dai miei alunni fuori della scuola. Era stata trovata a Rossano, la mattina del 4 novembre 1937, una bandiera rossa sul monumento ai caduti. Piú di un indizio designava come autori del gesto "criminoso" alcuni studenti del liceo dove insegnavo. Ma poiché non furono raggiunte le necessarie prove, i giovani, che nel frattempo erano stati arrestati, vennero prosciolti. Restava però il sospetto (ed era un sospetto molto ben fondato) che nell'anno XVI dell'era fascista esistessero ancora studenti liceali i quali si opponevano decisamente al regime e su una linea di cui quella bandiera rossa era un indice molto eloquente. Al ministero non dovevano avere avuto molte occasioni di fare una tale costatazione, anzi, secondo l'ispettore venuto al liceo, ciò accadeva per la prima volta. Nel suo affettato ottimismo (solo affettato, perché era uomo assai acuto e conosceva certamente la situazione della scuola italiana e sapeva muoversi in essa con comprensione ed equilibrio), l'ispettore arrivava a dire che gli unici studenti antifascisti d'Italia erano quelli del liceo di Rossano. Di questa stranissima cosa andava perciò cercata la causa. Le autorità politiche e di polizia locali la trovavano nella suggestione che esercitava sull'animo degli alunni il mio passato di antifascista, in città da tutti conosciuto e che probabilmente la fantasia giovanile arricchiva e aureolava di romantiche esagerazioni sui processi del '23 e del '27. Proponevano pertanto il mio allontanamento dalla scuola. E in questo senso decise poi il ministero trasferendomi per servizio al liceo di Matera.

Questa, a grandi linee, sotto la dittatura fascista la situazione della scuola come io la conobbi. Di essa - e spero di essere riuscito a mostrarlo - l'elemento piú vitale, quello che permetteva di non disperare del futuro, erano i giovani. Pochi o molti a seconda degli anni e delle classi, con la decisa opposizione o magari solo con i loro tormentati dubbi, essi riuscivano a schiudere un varco nella cappa conformistica che il regime avrebbe voluto imporre a tutta la nazione. L'altra oasi nel deserto spirituale che era l'Italia di allora la si poteva rinvenire nelle fabbriche o nelle cascine (penso a quella di papà Cervi) dove gruppi di operai e di contadini trovavano nella coscienza di classe, mantenuta salda nei cuori e nelle menti, il fondamento di una incrollabile fede nell'avvenire. Ma i testimoni piú alti di questa fede erano i reclusi politici degli ergastoli di S. Stefano e di Porto Longone e i confinati nelle isole. Talvolta il pensiero dolorosamente andava alle loro sofferenze, al loro sacrificio, ma non ebbi mai il coraggio di additarne agli alunni l'esempio nobilissimo. Come cancellare dalla mente il ricordo della viltà che mi trattenne quella mattina dell'aprile 1937 di dire ai miei ragazzi cosa era l'angoscia che mi stringeva al cuore dal momento che, andando a scuola, avevo appreso dal giornale (due righe a piè di pagina) la morte di Antonio Gramsci? E c'era in classe chi aveva letto e forse aspettava da me una parola se non di esecrazione per gli assassini, almeno di rimpianto per il grande morto. Ma ora che a scuola si può liberamente parlare anche di Gramsci, qual è la reazione degli alunni?

