Studi Storici 3, luglio-settembre 95 anno 36


«CATENE DI CIVILTÀ». MORFOLOGIA E STORIA NELL'ULTIMO SPENGLER

Andrea D'Onofrio

L'opera e l'attività di Oswald Spengler è stata fino ad oggi certamente analizzata da una vastissima bibliografia critica, che si è incentrata però spesso generalmente sui lati piú appariscenti di questo personaggio, cioè sullo Spengler morfologo de Il Tramonto dell'Occidente e sullo Spengler polemista politico. Domenico Conte nel suo libro Catene di civiltà. Studi su Spengler (Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1994), articolato in tre capitoli ed un'appendice finale (in quest'ultima viene delineata in modo dettagliato la morfologia storica comparata spengleriana), affronta l'analisi da una visuale il piú possibile originale, libera da schematismi preconcetti ed interpretazioni stereotipate. Nei tre capitoli in cui sono trattati tre blocchi tematici diversi e che quindi possono essere letti autonomamente, nonostante ad essi sia sottesa un'ispirazione unitaria, si cerca di far ulteriormente luce su Spengler visto non solo come indiscusso protagonista, spesso ambiguo e contraddittorio, del suo tempo, ma anche specialmente come «spia» particolarmente sensibile di atteggiamenti intellettuali e di tendenze culturali della sua epoca. In tal senso la figura e la produzione di Spengler sono analizzate da Conte frequentemente sullo sfondo di un piú vasto panorama culturale, anche attraverso interessanti letture incrociate con alcuni intellettuali dell'epoca.

Nell'intenzione di mettere maggiormente a fuoco certi aspetti dell'attività di questo controverso personaggio e inquadrarli comunque in una visione globale e non parziale della sua opera, il lavoro di Conte si distingue specialmente anche per il fatto di aver tenuto in debito conto il «secondo Spengler», quello piú oscuro e meno conosciuto. È lo Spengler che emerge, in particolare, da quella cospicua parte del suo lascito pubblicata alla fine degli anni Sessanta da Koktanek, uno dei maggiori studiosi spengleriani; questi scritti sono stati però sorprendentemente quasi ignorati fino ad oggi da gran parte della critica internazionale. Conte, invece, basa la sua analisi anche proprio sull'esame di tale lascito, che non sempre risulta di facile lettura per la sua frammentarietà, e contribuisce quindi cosí a diradare non poca della nebbia calata sulla produzione spengleriana degli ultimi quindici anni.

Il primo capitolo («Le legioni di Cesare si ridestano». Spengler e la politica) è dedicato allo Spengler che volle incarnare la funzione di educatore politico della Germania; inquieto profeta ora del prussianesimo ora del «socialismo germanico», e per alcuni aspetti precursore spirituale del nazismo. Qui Conte apre, tra l'altro, un'interessante parentesi procedendo alla lettura incrociata Jünger-Spengler, in particolare attraverso l'analisi di Der Arbeiter, rivelando le differenze, ma anche sconcertanti affinità.

Pure Spengler dunque, come è accaduto per altri rappresentanti della cosiddetta «rivoluzione conservatrice», ha rivestito, forse in maniera anche maggiore, un ruolo particolarmente ambiguo nei confronti del nazionalsocialismo. Conte, che ha già avuto modo in altre sue ricerche di scandagliare a fondo certi aspetti della cultura völkisch della Repubblica di Weimar, rileva l'indubbia ricaduta su ambienti nazisti dello Spengler politico. Molte delle sue affermazioni e dei suoi concetti entreranno infatti a far parte della fraseologia e dello strumentario concettuale usato dai nazionalsocialisti. L'autore evidenzia inoltre singolari punti d'intreccio in alcuni momenti della vicenda politica di Spengler e di Hitler: entrambi scelsero come patria elettiva Monaco, l'Eldorado delle frange estremiste della destra weimariana; Spengler stesso ebbe forti legami con gli ambienti putschisti; inoltre nel luglio del 1933 vi fu a Bayreuth un incontro diretto tra i due, che però non ebbe alcun seguito. Ma, come già è stato detto, quello di Spengler e il nazismo fu un rapporto complesso; egli rivestí infatti il ruolo di un padre che disconosce i figli, come appare dalle critiche, anche dure (contenute pure in alcuni frammenti del lascito), che rivolse al nazionalsocialismo, attirandosi a sua volta feroci attacchi da parte di alcuni autori nazisti. Proprio qui però Conte mette in risalto un'importante sfumatura: anche laddove Spengler sembra allontanarsi definitivamente dal nazionalsocialismo, ciò è specchio piú che di una opposizione conservatrice al regime hitleriano, di una sorta di «emigrazione interna», in cui il rifiuto del nazismo non porta al recupero di tradizioni liberali, ma si basa su una esaltazione di una concezione del tutto nuda e cruda del potere ispirata ad un vitalismo barbarico e primitivistico.

