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LONGEVITÀ

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La longevità può essere definita come la lunghezza massima di vita per una determinata specie. Per quanto concerne l'uomo, abbiamo visto (nella Scheda "Biologia della senescenza") che l’età massima è di 113 anni o, secondo alcuni, 125 anni. Comunque, generalmente vengono considerati longevi i soggetti che hanno raggiunto e superato i 90 anni di vita.

 

Come conseguenza dell'aumento dell'età media di vita avvenuto negli ultimi cento anni, la ricerca scientifica ha cominciato ad interrogarsi se tale aumento è destinato a proseguire nel tempo ed a tentare di identificare i fattori che possono prolungare ulteriormente la vita. I dati più recenti indicano che nei prossimi anni la speranza di vita alla nascita non dovrebbe superare gli 85 anni (contro gli attuali 75-81 delle femmine e i 70-76 dei maschi nei paesi industrializzati). Il raggiungimento di questo limite è molto verosimile, tenendo presente che con tutta probabilità ci sarà entro breve tempo un ulteriore controllo delle malattie degenerative che si manifestano dopo i cinquant'anni.

D'altra parte, tuttavia, si ritiene che anche nel caso fossero completamente eliminate le malattie principalmente responsabili della mortalità attuale, la speranza di vita alla nascita (che equivale alla vita media) non supererebbe ugualmente i 90 anni. È invece possibile che, negli anni futuri meno immediati, gli interventi di ingegneria genetica e le nuove tecnologie potranno far conseguire (anche se innescando problemi etici di grandissima rilevanza) un significativo incremento della longevità, oltre che una riduzione della mortalità.

 

La sopravvivenza di un organismo è in relazione a numerosi fattori, ma la nozione che le varie specie dei mammiferi presentano un ciclo vitale caratteristico per ciascuna specie suggerisce l'ipotesi che alla base della durata della vita ci siano dei meccanismi genetici. I biologi generalmente ritengono che la durata massima della vita di ogni singola specie corrisponde al quintuplo del periodo di accrescimento. Poiché nella specie umana il periodo di accrescimento si conclude con la saldatura degli ultimi anelli di ossificazione, e cioè nella donna a 21 anni e nell'uomo a 25, la durata massima della vita dovrebbe essere di 105-125 anni. È evidente, tuttavia, che tutti i metodi per stabilire il limite teorico della vita umana hanno un valore esclusivamente orientativo.

Nonostante gli studi sulla longevità umana siano influenzati dalla presenza di numerose varianti (modificazioni dell'alimentazione, dell'attività lavorativa, ecc.), si ritiene che anche nell'uomo la longevità abbia un carattere in gran parte ereditario. In questo senso, per esempio, depone la maggiore durata di vita dei soggetti con genitori longevi rispetto a gruppi di controllo. Gli studi sugli aspetti genetici della longevità si ricollegano spesso a quelli dell'invecchiamento.

 

Le numerose teorie proposte fino ad oggi possono essere schematicamente ricondotte a due modelli generali.

Il primo modello (teoria dell’orologio biologico) suggerisce che l'invecchiamento non è altro che una parte del normale processo di sviluppo e che quindi esso è geneticamente determinato. Nel nostro patrimonio genetico sarebbero presenti i cosiddetti geni della longevità di Sacher e Cutler, che determinerebbero uno sviluppo programmato ed il raggiungimento potenziale di un determinato numero di anni.

Il secondo modello (teoria stocastica) suggerisce che l'invecchiamento è il risultato di un processo casuale di deterioramento che si produce nel corso dei processi fisico-chimici propri dell'essere vivente.

 

Per quanto riguarda più specificamente i meccanismi genetici della longevità, secondo numerosi studiosi esistono dei geni anti-invecchiamento, cioè alcuni geni che regolano vari processi biologici ostacolando l'invecchiamento: la longevità sarebbe fondamentalmente assicurata da quegli stessi geni che controllano i vari meccanismi di difesa delle cellule contro i danni prodotti da agenti esterni ed interni.

 

Come abbiamo già accennato, la maggior durata di vita delle donne rispetto agli uomini ha verosimilmente una causa genetica. La differenza dell'età media di vita nei due sessi risulta essere generalmente, nei vari Paesi del mondo, di 4-6 anni e questa differenza è veramente notevole: basti pensare che in Italia morirebbero ogni anno 120.000 maschi in meno se la mortalità maschile diventasse come quella femminile. Nei riguardi della differente mortalità legata al sesso, le diverse condizioni ambientali non sembrano invece essere determinanti, se si considera la più spiccata mortalità infantile nel sesso maschile e la maggiore longevità  nel sesso femminile anche di gran parte degli animali. Nella minore longevità maschile è presumibilmente implicato il cromosoma Y, come se qualche gene in esso contenuto esercitasse un effetto negativo sulla sopravvivenza.

