La pagina letteraria di Salvatore Talia

Domenico Losurdo, Il peccato originale del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 86, £ 9.000

L’autore di questo libro è ordinario di Storia della filosofia presso l’Università di Urbino. Il suo pamphlet è una risposta al Libro nero del comunismo, la famosa opera collettiva uscita in Francia nel 1997, e pubblicata in Italia da Mondadori nel 1998, la quale si proponeva di fornire un quadro dettagliato dei crimini contro l’umanità commessi nel XX secolo nei paesi retti da regimi d’ispirazione comunista.

Losurdo inizia col criticare l’equiparazione tra nazismo e comunismo, oggi corrente nella pubblicistica liberale, nonché l’assunto storiografico secondo cui il nazismo non avrebbe fatto altro che imitare le pratiche di totalitarismo e di genocidio inaugurate dal regime sovietico (tale assunto non risale al Libro nero, ma è stato formulato dallo storico tedesco Ernst Nolte).

Quest’ultimo assunto, che fa del comunismo il precursore immediato e l’ispiratore dei crimini nazisti, è in realtà fuorviante, perché finisce per oscurare l’altro parallelo storico, assai più pertinente, fra nazismo e colonialismo.

Richiamandosi ad autori come Annah Arendt, Norberto Bobbio, Frantz Fanon ed altri, Losurdo sottolinea la stretta parentela fra le pratiche di imperialismo, di segregazione razziale, di vero e proprio genocidio, messe in atto dalle nazioni colonialiste durante tutto l’800 e parte del ‘900, da un lato; e, dall’altro lato, le analoghe politiche teorizzate ed attuate dal nazismo, questa volta però non solo nei paesi coloniali ma nella stessa Europa.

“La sorte per secoli riservata a indiani e neri costituisce un modello dichiarato per il fascismo e il nazismo” (p. 10); le stesse teorie razziste elaborate dagli ideologi nazisti traggono la loro origine dall’esperienza del colonialismo. Su tutto questo, osserva Losurdo, gli autori del Libro nero tacciono. “Dunque, allorché revisionismo storico e Libro nero fanno iniziare con il comunismo la storia del genocidio e dell’orrore, procedono a una colossale rimozione. L’impegno morale, solennemente proclamato, a ridar voce alle vittime ingiustamente dimenticate, si è rovesciato nel suo contrario, nel silenzio mortale che seppellisce una seconda volta (...) le popolazioni coloniali, i ‘barbari’” (p. 13). Più oltre, Losurdo conclude che il Novecento non è “il secolo in cui per la prima volta hanno fatto la loro apparizione i fenomeni della deportazione, del campo di concentramento, del genocidio”, bensì è “il secolo in cui tutto questo orrore ha fatto irruzione anche in Europa” (p. 61).

Nel seguito del suo libro, Losurdo mette sotto accusa l’ideologia liberale classica, a cui si richiamano per lo più gli odierni critici del totalitarismo comunista. Losurdo sottolinea innanzitutto come questa ideologia sia stata tradizionalmente poco o per nulla interessata alla critica del colonialismo e della discriminazione razziale, cosicché anche John Stuart Mill e il socialista liberale Eduard Bernstein, mentre propugnavano per i loro rispettivi concittadini una serie di giuste riforme democratiche, giustificavano apertamente il dispotismo nei confronti delle “razze inferiori” delle colonie (cfr. pp. 19 e 22). Di fatto, “tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, l’estensione del suffragio in Europa va di pari passo con il processo di colonizzazione e con l’imposizione di rapporti di lavoro servili o semiservili alle popolazioni assoggettate” (p. 18), così come negli Stati Uniti d’America prima della guerra civile “la democrazia nell’ambito della comunità bianca si è sviluppata contemporaneamente ai rapporti di schiavizzazione dei neri e di deportazione degli indios” (p. 16).

La denuncia più decisa degli orrori del colonialismo non venne dunque dai teorici liberali, e nemmeno dai socialisti riformisti: venne invece dai marxisti rivoluzionari, dai bolscevichi, che anche per questo motivo attirarono contro di sé l’implacabile ostilità dei difensori dell’ordine costituito e l’accusa di essere “traditori” della razza bianca (cfr. pp. 22 e 23).

Prima della Rivoluzione russa, argomenta poi Losurdo, in tutte le nazioni liberali esistevano ancora “tre grandi discriminazioni”: quella razziale, quella censitaria e quella sessuale (p. 30) che limitavano in varia misura il principio del suffragio universale. Il voto alle donne venne introdotto per la prima volta in Russia con la rivoluzione di febbraio, e solo successivamente, sull’onda di tale conquista, venne introdotto nelle grandi nazioni liberali. Allo stesso modo, solo dopo la Rivoluzione d’Ottobre iniziarono ad essere ampiamente riconosciuti in Occidente i diritti sociali ed economici: diritto al lavoro, libertà dal bisogno, sicurezza sociale (pp. 27-8). La democrazia contemporanea, del cui concetto fanno parte sia il superamento delle discriminazioni che i diritti sociali, non sarebbe mai venuta alla luce senza l’impulso dato dalle lotte del movimento operaio e dalla stessa Rivoluzione russa.