Eccomi cosí ritornato al punto dal quale ha preso le mosse la presente relazione: l'indagine sugli atteggiamenti spirituali delle scolaresche di ieri e di oggi, e in particolare sul loro interesse all'insegnamento della storia e della filosofia. Ho detto quale era, come si manifestava negli anni del fascismo l'interesse dei giovani alle due discipline e ho indicato i fattori che, a mio giudizio, ne determinavano l'estensione e l'intensità. Quale invece la situazione odierna?2 Bisognerebbe ricominciare dalle prime ripercussioni che il crollo del regime, l'occupazione tedesca e poi la Liberazione ebbero sulla scuola. Ma io non ne ho una conoscenza diretta, perché ripresi il mio posto nel liceo di Perugia, dove ero stato trasferito da Matera, solo nell'ottobre del '45, cioè dopo piú di un anno dalla Liberazione. Né contano molto ai fini della presente indagine i due mesi d'insegnamento nell'Istituto magistrale "N. Tommaseo" di Venezia. Già, c'è anche l'esperienza di un insegnamento nel territorio e al soldo della Repubblica sociale nella movimentata successione delle mie vicende dal maggio del '43, quando fui arrestato e deferito al Tribunale speciale. Liberato dopo il crollo del regime, venni nuovamente arrestato dopo l'8 settembre e deportato in Germania con un'altra ventina di antifascisti e di semplici e innocenti rastrellati. Avemmo però la fortuna, noi del gruppo perugino, di non essere inviati in un campo di concentramento. Ci accolse prima un Lager di prigionieri di guerra e poi, quando si scoperse che non eravamo militari, fummo inviati al lavoro in qualità di Freiarbeiter. Cosí io feci prima il minatore in una cava di pietra presso Garmich e poi il facchino nella Brauerei di Peissemberg. Ma mi ammalai e deperii a tal punto da costringere le autorità tedesche a rimpatriarmi.Non per nulla ero un Freiarbeiter.Un compagno dello stesso gruppo perugino, rimpatriato con me, morí appena giunto a Bolzano. Io arrivai a Venezia verso la metà d'agosto del '44. Per qualche mese riuscii a curarmi e a mantenermi con l'aiuto di qualche amico e di parenti che vivevano però anche loro in grandi ristrettezze. Ma con l'approssimarsi dell'inverno decisi di non continuare a sfruttare amici e parenti e di cercarmi un'occupazione. Purtroppo non so fare che il professore e, d'altronde, credo che nella Venezia sopraffollata di allora neanche uno piú versatile di me avrebbe trovato facilmente lavoro. Non mi restava pertanto che riprendere il mio posto nella scuola. Ci tenni però a riprenderlo a testa alta. Nei seguenti termini rivolsi infatti la mia domanda al provveditorato di Venezia:

Considerato che il Ministero dell'Educazione Nazionale, pur conoscendo i miei precedenti politici (l'arresto del 22 maggio 1943, la scarcerazione del 31 Luglio, il successivo arresto del 17 Ottobre con relativo internamento in Germania), mi ha sempre riconosciuto titolare della cattedra di filosofia e storia nel Liceo di Perugia, e a questo titolo ha continuato a corrispondere alla mia famiglia l'intero stipendio; considerato che non è richiesto alcun giuramento che d'altra parte io non sarei disposto a presentare in nessun caso; considerato che l'insegnamento non ha attualmente carattere politico (né io d'altra parte sarei disposto a dar al mio insegnamento un carattere fascista); credo di potervi chiedere senza venir meno al mio onore e senza rinunciare alle mie convinzioni politiche che mi venga assegnata una cattedra di filosofia e storia in un liceo di Venezia, città dove risiedo. Con osservanza. Venezia 24 Ottobre 1944.

Il provveditore trasmise la domanda al ministero, il ministro ci pensò su alcuni mesi e solo a febbraio mi comunicò di avermi assegnato la cattedra di filosofia e pedagogia nell'Istituto magistrale "N. Tommaseo".

