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BIOLOGIA   DELLA   SENESCENZA

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"Così è la vita: cadere sette volte e rialzarsi otto."

(anonimo giapponese, XVII secolo)

 

 

Il maggior mistero della medicina non è la malattia bensì la salute.

Ogni giorno il nostro corpo è invaso da miliardi di germi, è sottoposto allo stress della vita moderna e subisce gli "insulti" che noi stessi gli facciamo (fumo, sedentarietà, cattiva alimentazione ecc.): ciò nonostante ci manteniamo sani, almeno entri certi limiti. Questa capacità di sopravvivere del nostro organismo è così singolare che c’è veramente da meravigliarsi che qualcuno riesca ad ammalarsi.

Il fatto è che la nostra salute è protetta da una serie ingegnosa di difese disposte in profondità, come linee successive di un esercito trincerato per respingere l’invasore. I globuli bianchi del sangue, per esempio, costituiscono una delle nostre difese più curiose ed efficaci: essi sono attratti come da una calamita verso la sede di invasione dei germi; quando la raggiungono "ingoiano" tutte le particelle estranee che vi trovano oppure le distruggono tramite quella specie di siluri chiamati anticorpi.

 

Anticorpi

 

Ma la cosa forse più affascinante, tra tutte le meraviglie della vita, è la capacità dell’organismo di riparare i danni subiti e di continuare a vivere.Per esempio, tutte le volte che ci facciamo un piccolo taglio, sbucciando la frutta o aprendo la fiala di un farmaco, inizia immediatamente un lavoro di ricostruzione molto più complicato di quello che serve per innalzare un grattacielo. Siamo tutti portati a considerare questa capacità rigenerativa come una cosa semplice, naturale, e quindi a non darle molta importanza: in realtà, se non ci fosse, anche la più piccola ferita potrebbe portare alla morte. 

Inoltre, gli organi del nostro corpo possiedono riserve alle quali si può fare ricorso in caso di bisogno. Si può così asportare quasi metà del fegato perché quello che resta è ancora sufficiente alla funzione dell’organo. Analogamente, è possibile togliere un rene perché quello rimasto può compiere il lavoro di tutti e due. Nel corso di un intervento chirurgico si possono tagliare e legare molti vasi sanguigni perché noi possediamo molti più vasi di quelli che ci occorrono. Si può anche asportare una considerevole parte degli oltre 8 metri di intestino senza che ne derivino importanti conseguenze, e così via. Nella lotta contro la malattia abbiamo dunque una preziosissima alleata: una forza difensiva naturale straordinariamente potente, ingegnosa e silenziosa, che combatte ogni giorno per garantirci la salute. Questa stessa forza naturale tenta ogni giorno di opporsi al fenomeno dell’invecchiamento.

 

Non è possibile stabilire un momento critico a partire dal quale si possa parlare di invecchiamento, in quanto questo inizia dal momento stesso della prima formazione dei tessuti: tranne le cellule nervose, tutte le altre cellule nascono, crescono, invecchiano, muoiono in continuazione e vengono sostituite da sempre nuove cellule durante tutta la vita. Quando i meccanismi di sostituzione non avvengono più con ritmo efficiente allora si parla di senescenza

(Con il termine invecchiamento si intende la graduale modificazione cui vanno incontro le strutture dell’organismo con il passare degli anni, modificazione non imputabile a malattie prevedibili o ad altre situazioni morbose suscettibili di aumentare le probabilità di morte; dunque l’invecchiamento riguarda soprattutto la quantità di modificazioni che hanno luogo nel tempo a livello cellulare e tessutale. La senescenza, invece, riguarda la qualità delle modificazioni e la comparsa di quelle deleterie; essa rappresenta la fase più tardiva dell’invecchiamento).

Inoltre è difficoltoso anche dare una esatta definizione della parola "invecchiamento", soprattutto perché sono ancora in gran parte sconosciuti i meccanismi che portano prima alla senescenza e poi alla morte gli organismi viventi.