Dopo avere così confutato l’apologia del liberalismo classico tentata dagli autori del Libro nero, Losurdo torna sul nesso, da essi sostenuto, fra il totalitarismo comunista e il totalitarismo nazista. Losurdo individua invece nell’esperienza della prima guerra mondiale la genesi del totalitarismo europeo: “nel corso di questa gigantesca crisi, vediamo emergere, indipendentemente dalla rivoluzione bolscevica e spesso anche prima di essa, tutti gli elementi costitutivi dell’universo totalitario e concentrazionario che revisionismo storico e Libro nero vorrebbero far discendere dal fatale ottobre 1917” (p. 36): la sostituzione allo Stato di diritto della dittatura degli esecutivi, la completa subordinazione di ogni ambito della società allo sforzo bellico, fino alle stesse pratiche della deportazione di massa e dell’istituzione di campi di concentramento.

Losurdo così definisce il totalitarismo: “il regime politico corrispondente alla guerra totale, una guerra che tende al controllo totale dei comportamenti e delle idee non solo della popolazione combattente (...) ma anche della popolazione delle retrovie (...) e della società civile in quanto tale” (pp. 39-40). Su questa base, Losurdo giunge ad accettare in parte l’accostamento fra l’Unione Sovietica e la Germania hitleriana, due società le quali vivevano in una situazione di guerra permanente, con queste differenze: che il nazismo condusse all’estremo “la logica della guerra totale”, spinto da una “smisurata ambizione imperialistica” che raccolse e portò nel cuore dell’Europa “l’eredità della tradizione coloniale”, aggiungendovi la paranoia anti-giudaica; mentre, nel caso dell’URSS,  il totalitarismo risulta dall’”intreccio tra guerra totale (imposta dall’esterno) e rivoluzione e guerra civile permanente (cui invece contribuisce largamente l’ideologia comunista)” (pp. 45-6).

Tuttavia, Losurdo non accetta l’uso da parte degli autori del Libro nero della categoria di “genocidio di classe” a proposito dei regimi comunisti, perché i regimi dell’URSS e della Cina Popolare certamente instaurarono metodi brutali di repressione nei confronti degli avversari politici, veri o presunti, ma non si prefissero mai il compito di eliminare   fisicamente intere razze umane: il genocidio invece è una pratica di sterminio su base razziale, che “fa riferimento (...) a una ‘razza’ definita in termini naturalistici, nell’ambito della quale ogni singolo membro viene sussunto in modo del tutto indipendente (...) dal concreto comportamento politico di volta in volta manifestato” (pp. 47-8); cosicché un ebreo nella Germania nazista non ha modo di sfuggire all’annientamento, mentre un kulako in URSS “se ne ha il tempo, può rinnegare le posizioni politiche espresse sino a quel momento” (p. 50) e così può almeno sperare di salvarsi.

Losurdo è consapevole del fatto che la rivoluzione bolscevica non raggiunse lo scopo che si prefiggeva, quello cioè di creare una società senza classi; tuttavia egli osserva che “la sfasatura tra programmi e risultati è propria di ogni rivoluzione” (p. 32): neanche i giacobini francesi o i rivoluzionari americani del 1776 riuscirono a realizzare i propri rispettivi modelli ideali di società. Ciononostante, tutte queste rivoluzioni sono storicamente giustificate nella misura in cui produssero comunque dei progressi storici: e abbiamo visto come, per Losurdo, la rivoluzione bolscevica accelerò la nascita della democrazia moderna e affrettò la fine del colonialismo (Losurdo ritiene perciò di poter applicare alla rivoluzione russa ciò che Quinet disse della rivoluzione francese, cioè che “il popolo che l’ha fatta non è quello che ne ha tratto maggiore profitto” – p. 30).

Né Losurdo ignora il dilemma etico implicito in ogni rivoluzione, la quale, per affermare superiori princìpi morali, non può far a meno di ricorrere alla violenza e all’oppressione. Losurdo vede all’opera questa dialettica storica in ognuna delle grandi lotte emancipatrici da cui è nata la moderna democrazia:  ad esempio, tracciando un parallelo tra le guerra civile americana e la rivoluzione bolscevica, afferma che “mentre da un lato imprimono un poderoso sviluppo ai processi di emancipazione, le idee che presiedono alla rivoluzione abolizionista prima e alla rivoluzione bolscevica poi fungono da strumento di legittimazione di ambizioni imperiali” (p. 73).