Dei due mesi d'insegnamento veneziano è rimasta nella mia memoria una traccia debolissima. Saranno state le mie condizioni fisiche di allora e la tensione dello spirito che a tutt'altro si rivolgeva, certo è che io non ne ricordo quasi nulla. Come attraverso un velo di nebbia affiorano alla mia mente volti spauriti di ragazze che in poche siedono sui banchi di aule quasi vuote e l'incantevole dolcezza del loro parlare. Ma che dicono? E che dice loro il canuto professore dai vestiti mal rattoppati e che sembra uscito dalla tomba? Ne ho un ricordo vago e confuso, ma certamente nulla che rifletta l'anima, il tormento di quei giorni, di quella vigilia. Avrò parlato a quelle ragazze di Froebel e Pestalozzi, di Lambruschini e di Gabelli, e avrò anche cercato di farle consapevoli della nobiltà del compito cui sarebbero state chiamate, di prime mediatrici tra le vecchie e nuove generazioni, ma come pensare di esservi riuscito parlando in astratto e quando non potevo dire, perché la storia non aveva ancora detto l'ultima parola, a quali concreti valori dovevano esse ispirare la loro opera educativa? [...]

Venne la Liberazione, e col nuovo anno scolastico 1945-46 ripresi il mio posto nel liceo di Perugia. Non trovai piú nessuno dei vecchi alunni, ché anche quelli che avevo lasciato in prima liceale avevano conseguito la maturità. Fu un'esperienza sconcertante il riprendere contatto con i giovani in un'atmosfera spirituale nuova e del tutto inattesa. Chiusi in una corazza di apparente indifferenza che poteva anche sembrare vera e propria sordità morale, respingevano ogni mio tentativo di avvicinarmi loro, ogni invito al dialogo e alla discussione. Non tardai a rendermi conto di cosa era accaduto. Per lo spirito giovanile, del quale la nota piú profonda è certo la generosità, le parti si erano invertite. I perseguitati erano divenuti persecutori, e persecutori anche ingiusti a giudicare dal trattamento che alcuni di quei ragazzi ritenevano essere stato fatto dalle commissioni di epurazione ai loro padri: impiegati e funzionari che avevano aderito in buona fede al fascismo, che magari avevano ottenuto qualche promozione per meriti littori, il cui riconoscimento probabilmente si erano procacciati con titoli falsi, e che comunque essi, i figli, amavano e temevano di tradire in qualche modo se si fossero schierati con chi li aveva ridotti in quella condizione. Se questo, però, poteva spiegare l'atteggiamento di una parte degli alunni, non valeva per altri che sapevo appartenere a famiglie una volta notoriamente antifasciste.

Qui giocava un altro fattore; la rottura dell'unità dell'antifascismo in conseguenza dell'accentuarsi (in Umbria in misura assai notevole) della lotta di classe. Ragazzi, figli di ricchi e agiati proprietari di terre o di industriali, che qualche anno prima si sarebbero infervorati nella discussione di problemi storici e filosofici, ora opponevano una resistenza passiva ad ogni sollecitazione in questo senso. Erano diffidenti e verso di me e verso le materie che io insegnavo, nelle quali trovava posto l'esposizione delle idee e degli ideali che essi sapevano animare gli operai e i contadini nella lotta contro i loro genitori. Dalla ostilità istintiva verso una particolare concezione essi erano cosí indotti a coinvolgere nella stessa ostilità, non disgiunta da un certo disprezzo, le discipline che a quella dottrina riconoscevano validità e dignità storica e teoretica. Non faccia meraviglia questo fatto, non si pensi che sarebbe stato piú logico attendersi da quegli alunni un maggiore interesse alla storia e alla filosofia e un maggior impegno nella discussione al fine di opporre alle idee odiate altre idee e altre concezioni del mondo. Quali idee? Del fascismo battuto in breccia e superato non era piú il caso di parlare e neppure di concezioni d'ispirazione cattolica, ché l'Umbria non era mai stata terreno propizio per esse, e quei ragazzi erano figli, per la maggior parte, di fieri anticlericali e massoni. Né valevano di piú per la bisogna, anche se suffragate dal prestigio che ad esse dava il richiamo a Benedetto Croce, le dottrine del movimento di Giustizia e libertà, poi trasformatosi in Partito d'azione allora all'apice della sua fortuna. La realtà della lotta di classe in Umbria rivelava anche ai ciechi l'inanità della soluzione terzaforzista; quella realtà imponeva una scelta: o con gli uni o con gli altri, o con i padroni o con i contadini. I figli dei padroni avevano fatto la scelta in cuor loro, e sapendo o sospettando di non poterne trovare le motivazioni e giustificazioni ideali sul piano storico o filosofico (non era ancora venuto in soccorso l'americanismo con l'apologia del neocapitalismo e delle human relations e neppure il revisionismo marxista), finivano con lo scivolare in un qualunquismo culturale, della cui degradante bassezza era tipico il ritornello: "una cosa è la teoria, un'altra la pratica". Nulla distingueva piú questi giovani (e ve ne erano di ben dotati) dalla palude, la zona grigia che esiste in ogni classe, quella degli alunni che non partecipano non si interessano e non hanno problemi.