Molto significativi appaiono, a questo proposito, gli studi condotti sulla popolazione nordamericana Amish.

 

Amish

 

Gli Amish sono un gruppo religioso protestante nordamericano affine a quello dei Mennoniti, i quali, essendo collocati nell'area di pensiero dei gruppi anabattisti e quindi esposti alle persecuzioni a causa della loro ostilità alla Chiesa di stato, alla guerra e al servizio militare, emigrarono dall'Europa nel XVIII secolo per sfuggire alle persecuzioni e si stabilirono in Pennsylvania, negli stati del Midwest americano e in Canada. 

Fortemente legati alle tradizioni e nemici della modernità, gli Amish vivono in comunità agricole chiuse e vestono in modo estremamente sobrio, rifiutando l'uso dell'automobile e osservando una rigida disciplina, che scoraggia il matrimonio con individui estranei al gruppo, il servizio militare e la partecipazione alla vita politica e al voto. 

 

 

I maschi di alcune famiglie Amish, infatti, presentano nel loro corredo cromosomico una particolare modificazione del cromosoma Y: il dato principale emerso è costituito dal fatto che mentre gli uomini Amish con cromosomi normali muoiono 5-6 anni prima delle donne (analogamente alla maggioranza della popolazione mondiale), quelli con la modificazione del cromosoma Y muoiono circa 5 anni dopo.

Vi sono anche altre ipotesi genetiche che spiegano la maggiore durata di vita nel sesso femminile ed in particolare quelle che si riferiscono alla cosiddetta ridondanza genetica. Secondo questa teoria, all'interno dei cromosomi vi è una riserva di DNA che può essere utilizzata per mantenere le funzioni vitali, esercitando quindi un ruolo rilevante nel determinare la durata della vita. Le donne, avendo due grandi cromosomi sessuali ( XX ), si trovano in condizioni di vantaggio nei riguardi della ridondanza genetica, al contrario degli uomini che presentano un solo grande cromosoma sessuale X ed un cromosoma Y di piccole dimensioni.

 

Nell'ambito dei fattori genetici implicati nella longevità sono stati studiati i gruppi sanguigni. Numerosi studi, prima ancora che sulla longevità di per se stessa, avevano valutato l'influenza che l'appartenenza ai vari gruppi sanguigni esercitava sulla prevalenza di numerose malattie. Era stato messo in evidenza che alcuni tumori ed altre malattie, come ad esempio il diabete mellito, le fratture del collo del femore, la calcolosi biliare e renale, erano più frequenti nei pazienti con gruppo sanguigno A rispetto a quelli con gruppo sanguigno 0 (questi rilievi avevano indotto lo studioso Jòrgensen a ipotizzare una little more fitness, un po’ più salute, dei soggetti con gruppo sanguigno 0). In seguito è stato visto che le persone con gruppo sanguigno 0 sono statisticamente più longeve delle altre. Alcuni studiosi hanno rilevato nei soggetti con gruppo sanguigno 0 una scarsa tendenza alla coagulazione del sangue ( per deficit del fattore coagulativo VIII) geneticamente determinata: questa peculiarità potrebbe rappresentare un fattore dì protezione verso le malattie tromboemboliche (ad esempio l’infarto cardiaco e l’ictus cerebrale), spiegando così in questi soggetti la maggiore longevità.

Nello studio degli aspetti genetici della longevità, numerosi altri parametri sono stati presi in considerazione e tra questi la tipologia delle impronte digitali. Nei soggetti longevi è stata osservata una maggiore densità di linee a spirale sulle loro impronte, mentre negli individui non longevi sono più frequenti le linee ad arco.

Un altro fattore genetico favorente la longevità può essere rappresentato dalla migliore capacità dei longevi di sintetizzare alcuni enzimi nei diversi periodi dello sviluppo embrionale (sarebbe stata riscontrata infatti una maggiore concentrazione dei livelli dell’enzima fosfatasi alcalina nei globuli bianchi neutrofili nei soggetti longevi rispetto ai controlli, che implicherebbe nei primi una migliore funzionalità dei sistemi di trasporto attivo) e la maggiore conservazione della capacità ossidativa (in alcune cellule dei soggetti longevi i livelli dell’enzima perossidasi rimangono costanti nel corso del tempo).

 

Nella longevità sono stati considerati numerosi altri fattori, non necessariamente di natura genetica. Un elevato livello ematico dì lipoproteine HDL sembra svolgere un ruolo protettivo verso l'arteriosclerosi ed essere pertanto un fattore che condiziona una maggiore sopravvivenza. Le lipoproteine ad alta densità, meglio conosciute con il nome di colesterolo HDL, o colesterolo "buono", hanno la funzione di rimuovere il colesterolo dai vari tessuti, ed in particolare dalle pareti dei vasi sanguigni, e di trasportarlo verso i luoghi di eliminazione. Dunque, le persone che hanno un alto tasso ematico di quello "spazzino del sangue" che è il colesterolo HDL hanno meno rischi di subire infarti, ictus e altri accidenti vascolari e sono quindi potenzialmente più longeve di chi ha poco colesterolo HDL.