La prima parte del libro dedicata alle affermazioni politiche di Spengler si conclude con la citazione di tre autorevoli giudizi a tal riguardo: di Lukács, di Merlio e di Mann. Lukács, che pure sottolinea, nel rifiuto dell'appello alle masse, l'estraneità di Spengler alla demagogia populistica dei regimi fascisti e l'ascendenza nietzscheana della concezione spengleriana di razza rispetto al razzismo biologico nazista, colloca tuttavia Spengler nel piú ampio contesto dell'ideologia irrazionalistica che caratterizzò la Germania in quel periodo, evidenziandone quindi l'importanza per la preparazione al nazismo. Merlio, il piú importante studioso contemporaneo dello Spengler politico, mette in evidenza come «il novello Copernico, che aveva orgogliosamente affermato di voler sostituire ai logori schemi positivistici una concezione policentrica della storia, sarebbe rimasto invece prigioniero di uno schema eurocentrico (meglio, pantedesco) e lineare»; l'esaltazione della civiltà faustiana implicava infatti per Spengler una futura egemonia tedesca sulla civilizzazione occidentale. Thomas Mann coniò per Spengler il giudizio del «doppio inganno», cioè la finzione di un'accettazione virile ed eroica di un amaro destino da civilizzazione che in realtà si agognava. Ma di fronte a queste critiche di opportunismo mistificatorio Conte ribalta quasi i piani per sottolineare che le affermazioni politiche, spesso ambigue, di Spengler non necessariamente dipendono da una logica mistificatoria, che volutamente piega l'interpretazione dei fenomeni a tesi precostituite, bensí possono essere viste come conseguenza della sua estrema sincerità e del suo forte grado di coinvolgimento emotivo di fronte ai fatti analizzati, che lo portarono a frequenti e spesso clamorose contraddizioni.

Nel secondo e terzo capitolo Conte lascia lo Spengler politico per tornare a considerare quell'aspetto che piú di altri può essere visto come paradigma della produzione spengleriana e cioè la concezione morfologica. È proprio qui che viene presa particolarmente in considerazione la «seconda fase» del pensiero dello studioso tedesco, quella che si rivela soprattutto dagli scritti del lascito, a cui si è fatto cenno precedentemente. Dopo la pubblicazione, nel 1922, dell'attesissimo secondo volume di Der Untergang des Abendlandes, Spengler sembra dedicarsi quasi esclusivamente a scritti di natura politica. In verità, come fa notare Conte, proprio in questi anni egli si immergerà in una serie di attenti studi e approfondite ricerche di natura scientifica che avrebbero dovuto portare all'opera della sua maturità, lavoro a cui egli in alcuni scritti fa espressamente cenno, ma che però non vide mai la luce a causa anche dell'improvvisa morte nel 1936.Conte si propone dunque, grazie anche all'analisi degli scambi epistolari, di raccogliere le tracce di questa mancata opera della maturità per ricostruire alcuni aspetti dell'itinerario intellettuale, spesso tormentato, degli ultimi quindici anni di Spengler, e che appare non privo di sorprese.

L'ambito di interessi è duplice ed è già presente in Der Untergang des Abendlandes: da una parte le tematiche storiche ed antropologiche, che confluiscono nella morfologia delle civiltà, dall'altra tematiche metafisiche, concernenti in particolare questioni fondamentali dell'esistenza dell'uomo in quanto tale. Questo doppio binario di interessi ha motivato Koktanek a pubblicare il lascito in due volumi, uno riguardante i «quesiti metafisici», Urfragen; l'altro le tematiche storico-antropologiche, Frühzeit der Weltgeschichte. Conte, che pure sottolinea l'importanza fondamentale dell'operazione compiuta da Koktanek, non ne condivide tuttavia in pieno i criteri di suddivisione, che traviserebbero in qualche modo le intenzioni che Spengler avrebbe mostrato col passare degli anni di trattare in modo unitario i due aspetti e di concentrare maggiormente le sue energie sul versante storico.