È duro far lezione in classi cosí sorde; il nostro ufficio, che malgrado tutto io continuo a ritenere altissimo e nobilissimo, si abbassa allora al mestiere del ripetitore e del preparatore agli esami. Ma io non mi arrendevo e non mi rassegnavo. Reagivo contro quella sorta di qualunquismo che paurosamente si estendeva anche fra alunni che pure da nessun interesse di classe, figli di piccolo borghesi quali erano, potevano essere indotti a una scelta istintiva, e difatti non sembrava che l'avessero fatto. Cercavo di scuotere quei ragazzi richiamandoli alla consapevolezza di se stessi, della loro umanità, del dovere di sollevarsi da una condizione di immediatezza quasi animale, del dovere, in una parola, d'impegnarsi e prendere posizione di fronte ai grandi problemi della nostra civiltà. Vivere una vita autentica - dicevo specialmente per coloro che mi sembrava propendessero a cercar rifugio nell'esistenzialismo -, non deve significare coccolamento del proprio io e riflessione sulla morte, ma consapevole scelta del proprio posto nella grande lotta cui è legato il futuro destino dell'umana civiltà. Non mi interessava la natura della scelta (ma sapevo, poiché si trattava di giovani intelligenti e generosi, che sarebbe stata la buona), mi stava piú a cuore che quei ragazzi scuotessero da adosso l'ignavia, la vigliaccheria intellettuale che li riduceva e abbassava a inutile peso sulla terra. D'innegabile efficacia per il risveglio delle coscienze era il richiamo della tradizione culturale classica e nazionale, dal Prometeo di Eschilo all'Ulisse dantesco, da Machiavelli ad Alfieri e Mazzini, ma il timore di cadere nella retorica e la convinzione che ancor piú efficace è l'appello al dovere morale mi inducevano a preferire per il mio insegnamento una impostazione moralistica (nel senso migliore del termine). Mi era di grande aiuto a questo fine il commento a Kant. Sulle orme del pensatore tedesco (ne ricordavo anche il saggio sul detto: "È giusto in teoria, ma non vale per la pratica"), facevo vedere l'inconsistenza del riparo dietro al quale essi intendevano nascondere la viltà del loro qualunquismo. Ma porre con Kant la problematica dell'azione sul piano del dover essere non significava accettarne il rigido formalismo e tanto meno indulgere a tentazioni metafisiche.

La lezione storicistica non andava perduta, e tanto meno la lezione di Marx. Seguendo una interpretazione, a mio giudizio legittima, del marxismo, era mia cura mostrare come l'impulso piú profondo del divenire storico stia nella volontà rivoluzionaria della classe chiamata di volta in volta dalla storia alla guida della società.Ciò implicava il rifiuto di una concezione fatalistica della storia. I grandi mutamenti storici, l'affermarsi, cioè, di una classe al posto di un'altra, tenevo a chiarire, non si producono spontaneamente e con ineluttabile necessità in corrispondenza delle modificazioni intervenute nei rapporti di produzione. Levatrice della storia è la volontà rivoluzionaria. Senza il suo attivo intervento anche a tempi economicamente e socialmente maturi possono non corrispondere adeguati mutamenti nella sovrastruttura. Concezione attivistica, dunque, ma che si manteneva lontana da ogni irrazionale fideistico volontarismo, poiché la volontà rivoluzionaria di cui parlavo era pur sempre ancorata sul solido terreno dei rapporti di produzione e dei loro mutamenti. Ma anche concezione moralistica perché spiegava l'insorgere della volontà rivoluzionaria nella coscienza del singolo come risposta a un appello del dovere. E a provare che cosí fosse indicavo gli infiniti esempi che offre la storia e la nostra stessa esperienza di contemporanei del grande rivolgimento in atto. [...]