 

Se volessimo dare alla vita un significato teleologico, finalistico, potremmo pensare che l’organismo va incontro alla senescenza, cioè ad un processo di degenerazione, perché ad un certo punto viene a mancare la spinta evolutiva. In altre parole l’organismo, una volta oltrepassata l’età fertile, non essendo più utile ai fini del mantenimento della specie e cioè non essendo più utile ai disegni prestabiliti dal processo evolutivo, sarebbe per così dire lasciato a se stesso, indifeso, e andrebbe in questo modo incontro più o meno rapidamente alla propria eliminazione. Forse un esempio può chiarire questo concetto: un proiettile che fallisce l’obiettivo perde importanza nel momento stesso in cui avviene tale fallimento e tutto quello che succede in seguito non riveste alcun interesse per chi lo aveva lanciato.

Dunque l’evoluzione sembrerebbe avere scelto la strategia dell’usa e getta.

 

Volendo comunque dare una definizione sintetica non in prospettiva evoluzionistica, possiamo dire che l’invecchiamento è un processo biologico caratterizzato da un progressivo decadimento dei meccanismi di difesa verso le normali variazioni dell’ambiente esterno.

 

Numerosi tentativi sono stati fatti per trovare una spiegazione al processo della senescenza ma le nostre conoscenze sono ancora troppo scarse per permetterci anche solo di intravedere dei punti fermi nel campo della biologia dell’invecchiamento.

Il reale problema è capire come mai da due cellule si riesca a sviluppare una crescita ordinata e preordinata, cioè capire come, o meglio perché, si arrivi passo dopo passo alla formazione di un organismo vivente. Quando ci sarà finalmente chiaro il problema della vita, con tutta probabilità automaticamente si capirà anche come mai un organismo invecchia.

L’ipotesi oggi più accreditata è che l’invecchiamento sia un processo in massima parte geneticamente determinato. Ciò si fonda sostanzialmente sui seguenti elementi:

  • La durata della vita di figli nati da soggetti longevi è maggiore rispetto a quella di nati da genitori non longevi.

  • La coesistenza di longevità nei gemelli omozigoti (nati da un solo uovo) è due volte maggiore rispetto agli eterozigoti (nati da uova diverse).

  • Ogni specie presenta una caratteristica durata massima della vita, che è fissa. Per l’uomo questa durata è 113 anni (secondo alcuni, invece, è di 125 anni) ma esiste una estrema variabilità tra le varie specie: ad esempio, alcune tartarughe possono raggiungere i 170 anni, il mollusco Artica islandica 220 anni, alcune piante come la Sequoia gigante o il Pino longevo possono arrivare ad alcune migliaia di anni e addirittura un lichene chiamato Larrea tridentata può raggiungere i 10.000 anni. (Vedi anche Illustrazione 1).

  • Una malattia umana definita "sindrome da invecchiamento precoce" sembra essere causata da mutazioni di un singolo gene. Il problema è riuscire ad individuare la relazione tra questa sindrome e l’invecchiamento fisiologico.

  • Classici esperimenti dimostrano che i fibroblasti si moltiplicano un numero di volte che è in diretta relazione con la longevità della specie. Così i fibroblasti di topo (vita massima 3 anni) si dividono circa 15 volte, quelli di uomo (vita media 79 anni) circa 50 volte mentre quelli delle tartarughe Galapagos (vita media stimata 170 anni) arrivano a replicarsi fino a 90 volte.

Durata massima della vita

Illustrazione 1 -  Alcuni esempi di vita massima nelle diverse specie.

 

  • Salvo rare eccezioni, per ogni specie, compresa quella umana, il maschio vive meno della femmina. Questo fenomeno è stato messo in relazione con la possibile presenza di qualche gene presente nei cromosomi sessuali che possa influenzare la vulnerabilità a malattie degenerative

Illustrazione 2 -  Cromosomi di una cellula umana divisi in 23 coppie di cui una è definita coppia di cromosomi sessuali (nella figura sono evidenziati i cromosomi sessuali X-Y di una cellula di un maschio).

