IL RITMO ED IL JAZZ
DALLO SWING AL TEMPO FLUTTUANTE

articolo tratto da "Musica Jazz" Anno 51°, N.11 - Novembre 1996
di Riccardo Brazzale

Nel corso della sua evoluzine la musica afroamericana ha avuto come costante e fondamentale caratteristica la pulsazione ritmica, ma variandone via via i modi. Pubblichiamo la prima parte di una analisi storica di tale sviluppo: si va dall'originario jazz di New Orleans alla Swing Era, per approdare (nel prossimo articolo) alle concezioni succedutesi dal bebop in poi.La domanda "che cos'è il jazz?" attende ancora, oggi come ieri, una risposta chiara. Com'è noto, il jazz è nato dalla fusione tra due sensibilità e due culture musicali ben precise, quella africana e quella europea (nè l'una nè l'altra, a dire il vero, al meglio della loro espressione) giunte a incontrarsi su un terreno altrettanto ben definito, gli Stati Uniti. Se una di quelle tre componenti fosse stata diversa sarebbe mutato anche il prodotto, come dimostra il fatto che non è jazz la musica sorta nelle Americhe del Centro e del Sud dall'incontro fra iberici e autoctoni (oppure fra latini e afroamericani). Il jazz si è sviluppato come un unicum ben diverso da altri generi (non può essere confuso, per esempio, con la recente world music) dal momento che, per quanto aperto (essendo quasi per definizione una musica di sintesi), si è via via imposto come un linguaggio contraddistinto da almeno due peculiari fili conduttori: un'esclusiva concezione del suono e un'altrettanto particolare concezione ritmica. L'idea ritmica che pervadeva il jazz di New Orleans, e lo rendeva nettamente diverso dalle altre musiche più o meno simili, di origine sia europea sia africana, era già segnata da una componente dapprima senza nome, che sarebbe assurta in breve tempo a referente massimo per ogni jazzista: lo swing. Come sempre accade tale componente avrebbe assunto un nome, rendendosi riconoscibile anche
nei dettagli, solo quando già esisteva da tempo. A partire dalla fine degli anni Venti, infatti, l'attività sempre più intensa delle orchestre rese urgente la necessità di fornire un codice comune a tutti i musicisti di una stessa band, un insieme di regole che consentissero di giungere a un prodotto univoco. Per molti versi si era di fronte a una palese contraddizione: il jazz, musica in cui si impone la soggettività, doveva attenersi a criteri oggettivi. Nel momento in cui era alla ribalta non un sassofonista ma un direttore d'orchestra (il cui strumento era la band nel suo insieme), il suo modo personalissimo di rapportarsi con il fluire del tempo musicale doveva essere chiara mente comprensibile, assimilabile e riproducibile dal gruppo. Grazie anche a un nuovo stile che vedeva la sezione ritmica scandire il tempo con quattro pulsazioni anziche le due adottate sino a poco tempo prima, in quel periodo il pubblico, emulando gli esecutori, prese a dondolarsi (e a farlo in maniera standardizzata come vuole quel gioco di coppia, ma anche di società, che è il ballo), il che spiega perchè nacque proprio quel nome: swing. Fu allora, nel momento in cui lo swing si andava tipizzando, che quel certo tipo di swing diede il nome addirittura alla nuova epoca alle porte. Come si diceva, però, lo swing c'era da prima: non tutti lo praticavano con spontaneità, ma più d'uno (Louis Armstrong in testa) ne aveva lasciato documenti probanti. Perche, dunque, se lo swing esiste da così tanto tempo, si è sempre stati refrattari a darne una definizione convincente? Sostanzialmente perchè lo swing è frutto della combinazione di molti elementi, in parte tecnici e in parte mentali, in parte razionali e in parte emotivi, in parte oggettivi e in parte soggettivi, così come ha chiarito Andre Hodeir nel primo e forse unico saggio in cui si sia affrontato il problema sistematicamente (1 ). Tuttavia, se è