Risultati? Piuttosto scarsi. Si accese qualche discussione, a tratti notai un maggior interesse alle due discipline, ma in generale l'atteggiamento degli alunni, tranne di pochissimi, rimase quello già descritto. Onestamente debbo aggiungere che dei pochi giovani che riuscirono a scuotersi dalla indifferenza qualunquistica, alcuni, i migliori, lo fecero per la suggestione che sul loro spirito esercitò l'insegnamento extrascolastico di Aldo Capitini.

Nel '49 fui trasferito da Perugia a Roma, al Liceo "Dante Alighieri". Il mio nuovo istituto sorge a due passi dal palazzo di Giustizia in un quartiere d'impiegati, magistrati, ufficiali e professionisti, un tipico quartiere di piccola borghesia. E la forma mentale, le ideologie, i pregiudizi tipici di questo ceto era possibile rinvenirli tutti nella nostra scolaresca. In piú, rispetto alle scolaresche di altre sedi dalla composizione sociale su per giú analoga, ho notato un maggior ossequio alla religione e alle sue pratiche (di cui sono prova l'abitudine quasi generale di segnarsi allo scoccare del mezzogiorno e il prestigio dei sacerdoti e dei frati insegnanti di religione), un maggior reverenziale e timoroso rispetto dell'autorità, infine un piú accentuato spirito di corpo alimentato dalla impostazione agonistica, con relative gare sportive con altri istituti, dell'insegnamento assai ben curato dell'educazione fisica. A me che venivo da altre esperienze e concepisco il mio compito d'insegnante nella maniera di cui la presente Relazione forse è riuscita a dare un'idea, quella situazione diede fin dal primo momento l'impressione del piú desolante squallore. Gli alunni, che pur non conoscevano nulla del mio passato, dovettero avvertire che il nuovo professore di storia e filosofia mal si accordava col concetto d'insegnante a loro familiare. Immagino il turbamento e la sorpresa che, poverini, dovettero provare assistendo allo scontro tra me e il preside, quando io alla loro presenza rinnovai fermamente il rifiuto, prima opposto al bidello, di dar lettura della burbanzosa circolare ministeriale minacciante sanzioni disciplinari agli studenti che avessero partecipato a una prevista dimostrazione popolare contro il comandante della Nato.

Quel rifiuto ebbe un seguito. Io fui punito con la sanzione della censura, ma tengo a far presente ancora una volta, trascrivendo quanto allora ebbi a comunicare al ministero della Pubblica istruzione, che ad agire a quel modo mi aveva spinto solo quello che ritenevo e continuo a ritenere il mio dovere di educatore. Questa era stata la mia sfortunata difesa:

Quando il 17 gennaio c.a. [1951] mi fu consegnata la circolare da leggere agli alunni, dopo averla scorsa rimasi per qualche tempo incerto ed esitante sul modo di comportarmi. Sentivo fortemente il richiamo di due contrastanti doveri ed ero combattuto da due opposti impulsi: l'uno scaturiva dal mio senso della disciplina e mi spingeva ad ubbidire, l'altro sorgeva dal piú profondo della mia coscienza d'educatore e mi esortava al rifiuto. L'educatore prevalse e riconsegnai la circolare al bidello dicendo che non l'avrei letta ai giovani. Nel silenzio della classe (gli alunni avevano intuito e seguito con l'animo sospeso la lotta che in me si combatteva) ripensai alle molteplici volte in cui, illustrando vite di pensatori ed uomini d'azione, avevo parlato del dovere della fedeltà a se stessi, del dovere cioè di rimanere, qualunque cosa accada, fedeli alle proprie convinzioni, alle proprie idee e maggiormente mi convinsi che non potevo, proprio io, farmi portavoce di una autorità la quale minacciava sanzioni disciplinari ai giovani che avessero il giorno successivo testimoniato in qualche maniera le loro convinzioni. [...]