 

DNA

llustrazione 3 -  Struttura ad elica del DNA

DNA

 

In particolare, l’attuale attenzione degli studiosi è focalizzata essenzialmente su due teorie dell’invecchiamento, che vedono entrambe come attore principale il DNA:

- 1 - Teoria della senescenza programmata (detta anche teoria fondamentalista oppure, con termine suggestivo, teoria dell’orologio biologico): secondo questa ipotesi l’invecchiamento sarebbe il risultato di un programma genetico predeterminato, che configurerebbe una sequenza ordinata di espressioni genetiche differenti, analogamente al processo di sviluppo. In parole più semplici, secondo questa teoria la senescenza dipenderebbe da una serie di eventi già programmati, almeno in via generale, fin dal momento della nascita. Sembrerebbe, dunque, che nel codice genetico vi siano non soltanto le informazioni necessarie alla duplicazione e alla differenziazione della cellula ma anche le informazioni che portano alla sua stasi ed infine quelle che ne decretano la morte. Si può così supporre che un vero e proprio orologio biologico marchi il ciclo vitale della cellula portandola inevitabilmente (anche se attraverso modulazioni operate da ormoni, sostanze metaboliche e sostanze assunte dall’ambiente) verso l’inattività e la morte. Il controllo di tale orologio sarebbe modulato sì ma mai abrogato, tranne nel caso di cellule che diventano "immortali" per processi tumorali.

- 2 - Teoria della senescenza non programmata (detta anche teoria stocastica): secondo questa teoria l’invecchiamento sarebbe invece un fenomeno del tutto casuale, dovuto all’accumulo di errori acquisiti nel corso del tempo dalle molecole contenenti l’informazione genetica a causa di stress, infezioni, traumi, fattori dietetici negativi, sollecitazioni varie. Secondo quest’altra ipotesi, dunque, si invecchierebbe soltanto a causa dell’impatto con l’ambiente e non per eventi già "scritti", predeterminati. I deficit dell'invecchiamento sarebbero cioè il risultato dell'accumulo di danni a carico del materiale genetico, danni che ridurrebbero progressivamente la funzionalità delle cellule, fino a causarne la morte.

Nonostante il gran numero di teorie diverse, la maggior parte dei ricercatori è comunque d'accordo sul fatto che l'invecchiamento non sia il risultato di un singolo evento o meccanismo, ma di un insieme di processi che agiscono in modo concertato.

 

 

CONCETTO DI NORMALITÀ NELL’ ANZIANO

 

Come abbiamo già accennato, anche in presenza di alterazioni multiple l’organismo umano, nel suo complesso corpo-psiche, è spesso in grado di fornire aggiustamenti, compensi, che limitano i danni e reintegrano via via un nuovo equilibrio ad un livello di solito meno elevato ma adeguato all’età. Questi compensi sono però molto variabili da soggetto a soggetto e quindi si è portati a valutare i diversi parametri clinici più nell’ambito del singolo individuo che non rispetto a riferimenti di ordine generale della popolazione. Ciò non toglie che sia necessaria una certa definizione della normalità degli anziani, anche se le difficoltà sono obiettivamente enormi sia sul piano pratico (difficile reperimento di adeguate casistiche da cui attingere valori di riferimento) sia sul piano teorico ( difficoltà di trovare valori-soglia al di qua dei quali si possa parlare di invecchiamento fisiologico e al di là dei quali si debba parlare di malattia).

Una esemplificazione ci viene data dal comportamento della pressione arteriosa nella popolazione: convenzionalmente noi medici abbiamo deciso che deve considerarsi iperteso un individuo adulto con valori uguali o superiori a 160/95, ma non si tratta altro che di un artificio che noi facciamo, un artificio certamente "logico" ma comunque arbitrario. Tuttavia nella popolazione anziana noi riscontriamo in circa la metà dei casi valori pressori superiori ai limiti "ufficiali" e quindi siamo autorizzati a pensare che quei valori di riferimento di 160/95 non siano completamente rispondenti alla realtà di questa fascia di popolazione, pur rimanendo accettabile la classificazione ufficiale.