chiaro che lo swing è una caratteristica tipicamente jazzistica, non rintracciabile in Europa ne, così compiutamente, in Africa, ciò accade perche esso è prima di tutto la risultante di un rapporto, o meglio di una «tensione creativa fra tempo oggettivo e tempo soggettivo» (2), ovvero fra lo scorrere chiaro e costante del tempo di battuta in battuta (peculiarità propria della musica europea dell'ultimo millennio) e l'idea di un tempo personale, diverso da quello insito nell'ordine ritmico sottostante (ben sviluppata solo nella poliritmia e nella polimetria delle musiche africane). Quando l'originaria soggettività africana è stata subordinata a un'unica quadratura metrica, si è innescata una tensione che nel jazz sarebbe divenuta essenziale: il concetto di tensione assumeva valore in se, un valore per certi versi fondante, sotto il profilo ritmico (con la poliritmia), melodico (con l'instabilità dell'intonazione rispetto all'ideale europeo del temperamento equabile), armonico (con la predominànza di accordi di movimento: per l'armonia europea il blues non conoscerebbe mai pace) e timbrico (con pronunce e colori per lo più fisici e pregnanti). Nel jazz I'antinomia fra stasi e tensione è decisamente sbilanciata in favore del secondo elemento. Se nella musica europea la tensione ha senso perche è funzionale alla stasi, nel jazz avviene il contrario. E nel Novecento, mentre la musica europea, per aprirsi nuove vie, deve costruirsi razionalmente e artificialmente nuove tensioni, il jazz recupera quelle naturali, fisiche ed emotive che il corpo dell'«uomo bianco» non sa esprimere. Il jazz era subito piaciuto agli Stravinskij e ai Milhaud proprio perche aveva dentro quella tensione che si pensava potesse smouvere i paludati accademici, contro cui si battevano le avanguardie europee. Ascoltando per esempio la Creation du Monde di Milhaud si ha l'impressione che la musica sia sempre sul punto di liberare lo swing, di lasciare spazio all'assolo che molla gli ormeggi e si butta nel mare aperto, calmo o procelloso che sia; cosa che però non avviene mai, perchè lo swing non è di quel mondo.
Dunque, in un jazz che non rinunci allo swing (e che jazz sarebbe?), l'idea del tempo musicale può nascere solo dalla percezione di una struutra ritmica globale, data (si potrebbe dire "gestalticamente") dai rapporti fra le diverse idee del tempo proprie di ogni musicista chiamato a concorrere. E se lo swing non è avvertibile nella musica africana, è vero però che dall' Africa il jazz ha appreso una concezione del tutto sconosciuta all'Europa colta: quella secondo la quale il ritmo (ma anche la musica stessa) può esser frutto di un lavoro collettivo in cui l'apporto creativo del singolo è comunque irrinunciabile. Ovvero, come lascia intendere anche Gunther Schuller (3), all'interno del coro deve necessariamente essere riconoscibile la voce del singolo, ma la sua bellezza (nella musica africana e anche in molto jazz) è tale solo in quanto inserita nel gruppo e rapportata a esso: ecco tornare il principio della gestalt. Questo è uno dei motivi per cui lo svilup- po del jazz, che pure è in buona parte musica colta, dipende come nella musica popolare più dall'apporto del collettivo che da quello dei singoli. L'essenza di questa musica resta racchiusa in una sorta di filo conduttore che si è formato, si è ramificato e ha dato frutti secondo quello spirito di gruppo in cui sono riconoscibili i singoli apporti: uno spirito che sarebbe quanto mai interessante indagare anche sotto il profilo sociale e politico, data la sua estraneità alla logica manichea dell' aut aut fra singolo e gruppo che caratterizza l'Occidente. Per questo, in fondo, la Swing Era diede luogo anche a prodotti poco assimilabili all'autentica essenza jazzistica: perche l'omologazione a un unico modello ben chiaro e definito (da canticchiare e ballare, e quindi adatto all'evasione) negava la volontà di emergere del singolo. Si pensi ai successi di Glenn Miller, dove anche gli assoli non sono più improvvisati ma ricondotti a tema secondario: il caso di In The Mood è emblematico. La Swing Era, però, aveva per la prima volta individuato i singoli elementi tecnici dello swing ed era in grado di riprodurli, con la convinzione e la forza d'urto della grande orchestra. È dunque del tutto giustificato dire che Topsy dell'orchestra di Basie ha più swing di Four Brothers del secondo gregge di Herman, che pure ne ha da vendere. Basie, evidentemente, aveva fatto «quadrare il cerchio» più di Herman: usando sincopi e terzine quanto bastava, su un tempo metronomicamente perfetto per quell'idea dello swing, anticipando e rubando il giusto, spingendo senza esagerare ma con continuità, staccando e legando dove serviva. Lo swing tocca le corde dell'emotività più di quelle della razionalità. È dunque più facile avvertirne il senso dove tutti gli elementi sono espliciti ovvero, innanzitutto, dove la sezione ritmica funziona a dovere; per questo, la presenza o l'assenza della chitarra di Freddie Green può fare la differenza. Si consideri una versione di Topsy del 1960, nell'arrangiamento a suo modo perfetto di Neal Hefti. Che fa la ritmica? Intanto agisce su una velocità metronomica che si colloca quasi subito sui 182 alla semiminima, un'andatura un po' più veloce rispetto al cosiddetto «swing tempo» che Hodeir ritiene fissato a 162, come nel Topsy eseguito dal quintetto Konitz-Marsh nel 1956. Il segreto dello swing di Basie è innanzitutto nel rapporto primario fra il contrabbasso di Ed Jones e la chitarra di Green: al basso (che, come vuole una regola non scritta, appare idealmente un po' in anticipo) la chitarra risponde, dopo le prime otto misure, segnando il «levare» (il «battere» è reso sottovoce) non proprio sul tempo, che è tenuto dalla batteria, ma sovente con un filo di anticipo rispetto a questa eppure con un certo ritardo rispetto al basso. Possono sembrare elucubrazioni eccessive ma è invece la realtà, complicata perche quasi impossibile da annotare sulla carta e al tempo stesso semplice, perche i jazzisti autentici l'hanno sempre fatta propria con l'apprendistato. In realtà, la scansione in ritardo è un'eccezione. La regola resta il contrario: la spinta propulsiva, ben accentuata in big band come quella di Basie, è dovuta principalmente al fatto che tutti, a partire da basso e batteria (con il caratteristico disegno sui piatti: es. A), fino all'intera sezione dei fiati, tendono ad anticipare il tempo come per spingerlo in avanti (specialmente quando prende a essere scandito su tutti e quattro i quarti) ma nel perenne intento di non accelerare effettivamente. Può accadere che da 178 si vada a 182, da 182 a 186, ma il senso dello swing si basa proprio sulla fermezza dei «custodi del tempo»: tant'è vero che una ritmica non è più apprezzata quando i colleghi percepiscono che è venuta a mancare, nel complesso, la stabilità nella scansione del tempo. Torniamo a Topsy: la spinta propulsiva, marcata dagli accenti sui tempi deboli dei riff degli ottoni (es. 8), non è la caratteristica più importante dello swing ma certo la più evidente, e guadagna un'efficacia ancora maggiore nel momento in cui entra in relazione con il rilassatissimo tenore di Frank Foster; è questo il primo motivo per cui la band di Basie si colloca di diritto tra quelle con il maggior swing. Ecco dunque una prima conclusione: lo swing è più preciso ed eccitante se è chiaramente espresso (e non solo sottinteso) nella dialettica fra spinta propulsiva e relax; tale tensione appare nella massima evidenza se la spinta è fornita dalla sezione ritmica e il relax è lasciato a chi ha in mano la melodia, ciò che Erroll Garner ha riunito