La scossa, che quell'incidente dovette provocare nell'animo degli alunni, fu di breve durata e non diede luogo a sensibili modificazioni nel loro atteggiamento.Continuavano a studiare le mie materie come le altre e ne traevano il discreto profitto che le commissioni di maturità venivano a sanzionare ogni anno promovendo quasi sempre il cento per cento dei candidati.Sotto l'aspetto statistico e anche culturale c'era e c'è di che essere contenti: i nostri ragazzi escono dal liceo con una conoscenza della storia sufficientemente inquadrata nelle due coordinate del tempo e dello spazio e con una passabile informazione sulle principali dottrine filosofiche. Ma basta ciò? A me non bastava. Scontento e deluso, cercavo di scoprire che cosa rendeva cosí diversi quei ragazzi dai loro fratelli maggiori e ancor piú dai loro padri. APerugia ritenevo di averne individuato la causa nella mutata situazione politica. Ma le ragioni che potevano spiegare l'atteggiamento dei figli dei fascisti non valevano piú ora che gli epurati erano stati riammessi ai loro posti con tutti gli onori e con la liquidazione di ricchi arretrati, mentre in carcere andavano sempre piú spesso i partigiani. E d'altra parte fra i nostri alunni i figli dei ricchi agrari e industriali sono l'eccezione, appartenendo la stragrande maggioranza alla piccola borghesia delle professioni e dell'impiego. [...]

Al contrario di quanto avveniva una volta, quando le posizioni piú intransigentemente rivoluzionarie e quindi ispirate a principi universali e a concezioni generali del mondo venivano assunte dai piú giovani, ora sono questi invece i piú accomodanti e i piú propensi al compromesso riformista col presente. Non nascondono il loro scetticismo di fronte ai programmi di rinnovamento generale della società; per loro la politica altro non è né deve essere, se non scelta di soluzioni ai problemi particolari che si presentano di volta in volta e azione per attuarle; per loro il credere che tutto non finisca lí è dar prova di mentalità ipostatizzante. Le nuove generazioni vogliono vivere quanto piú intensamente possibile il presente e si rifiutano ad ogni proiezione e ad ogni impegno della volontà verso il futuro: dimensione del tempo, questa, che ovviamente non interessa chi persegue il guicciardiniano "particulare".

Ma forse sono ingiusto. Non si tratta di egoismo, o, per lo meno, non solo di questo; c'è anche la delusione di cui parlavo, e c'è l'amore di concretezza cosí caratteristico dei giovani di oggi e che per se stesso non è affatto negativo. Che sia nel torto io e che abbiano ragione invece questi nostri ragazzi: sportivi, ma che studiano la matematica e le scienze assai meglio di quanto non facessimo una volta noi; collezionisti di fotografie di stelle del cinema, ma che guardano le compagne di scuola con occhi limpidi e puri e si comportano con esse con una scioltezza di modi e una franchezza che meravigliano quanti di noi ricordiamo l'impaccio dei nostri rari rapporti con le compagne di classe timide e rosse di vergogna piú di noi; appassionati del "Musichiere", ma che si rivelano anche capaci di comprendere e gustare la bellezza di un canto dantesco e della pittura degli Umbri; tifosi di "Lascia o raddoppia", ma che sanno di storia e filosofia molto di piú di quanto ne sapessero gli studenti di quarant'anni fa?