Un altro fattore biologico capace di influenzare la longevità può essere considerata la presenza di un sistema immunologico efficiente sin nelle più tarde età.

Anche la razza potrebbe svolgere un ruolo non trascurabile: per esempio in alcuni stati degli USA sarebbe stato censito sulla popolazione nera un numero sorprendente di centenari.

È stata avanzata l'ipotesi che un’attività fisica ben fatta possa favorire in qualche modo la longevità e che viceversa la sedentarietà possa interferire negativamente sullo stesso processo biologico dell'invecchiamento. Molte delle cosiddette trasformazioni «fisiologiche» senili dei vari organi ed apparati sono infatti assai simili alle alterazioni che si osservano anche in soggetti giovani-adulti in seguito ad un periodo prolungato di inattività (come per esempio la perdita di calcio nel tessuto osseo e la ridotta tolleranza al glucosio), condizioni che possono essere contrastate, sia nel giovane che nel vecchio, da un idoneo programma di esercizi fisici. Tali osservazioni suggeriscono che un regime di vita attiva può favorire l'avvicinamento dell'uomo alla sua potenziale longevità biologica. Questa ipotesi ha ricevuto una conferma indiretta da ricerche eseguite sul topo: l'esercizio fisico prolunga infatti la sopravvivenza dei topi (rispettivamente del 19,3 % nel sesso maschile e dell’11,5% nel sesso femminile) rispetto ai controlli tenuti in uno stato di artificiosa sedentarietà.

Un problema del tutto particolare riguarda i rapporti esistenti tra dieta e peso corporeo da una parte e longevità dall'altra. Sono trascorsi ormai più di 50 anni dalla prima dimostrazione che la restrizione dietetica degli animali di laboratorio incrementa la lunghezza della vita. Questi risultati non sono necessariamente applicabili all'uomo, ma esistono comunque varie osservazioni successive che sembrano dimostrare che una alimentazione ipocalorica ha effettivamente un ruolo favorevole sulla longevità umana. Per onore di cronaca bisogna però ricordare che esistono anche altri studi, riguardanti l'età senile, che hanno evidenziato una sopravvivenza quasi direttamente proporzionale al peso corporeo, dimostrando in tal modo un presumibile ruolo sfavorevole della magrezza in età molto avanzata.

Sono stati anche studiati i rapporti tra autovalutazione globale della salute e mortalità. In passato si era sempre ritenuto che l'autovalutazione dello stato di salute fosse la semplice conseguenza dello stato di salute oggettivo e non avesse un valore predittivo aggiuntivo. Studi recenti hanno messo invece in evidenza che la percezione di un livello basso di salute è un fattore predittivo autonomo di mortalità: in altre parole, i soggetti che riferiscono di avere uno stato di salute precario presentano, indipendentemente da ogni altro fattore, una percentuale dì mortalità significativamente maggiore rispetto a coloro che si autovalutavano più sani.

Altri fattori che possono influenzare la longevità sono gli ormoni (termine che deriva dalla parola greca hormaein, mettersi in movimento, affrettarsi). Recentemente, essendo stato visto che la produzione giornaliera dell’ormone della crescita (la somatotropina) si riduce nettamente nei soggetti anziani, sono stati fatti dei tentativi con la somministrazione di tale ormone agli anziani con risultati che sembrano essere positivi.

È stata presa dunque in considerazione l'ipotesi che l'invecchiamento possa essere determinato o comunque favorito dal ridursi con gli anni della fisiologica disponibilità e/o dell’attività dei fattori di crescita circolanti nel sangue, come può essere considerata la somatotropina. Secondo alcuni ricercatori la senescenza e, per converso, la longevità potrebbero essere il risultato dell'azione combinata ed opposta di due serie di fattori:

 

i fattori di anti-invecchiamento (come la somatotropina e la somatomedina C), ostacolanti l'invecchiamento presumibilmente attraverso la stimolazione della crescita e della proliferazione cellulare e operanti a favore dell'individuo;

i fattori di invecchiamento (per ora identificati nella cosiddetta proteina antiproliferativa di Lumpkin), favorenti l'invecchiamento presumibilmente attraverso l'inibizione della crescita e della proliferazione cellulare e operanti a favore della specie.

Secondo questa ipotesi, se prevalgono i fattori di anti-invecchiamento viene favorito il passaggio dalla vecchiaia "normale", intesa in senso statistico, a quella che dovrebbe essere la vecchiaia "fisiologica", intesa come lo stato dei grandi vecchi ultracentenari in buone condizioni psicofisiche; se invece prevalgono i fattori di invecchiamento sono favoriti i fenomeni di invecchiamento precoce.