nella dialettica tra il ritardo della mano destra e il pulsare della sinistra, soprattutto in piano solo (si ascolti Play Piano Play del 1947). D'altronde, la tecnica che mette in rapporto tensione e relax accentuando quest'ultimo era già stata evidenziata da Coleman Hawkins, con quel suono così voluminoso, e vieppiù sviluppata da Ben Webster. La storia del jazz mostra che nel rapporto ritmico fra gli esecutori ma anche nel rapporto che il singolo solista instaura per così dire fra se e se, nel proprio modo di sentire tempo oggettivo e tempo soggettivo le varianti sono infinite. Dal bop in poi ritmica e solisti infittiranno sempre più le tensioni interne, con il risultato che lo swing diventerà un elemento ben più complesso che in passato, frutto non di una sola tensione ma del rapporto fra tensioni diverse: Parker in relazione a Roach, e Coltrane a Elvin Jones, stabilirono rapporti che un tempo sarebbero effettivamente parsi di rottura. Del resto, il jazz si è chiesto fin dalle origini se potesse fare a meno della ritmica mantenendo lo swing: il cool ante litteram di Beiderbecke, Trumbauer, Lang, Venuti segnò una stagione breve ma densa di elementi destinati a lasciare il segno. Esemplare a questo proposito è il caso di Armstrong. Evidentemente, quando alla fine del 1925 diede vita agli Hot Five, egli tendeva a una musica raffinata, che si differenziasse in modo deciso dall'esistente, cercando anche di respingere l'accusa di chiassosità che ben pensanti e cattedratici muovevano al jazz: proprio per questo nel gruppo mancavano due "segnatempo" come tuba e batteria. Tuttavia Armstrong non poteva dimenticare che il jazz era diverso dalla musica colta (e da quella bandistica) perche assegnava un ruolo fondamentale alla scansione del tempo; del pari, il jazz si differenziava dalla musica «ballabile» perche quella scansione era innervata dallo swing. Così, quando nel '27 Armstrong sentì il bisogno di rivitalizzare la formazione, lo fece fondando gli Hot Seven, aggiungendo appunto quegli strumenti che gli avrebbero garantito l'imprescindibile spinta dello swing.
Certo, ascoltando Muskrat Ramble del 26 febbraio 1926 dagli Hot Five (e anche Potato Head Blues del 1 O maggio 1927 dagli Hot Seven) si ha la precisa sensazione che, per produrre swing, sarebbe stato sufficiente il solo Armstrong, data la sua inimitabile perizia nel creare tensioni all'interno delle sue stesse frasi e delle antinomie tra domanda e risposta, ricorrendo a divisioni ritmiche e ad accenti disseminati con maestria. E va anche notato che in Muskrat Ramble il sound di riferimento è quello di una piccola brass band da strada, non quello di un quintetto jazz a cui manchi una parte della ritmica. Armstrong, decidendo con la fondazione degli Hot Seven di rendere esplicito il ritmo, gettava un ponte verso il futuro, quello che di lì a poco esigerà appunto uno swing che esprime chiare e forti le proprie tensioni. Chi, in seguito, volle swingare senza I'ausilio della ritmica dovette assicurarsi di esser capace di produrre comunque un qualche genere di tensione, per quanto «sottovoce». In Muskrat Ramble la spinta in avanti necessaria allo swing è in buona misura sulle spalle del banjo di Johnny St. Cyr e sul controcanto del clarinetto di Johnny Dodds. Non è certo nelle mani di Lil Hardin, ma neppure nella coulisse del trombone di Kid Ory il quale, nei brevi break, dà vita a una serie di figure ritmiche tutte in staccato «croma con punto semicroma» ( es. C) più vicine alla marcetta che al jazz. Ben altra cosa è il terzi nato swing, ossia la lettura di una coppia di crome come se si trattasse di una terzina, con la prima nota più lunga (per due terzi della durata complessiva) e la seconda più breve (il restante terzo; es. D). La lettura di questo effetto presenta una certa difficoltà, tanto che è più