A un giudizio ancora piú favorevole si è indotti quando si passi dalla considerazione generica sulle scolaresche a quella sulla personalità se non di tutti, di parecchi alunni di ogni classe [...] E allora, ho cambiato parere circa lo squallore spirituale di cui dicevo di avere avuto netta la sensazione all'arrivo nel Liceo "Dante"? No, non ho cambiato parere. Ma la spiegazione di come si concilii ciò col giudizio favorevole che pur non posso non dare su tanti aspetti della personalità dei nostri alunni, di come si concilii con l'affetto che provo per loro e che essi mi ricambiano in maniera talvolta commovente, è implicita in tutto quanto ho finora esposto, nella concezione, cioè, del mio compito di insegnante ed educatore in una scuola secondaria superiore frequentata dai figli della borghesia e del ceto medio.

Ma che ha a che fare tutto ciò col mio compito di insegnante e di educatore? Rispondo con le parole di Gioberti, il quale assegnava alla cultura e all'educazione il compito di destare nuovi bisogni "il cui genere è riposto nella natura intrinseca dell'uomo e del mondo" e poneva fra essi "l'autonomia delle nazioni e il riscatto delle plebi, che è quanto dire del maggior numero". E invero l'istruzione e l'educazione non possono prescindere dalla considerazione delle condizioni della società e dei suoi bisogni. Ma non spetta allo Stato determinare e indicare le une e gli altri? Eccoci al punto. Per la concezione che io accetto lo Stato non è l'espressione di tutta la società, ma solo della classe dominante. E io sentirei di tradire il mio compito di educatore se accettassi di assegnare alla mia opera nella scuola le finalità fissate dallo Stato classista, cosí come per il Gioberti avrebbe tradito la sua missione l'insegnante della scuola del Regno di Napoli che avesse accettato di ispirare la sua attività educativa alla determinazione fatta dallo Stato borbonico dei bisogni della società, fra i quali non poteva certamente trovare posto l'autonomia delle nazioni e il riscatto delle plebi.

La concezione che io accolgo mi suggerisce qual è lo Stato presente della società, quali i suoi problemi, quali le sue esigenze: la lotta tra le classi all'interno degli Stati capitalistici, la lotta sul piano mondiale tra il campo del capitalismo e quello del socialismo; la portata e il significato di questa lotta per il destino dell'umanità, rappresentando l'una parte il disperato tentativo di mantenere la società nello stato presente e l'altra l'esigenza di un radicale mutamento che porti alla fondazione di una società senza classi in cui sia abolito lo sfruttamento e realizzata la liberazione di tutti e di ognuno. Dal convincimento che tale sia appunto la situazione del nostro tempo scaturisce imperiosamente per me la necessità di fissare alla mia opera nella scuola il compito di promuovere nei miei alunni la consapevolezza della situazione storica in cui ci è toccato di vivere e di richiamarli al dovere di prendere posizione nella lotta in corso dalla parte del progresso, dalla parte cui è legato il destino dei valori piú fecondi e validi per l'umanità tutta. L'unico limite a questa mia azione nella scuola è l'obbligo di condurla in maniera non dogmatica e nel rispetto delle opinioni altrui. [...]

* Questo testo corrisponde a circa la prima metà della Relazione, scritta da Granata nel 1958 e diretta al preside del Liceo "Dante Alighieri" in Roma. Sono stati tolti i riferimenti diretti al destinatario ("Signor Preside"), e il testo è stato alleggerito con vari brevi tagli, indicati con [...]. L'invito alla lettura di questo testo mira a far meglio conoscere al lettore la qualità umana dell'insegnamento di Granata. (G.M.)

1 G. Granata (Messana), Nicodemismo antifascista, in "La Voce della scuola democratica", II (XII), n. 9, 1° maggio 1995. Cfr. G. Manacorda, Storia di un antifascista.Giuseppe Granata. (ndc).

2 L'autore si riferisce al momento in cui scrive queste note, cioè al 1958 (ndc).