In Frühzeit der Weltgeschichte Spengler sembra portare a compimento un processo di profonda modifica della propria visione della storia, già in parte visibile in Zur Weltgeschichte des zweiten vorchristlichen Jahrtausends, una serie di saggi apparsi nel 1935 in «Die Welt als Geschichte» e in gran parte ignorati dalla critica internazionale. Conte sottolinea giustamente i due fondamentali incontri che incisero in modo decisivo sull'iter intellettuale di Spengler in questi anni: l'incontro con l'etnologo Leo Frobenius, amicizia che si ruppe però nel 1927, e con lo storico Eduard Meyer. Spengler ha dunque modo, dopo la pubblicazione del secondo volume del suo capolavoro, di approfondire notevolmente il proprio spessore culturale, di espandere il proprio campo di interessi, ampliando gli orizzonti di conoscenze, in particolare appunto in ambito storico e antropologico. La visione della storia appare in Frühzeit der Weltgeschichte profondamente mutata rispetto alla concezione che caratterizzava Der Untergang des Abendlandes. Non piú una teoria della discontinuità, che esprimeva la crisi dello storicismo, in cui Spengler limitava la storia alle otto civiltà superiori, le quali non presentavano alcuna relazione né con il passato né tra loro; concezione che rifiutava le civiltà preistoriche relegandole in una dimensione di caos primitivo. Ora, invece, Spengler dà un imponente affresco di una «storia del mondo dalle sue origini», rivalutando pienamente il mondo antico che, con India, Cina e «Occidente faustiano», viene posto nell'ambito della civiltà di eroi, di origine nordica. Subentrano le civiltà preistoriche di Atlantis, Kasch e Turan (civiltà-c, «amebe»), che rappresentano l'«eredità antichissima» delle «civiltà alte» (civiltà-d, «piante»).

Alla fine di questo capitolo l'autore fa sua la tesi di Koktanek, e cioè che l'afasia intellettuale, che contraddistinse lunghi anni della vita di Spengler, sia derivata dalla difficoltà di rinnegare apertamente parti sostanziali dell'antico sistema, sempre piú inconciliabili con la nuova concezione della storia che era andato maturando. Conte osserva che tuttavia anche in questo travagliato iter intellettuale resta un legame profondo con il passato di Der Untergang des Abendlandes: Spengler rimane infatti sostanzialmente un morfologo.

Nel terzo ed ultimo capitolo la riflessione si appunta su alcune tematiche del secondo volume del lascito pubblicato da Koktanek, cioè Urfragen, in cui Spengler si sofferma in particolare su questioni metafisico-biologiche. L'analisi parte affrontando il concetto di «evoluzione» e le posizioni spengleriane riguardo a questa categoria d'interpretazione della realtà non solo biologica. Le concezioni dello studioso tedesco vengono dunque inserite nel piú ampio dibattito sul darwinismo, rappresentato in Germania in particolare da Ernst Haeckel. Nella sua ferma opposizione alla concezione evoluzionistica di Darwin, Spengler fa sue alcune delle tendenze vitalistiche e biologizzanti della cultura tedesca tra Otto e Novecento e prende come principali punti di riferimento il mutazionismo di de Vries e, ancor prima, la concezione della «perfezione delle forme» di Goethe. Conte segue in modo spesso estremamente dettagliato il discorso che Spengler affronta in Urfragen sulla concezione «biologica» della realtà. Una concezione monadistica dell'universo, in cui ogni monade è soggetta solo alla casualità di un meccanismo saltazionistico e in cui emerge la dicotomia tra un aspetto di macrocosmo, definito anche «lato-pianta» o dell'essere, e un aspetto di microcosmo, definito anche «lato-animale» o dell'esser desto. In questa opposizione si rispecchia la piú ampia dicotomia tra vita e pensiero: l'una, che rappresenta il lato reale e profondo dell'universo, dominata dall'aspetto vegetativo e dall'istinto; l'altro, che rappresenta il lato superficiale della realtà, dominato dall'apparenza del mondo concettuale e dalla staticità dell'intelligenza. È questo il punto in cui la lettura si fa a volte un po' tortuosa e meno scorrevole, a differenza delle altre parti del libro in cui risulta essere particolarmente agile, ma proprio perché qui traspaiono, volutamente, la frammentarietà dei pensieri spesso contorti e il linguaggio fortemente metaforizzato che caratterizzano le Urfragen spengleriane.