Un modo particolare, anche se discutibile, di studiare la longevità può essere l'analisi delle condizioni sociali e mediche dei paesi con età media di vita molto elevata. Abbastanza recentemente è stato pubblicato un lavoro nel quale alcuni ricercatori inglesi prendono in considerazione le possibili ragioni del fatto che, come probabilmente è noto, in Giappone si osserva la più alta età media di vita di tutto il mondo. Gli Autori fanno anche riferimento ad un libro di Morishima intitolato: Perché il Giappone ha avuto successo?. Il successo di cui si parla in quel libro è solo di tipo economico, ma è da presumere che lo sviluppo economico del Giappone e i risultati ottenuti nel settore della salute ed in particolare in quello della longevità siano in qualche modo collegati. Tra i fattori presi in considerazione dai ricercatori inglesi in grado di aumentare la spettanza di vita in Giappone è menzionato il miglioramento del trattamento antipertensivo che ha influenzato la mortalità per ictus cerebrale. In Giappone c’era la mortalità più alta nel mondo per ictus cerebrale ed una delle più basse per infarto cardiaco. Nell'ictus cerebrale sì è registrata però una riduzione della mortalità del 44 %: è poco verosimile che un miglioramento del trattamento antipertensivo possa da solo conseguire un risultato così clamoroso. Sono state analizzate anche le influenze della dieta giapponese. Lo scarso contenuto di grassi ed una più elevato presenza di grassi polinsaturi rispetto ai grassi saturi ha con ogni probabilità influenzato la scarsa mortalità per cardiopatia ischemica. Sono stati valutati anche possibili fattori genetici, che però non sembrano essere responsabili della longevità dei giapponesi. Infatti osservando la differenza di mortalità tra giapponesi che vivono in Giappone e giapponesi che vivono negli USA e a Honolulu, ci si convince del ruolo prevalente svolto dallo stile di vita e dagli stimoli ambientali. Anche le motivazioni sociali ed economiche possono svolgere un influenza tutt'altro che trascurabile.

In conclusione, il record di longevità del Giappone non ha trovato una sicura spiegazione.

 

Quanto può vivere al massimo un uomo? Ogni nazione vanta il proprio record. Gli inglesi dicono di aver avuto Tommaso Parr morto nel 1535 a 152 anni, discendente da generazioni molto longeve; i russi Evasov morto nel 1956 a 148 anni; la Colombia Xavier Pereira morto nel 1955 a 167 anni. La longevità è stata osservata più frequentemente in alcune zone della terra, con interpretazioni non univoche e non del tutto convincenti. Vi sono regioni diventate famose in tutto il mondo perché in esse sarebbero frequenti gli ultracentenari. Le popolazioni più note e studiate in questo specifico settore sono tre: una vive nel villaggio di Vilcabamba nell'Ecuador, la seconda è quella del principato di Runza sulle montagne del Karakorum nel Kashmir Pakistano e la terza risiede nelle regioni della Ankasia ed Osezia della Georgia Sovietica. Ma le età riferite sono inattendibili per la mancanza di adeguati controlli anagrafici.

In realtà l'età massima che sia mai stata riscontrata e rigorosamente controllata in un uomo è probabilmente di 120 anni.

Per quanto concerne gli ultracentenari in Italia, vi sono rare pubblicazioni che affrontano l'argomento solamente sotto l'aspetto statistico-demografico. Recentemente si è potuto rilevare, dalla elaborazione dei dati relativi ai censimenti, che in Italia i centenari sono aumentati di trenta volte negli ultimi 60 anni, passando da 49 unità nel 1921 a 1.304 unità nel 1981, con un rapporto tra maschi e femmine di 1 a 3. Attualmente si è calcolato che i centenari in Italia sono circa 6000. La regione con il maggior numero di ultracentenari è la Toscana, seguita dal Veneto, dalla Lombardia e dal Piemonte.

 

 

 

 

 

Torna a "mortalità infantile nel sesso maschile"     Mortalità infantile. Al momento del concepimento per ogni 100 embrioni di sesso femminile vivono 115 embrioni di sesso maschile. Alla nascita la differenza è già molto meno marcata, essendovi per 100 femmine solo 105 maschi. Questo significa che vi è una quantità maggiore di aborti spontanei quando il prodotto del concepimento è di sesso maschile. Dopo la nascita si assiste ad una maggiore mortalità infantile nei maschi, tanto che a 30 anni il numero delle donne ha già uguagliato quello degli uomini. Sino a tale età, e soprattutto nell'infanzia, sembra poco verosimile una diversa influenza dei vari fattori ambientali sulla mortalità dei due sessi.

 

 

     

 

 

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