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LA NOTTE… CANTA

di  Jon Fosse 

traduzione Graziella Perin

 

con Gabriele Calindri, Andrea Failla,

Massimiliano Lotti, Gabriella Pochini,

Elisabetta Ratti

regia Beno Mazzone

 

scena e disegno luci Paco Azorin -  musiche Ruggiero Mascellino

costumi  Giovanna Puccio - luci Gianfranco Mancuso

 

 

A proposito di Jon Fosse

di Beno Mazzone 

 

Sin dal 1968, con il Teatro Libero, ho privilegiato le scritture drammaturgiche contemporanee, realizzando numerosi spettacoli a partire da testi inediti per l’Italia di autori sia italiani che stranieri, quasi tutti scelti e messi in scena da me: da Peter Handke (1968) a Jean Claude Grumberg (1991), da Marie Laberge (1998) a Botho Strauss (2002), solo per citarne alcuni. Ogni scelta è stata il frutto di un innamoramento determinato dalla affinità di volta in volta riscontrata fra il mio sentire e quello degli autori incontrati e dalla volontà di esplorare territori insoliti. Ovviamente le scelte non sono state mai determinate dalla notorietà dell’autore o dalla sua incidenza sul mercato, ma sempre dal piacere e dalla necessità di scoprire, e far scoprire al  pubblico, storie e linguaggi che permettono di riflettere sui problemi degli uomini.

 “La notte… canta” di Jon Fosse affronta il problema della “sofferenza”.  La tragedia è ciò che fa cantare la notte; ma si tratta di un canto muto, un’assenza di risposta all’insolubile questione della sofferenza e del male. Al centro della pièce una giovane donna, un giovane uomo e un bambino, un nucleo familiare perfetto all’apparenza, ma…. qualcosa accade.

“Sempre accade qualcosa – dice la protagonista - …non voglio che accada nulla e poi accade qualcosa comunque; cos’è che fa accadere tutto? Sono io, qualcun altro.” La vita degli uomini viene modificata dall’accadere di fatti che inducono a reazioni, posizioni, sentimenti, scelte spesso irreversibili. Il racconto di Fosse fa riflettere sulla fragilità soprattutto delle giovani generazioni, sulla contrapposizione fra energie vitali e stati depressivi, successo e insuccesso, vita e morte; lo fa attraverso l’esposizione di un quotidiano che scorre banalmente, ma la forma è musicale. L’atto di scrivere per Fosse è più musicale che intellettuale.

Tutti possiamo essere protagonisti o spettatori della nostra esistenza: le parole, i gesti, i comportamenti diventano l’involucro necessario di un farsi e disfarsi… scenico.

 

La scrittura di Jon Fosse

Azione nulla, psicologia assente, situazioni rudimentali e vocabolario essenziale.

Il teatro di Jon Fosse malmena i presupposti della scrittura drammatica, la ripulisce dalle regioni di conflitto, dai personaggi e dalle costrizioni del genere.

Norvegese, considerato, a partire dalla metà degli anni ’90, uno dei più grandi autori contemporanei, Jon Fosse reinventa la drammaturgia con l’amputazione del senso e dello stile; pratica la chirurgia radicale del linguaggio. La sua parola esangue, lavorata come la pietra, porta il dialogo allo stato puro, frammentato, con frasi ripetute e rimodellate.

Chitarrista da adolescente, Fosse lascia il suo gruppo rock e lo strumento per la macchina da scrivere. Abbandona la musica; “è da lì che proviene l’aspetto ripetitivo della mia scrittura” dirà.

Scrive i suoi primi lavori a 12 anni, mentre vive sulla spiaggia di un fiordo a sud della sua città natale, Bergen, che non lascerà mai. Suo padre ha la più grande drogheria del villaggio, la sua famiglia, modesta, coltiva alberi da frutto.

Studente in lettere e filosofia, divora Derrida e Blanchot, Duras e Beckett. A vent’anni viene pubblicato il suo secondo romanzo.

Dieci anni più tardi, stravolge le convenzioni della scrittura teatrale. Attraverso motivi ricorrenti, quasi ossessivi, i personaggi di Malinconia I, di Qualcuno sta arrivando, Figli o Variazione sulla morte, si portano sulle labbra un boccale di birra, si carezzano i seni, aprono una porta, guardano da una finestra. Il gesto, come la parola, è raro essenziale e anodino. Scherzosamente rozzo.

La parola non dice più, è. L’essenza, l’esistenza propria del linguaggio prevale sul significato, superfluo. A 44 anni, nella sua stanza vuota, l’uomo tondo, viso affabile di studente irreprensibile, padre di tre bambini, ha composto una ventina di lavori, saggi, romanzi e testi teatrali.

Jon Fosse costruisce un linguaggio che non è, in primo luogo, creato per il significato ma che è, che è esso stesso, un po’, come dice lui stesso, come le pietre e gli alberi, le divinità e gli uomini, e ha un significato, ma solo in un secondo momento.

“Scrivo dei testi chiusi – dice Fosse - senza volerli rendere enigmatici (…). Se fanno riferimento a un contesto sociale o politico, non è stata la mia intenzione, ma non mi oppongo neanche. Le immagini del vuoto che concepisco possono dire qualche cosa sulla nostra società, ma lo fanno in maniera implicita. In questo senso, la mia scrittura è un commento critico, politico, se si vuole”, “Scrivere per me è più un atto musicale che intellettuale e certamente la ripetizione è fondamentale nel linguaggio musicale come nella mia scrittura. I miei romanzi sono dei grossi blocchi di scrittura ed io voglio conservare questa sensazione quando scrivo per il teatro e dunque nessuna punteggiatura. La forma in letteratura è una forma musicale”.

 

Tra i molti premi Fosse ha ricevuto Il Premio Ibsen, nel 1996  ed il riconoscimento di miglior autore straniero dell’anno dalla rivista tedesca “Theater Heute”, nel 2002.

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