Nondimeno, secondo Losurdo il bilancio storico di tali rivoluzioni si chiude in attivo: tutte hanno potentemente contribuito al superamento delle “tre grandi discriminazioni” e all’affermazione del principio del riconoscimento ad ogni essere umano “della dignità di soggetto morale, di fine in sé”:

“Dando un contributo di primo piano al conseguimento di tale risultato, rivoluzione francese e rivoluzione d’ottobre hanno paradossalmente contribuito a elaborare gli strumenti teorici e morali che consentono di assumere, rispetto ad esse, un atteggiamento di matura distanza critica (...). Quando, con lo sguardo rivolto alle vittime incolpevoli, agli autonomi soggetti morali ridotti oggettivamente a mezzi nel corso delle molteplici rivoluzioni che hanno contrassegnato la nascita del mondo contemporaneo, ci si interroga sulla loro legittimità e opportunità, non si è consapevoli del fatto che a rendere possibile tale domanda sono state proprio quelle rivoluzioni” (pp. 75-6).

A mio parere, il merito del pamphlet di Losurdo è duplice: 1) aver confutato efficacemente tutta una serie di volgari semplificazioni propagandistiche in chiave anticomunista, oggi correnti nella pubblicistica e nella storiografia, delle quali il Libro nero è esempio eminente; 2) aver opportunamente richiamato l’attenzione sulla cattiva coscienza del liberalismo, rappresentata dal suo atteggiamento nei confronti dell’umanità delle nazioni ex-coloniali 1.

Soprattutto il secondo punto è importante, perché si riscontra da tempo in Occidente tutta una serie di segnali sempre più preoccupanti del riemergere di ideologie e di pratiche neo-razziste, neo-imperialiste e neo-colonialiste: la guerra del Golfo nel 1990, e il susseguente embargo che (come nota Losurdo, p. 76) ha causato in Irak centinaia di migliaia di moriti fra la popolazione civile, così come i bombardamenti “umanitari” della Nato in ex Jugoslavia nel 1999, sono i fenomeni più eclatanti, a cui si possono aggiungere la crescita in Europa di forze politiche apertamente razziste, le isterie anti-immigrati fomentate periodicamente dai mass media, l’apparente assuefazione dell’opinione pubblica occidentale alle catastrofi umane nei paesi del Sud del mondo. Credo che la preoccupazione di Losurdo a proposito del “precario equilibrio su cui riposa la democrazia contemporanea” (p. 33) si possa senz’altro condividere.

Non del tutto persuasiva mi pare invece l’interpretazione proposta da Losurdo della vicenda storica del cosiddetto “socialismo reale”. Il parallelo tra la rivoluzione francese e la rivoluzione bolscevica (e soprattutto fra i rispettivi esiti) non mi pare molto convincente, perché la rivoluzione francese, anche se fu seguita da un periodo di restaurazione, riuscì tuttavia a imporre in Europa l’egemonia di una nuova classe dominante (la borghesia); mentre la rivoluzione bolscevica (quali che siano stati i suoi meriti storici) non pare essere riuscita a fare assurgere il proletariato al ruolo di classe dirigente, né tanto meno a preparare l’avvento della società senza classi.

Inoltre, risulta insufficiente richiamare, riguardo al marxismo, la sfasatura fra obiettivi e risultati propria di ogni teoria rivoluzionaria, dato che l’intendimento espresso di Marx fu proprio quello di infrangere questa regola2, dando al proletariato una coscienza veritiera ed esatta della sua reale funzione storica. Si vedano ad esempio le famose pagine iniziali de Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte.

La discussione sul significato e sulla reale portata dell’esperienza storica scaturita dalla rivoluzione d’ottobre, al di là della propaganda neo-maccartista, rimane insomma ancora aperta.



1 Non posso resistere alla tentazione di richiamare un esempio abbastanza recente di rivalutazione "nascosta" del colonialismo, non compreso nel libro di Losurdo. Lo storico liberale Valerio Castronovo, nel suo Le rivoluzioni del capitalismo (Laterza 1995), a proposito dell’imperialismo delle nazioni borghesi nella seconda metà dell’800 e delle sue cause, osserva: “In parecchi casi fu (...) il vuoto di potere, la mancanza di qualsiasi struttura istituzionale in alcune regioni dell’Africa e dell’Asia, ad agevolare e a rendere alla fine vincente la vocazione imperialista degli europei” (op. cit., p. 57). Come dire che, in fin dei conti, gli europei fornirono agli africani e agli asiatici le adeguate “strutture istituzionali” di cui quei popoli così primitivi e selvaggi non erano stati in grado di dotarsi. Il “fardello dell’uomo bianco”, insomma.

2 “Ma nel corso stesso della storia del mondo (...) il lato soggettivo, la coscienza, non possiede ancora la coscienza di quel che sia il puro fine ultimo della storia, il concetto dello spirito. (...) Quel rapporto implica dunque che, nella storia del mondo, risulti dalle azioni degli uomini anche qualcosa d’altro, in generale, da ciò che essi si propongono e raggiungono, che immediatamente sanno e vogliono”. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, trad. di G. Calogero e C. Fatta, La Nuova Italia, Firenze 1975.

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