In linea generale, i valori di riferimento che noi dovremmo guardare parlando di invecchiamento dovrebbero quindi essere desunti non dallo studio della popolazione giovane-adulta bensì da popolazione anziana "normale". Ma a questo punto sorge il difficilissimo problema della definizione della parola normale, per cui sarebbe meglio parlare di valori più comuni in una popolazione di una certa età presumibilmente sana. In realtà molti dei criteri diagnostici impiegati in medicina si basano su confronti tra giovani e anziani, anziché su confronti tra anziani sani e anziani malati. Per questo motivo spesso noi medici, di fronte a soggetti anziani, incappiamo nell’errore di sovrastima diagnostica e andiamo ad usare farmaci per correggere delle situazioni apparentemente patologiche ma che in realtà rappresentano alterazioni compatibili con l’età e che non necessitano di correzioni farmacologiche.

Tornando alla difficile definizione di normalità nell’anziano, possiamo avere due diversi concetti (che peraltro possiamo prendere in considerazione non solo parlando dell’anziano ma anche tutte le volte che si parla di normalità di qualche cosa):

  • o parliamo di modelli normativi, di tipi ideali, ai quali tutti dovrebbero tendere e la cui validità è indipendente dalla frequenza con cui si riscontrano in popolazioni reali,

  • oppure descriviamo frequenze, percentuali, fenomeni e processi "medi" in senso statistico, nel qual caso rappresentano lo stato abituale di una data popolazione in quelle date condizioni.

Ma anche qui rischiamo di arenarci: infatti, seguendo il concetto di modello ideale, l’anziano normale è forse quello che più si avvicina, dal punto di vista sia fisico che psicologico, all’uomo giovane sano? Se così fosse, almeno il 90% degli anziani sarebbe da considerarsi anormale, il che ovviamente non è ammissibile. Se invece, come di solito accade, seguiamo il concetto di modello statistico medio corriamo il rischio o di considerare normali alcuni valori francamente patologici solo perché "tanto è anziano !", oppure di tentare impossibili normalizzazioni di funzioni che stanno seguendo un loro fisiologico ritmo evolutivo.

Tuttavia, anche non volendo a tutti i costi definire il concetto di normalità nei soggetti di età avanzata, è comunque importante conoscere le modificazioni tanto largamente rappresentate da costituire quasi la regola, soprattutto per ciò che riguarda le eventuali scelte terapeutiche.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Torna a "cromosomi sessuali"     Cromosomi - Tutte le caratteristiche di un individuo trasmissibili ai figli sono "scritte" in un codice contenuto in particolari strutture presenti nel nucleo di ogni cellula vivente e denominate cromosomi. Ogni cellula umana possiede 46 cromosomi, di cui 23 di origine paterna e 23 di origine materna (risultato della fecondazione di una cellula uovo da parte di uno spermatozoo), che si presentano appaiati fra loro a due a due (si hanno dunque 23 coppie di cromosomi omologhi). Di questi 46 cromosomi, 2 sono chiamati sessuali perché servono a determinare il sesso di una persona: se sono uguali tra loro (XX) la persona sarà femmina; se invece sono diversi (XY) l’individuo sarà maschio.  Ogni cromosoma è costituito da filamenti di una grossa molecola chiamata DNA (acido desossiribonucleico). A loro volta, le molecole giganti di DNA si suddividono in piccole subunità chiamate geni, che rappresentano le unità biologiche fondamentali in quanto mediante esse si realizza la trasmissione dei caratteri ereditari. Il gene, ciascuno interessante una particolare caratteristica ereditaria, è dunque una struttura che occupa una precisa posizione sul cromosoma di appartenenza ed è capace di autoriprodursi ogni volta che la cellula si divide e di fungere da controllore e coordinatore dei processi biologici cellulari. I geni presenti nei cromosomi umani sono circa 40.000, disposti linearmente e in modo identico su ogni coppia di cromosomi omologhi.

 

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