Anche in questa parte Conte non limita la sua analisi a un'arida disamina delle affermazioni spengleriane, bensí, come si è già visto, tenta continuamente di cogliere ed evidenziare le relazioni profonde con il piú ampio panorama culturale del tempo. Vengono messe infatti in risalto le implicazioni politiche delle concezioni antidarwinistiche e degli atteggiamenti vitalistici di Spengler e i legami con il diffuso clima antiintellettualistico. Certamente quando Spengler parla di vita come di un dato primigenio ed arbitrario e quando si concede all'esaltazione dell'istinto della vita il riferimento che balena alla mente è a Nietzsche. Se in Der Untergang des Abendlandes Spengler «accusa» Nietzsche di essere diventato dopo la rottura con Wagner, anche se in modo inconsapevole, discepolo di Darwin, in Urfragen riconosce apertamente nel filosofo di Röcken uno dei suoi principali maestri spirituali. Spengler utilizza tra l'altro il concetto di volontà di potenza per passare da considerazioni sulla vita organica a riflessioni sul mondo della storia ma anche sul senso e la specificità della storiografia. Riprendendo la dicotomia tra natura e storia, quest'ultima caratterizzata da eventi unici, irripetibili e asistematici, Spengler affermerà, tenendo certamente presente Dilthey, che la storiografia promana dall'essere e che è dunque caratterizzata da una dimensione intuizionistica; lo storico quindi deve essere dotato di un talento visionario e deve affrontare i problemi in modo ariflessivo. Conte fa notare a tal riguardo come già Troeltsch abbia riconosciuto la profonda frattura fra la teoria epistemologica di Spengler, tutta incentrata sul carattere dell'individualità, e il genere di storiografia da lui praticato, fortemente tipizzante.

Ma, attraverso le suggestioni nietzscheane e attraverso il riferimento alla volontà di potenza, Spengler introduce elementi vitalistici nel discorso politico aprendosi a dimensioni di forte irrazionalismo. Già Meinecke aveva definito Spengler la «copia espressionistica» delle ideologie controrivoluzionarie del primo Ottocento. Riaffiora qui la profonda ambiguità di Spengler che nella sua polemica antidemocratica e nel suo irrazionalismo vitalistico appare come Giano bifronte, rivolto sia al prussianesimo sia al nazismo.Rielaborando in forma originale una serie di risentimenti antimodernistici, particolarmente diffusi in ampi strati della popolazione tedesca, Spengler produrrà, come si è già detto, un influsso ambiguo ma indiscusso su parte della cultura del suo tempo ed in particolare sull'ideologia nazionalsocialista.E si rimane a volte stupiti di come alcuni aspetti di tale ideologia ricalchino alcune concezioni spengleriane, come, ad esempio, il binomio tradizione-sangue e l'antiurbanesimo, nel quale viene introdotto e sottolineato il concetto di sterilità demografica delle città. Dunque proprio qui Spengler elabora una miscela esplosiva coniugando l'antiurbanesimo tradizionale, legato ancora al romanticismo agrario ottocentesco, con l'«aggressività» scientifica di concezioni novecentesche di antropogenetica e statistica, arrivando dunque a posizioni che saranno proprie di esponenti di primo piano della cultura e della scienza naziste, come Friedrich Burgdörfer e Hans F.K. Günther.

Il circolo ormai si chiude e dopo un tragitto faticoso, non privo di curve e deviazioni, in cui si è passati via via dalla morfologia delle civiltà alla storia ed etnologia, da questioni metafisiche alla biologia, si ritorna al controverso Spengler politico, con cui era iniziato il libro.Conte, che confessa di essere rimasto per certi versi affascinato dalla figura di Spengler, sembra a volte, nel corso dell'opera, prenderne le difese di fronte ad interpretazioni spesso superficiali e a luoghi comuni; in realtà egli è intenzionato a chiarire e a illuminare ulteriormente alcuni aspetti ancora oscuri della produzione spengleriana. In ciò rifugge volutamente da considerazioni valutative, non trovando di alcuna utilità aggiungersi al coro degli esecratori; preferisce piuttosto collocarsi in una prospettiva che permetta di cogliere l'ampio strumentario di cui si serve questo giurato nemico della democrazia e di individuare i nessi multiformi e profondi che legano Spengler ad un panorama culturale particolarmente complesso.Certamente dopo, ma anche proprio attraverso, la lettura di questo libro Spengler continuerà ad essere quel personaggio ambiguo e contraddittorio che può suscitare in noi fascino o profonda antipatia, e vivo disappunto per le sue affermazioni, e risulterà certamente piú evidente la sua dimensione di acuto «sismografo» di un'intera età, ma anche, per ribaltare i piani, di fattore diretto di violente scosse.