facile apprenderlo da un maestro, per imitazione, che leggendo uno spartito pur scritto a regola d'arte. Il motivo di tale difficoltà era già noto ai musicisti del Sei-Settecento e oggi ai sostenitori della cosiddetta prassi esecutiva (4): due note uguali (poniamo due crome) si leggono sì a terzi- na in maniera diseguale, con la prima più lunga, ma il rapporto tra di esse dipende dalla velocità di esecuzione. Più l'esecuzione è veloce, più le note tendono a una durata eguale; viceversa, più l'esecuzione è lenta, più la prima nota si allunga a scapito della seconda. Le difficoltà di esecuzione sono dovute al fatto, come ha spiegato Hodeir (5), che «il tempo non può essere ne troppo lento, ne troppo rapido (...). Sotto il 54 il tempo perde ogni potere "centrifugo" e alla sezione ritmica accade quel che accade a una pallina di roulette alla fine della corsa. Sopra il 360 è assai difficile che l'esecutore riesca a mantenere quel minimo di sciol- tezza e di precisione fuori delle quali non esiste più swing». Certo il concetto di velocità è sempre relativo: Parker, Coltrane e Brecker, ai tempi di Armstrong, erano ancora di là da venire. Altro è il problema dei tempi lenti, nei confronti dei quali, per non perdere swing, il jazz ha adottato fin dagli esordi due soluzioni: il raddoppio sottinteso del tempo (che può portare a effettivi raddoppi di velocità, come accade per esempio nello Squeeze Me di Armstrong con gli Hot Seven, inciso il 29 giugno 1928) oppure l'uso di una melodia soprastante totalmente indipendente dal flusso della ritmica. Billie Holiday, in questo, resta insuperata. Persino una canzone nota a tutti, come Blue Moon, cantata da lei può far perdere il conto delle battute: Billie allunga le note, ritarda i punti d'arrivo, dilata le frasi e poi le riaccorcia, quasi sempre pensando a terzine ad arco più ampio (es. E). La via che avrebbe portato alla versione di In YourOwn Sweet Way dello Standards Trio di Jarrett era già tracciata. Ma con Billie Holiday (e con Jarrett) ci muoviamo già entro una concezione dello swing molto più complessa e ricercata. Altro è buttare il sasso di una nota sola, sicuri che la ritmica la sospingerà. È quanto accade all'Armstrong degli Hot Seven, che fin dalla prima nota di Potato Head Blues ci rammenta quanto sia importante un bassotuba (o un contrabbasso) che faccia da battistrada. Il raddoppio del tempo si rende necessario quando la sua scansione scende sotto certi livelli: Squeeze Me cammina ai 98 di semiminima ma il problema si avverte anche per Basin Street Blues che va a 112. Su una via di mezzo si colloca Minnie The Moocher, che Cab Calloway attaccava ai 106 di semiminima. Anche qui il lavoro della ritmica è fondamentale, perche per sostenere l'anticipo deve fare uno sforzo superiore. Il tempo è molto più lento ma certo non tanto da far pensare a una ballad; il brano è quello che viene definito uno shuffle, un tempo nel quale la ritmica ha il ruolo più delicato: non deve mai smettere di «tirare» perche la tensione necessaria allo swing non venga meno.
Per inciso, «tirare» è un verbo centrale, e nel gergo resterà tipico dire che una ritmica ha o non ha «tiro». Tuttavia va osservato che in inglese il verbo corrispondente è drive, guidare, e che la sensazione che ne deriva sta nel groove, l'esserci dentro, penetrare il tempo. Un sound dello stesso genere, per restare in stile jungle, è quello di The Mooche, brano che Ellington, nell'ottobre del '28 (in varie versioni Okeh, Cameo, Brunswick, Victor), prendeva ai 116 di semiminima, diminuiti nel '46 a 98: Ellington non raddoppia mai ma il raddoppio va almeno pensato, ogni tanto, perche il relax non diventi staticità pura. Tuttavia, la ritmica è fondamentale ma non sufficiente; tant'è vero che la band di Moten, culla dell'orchestra di Basie, nulla poteva di fronte a una sezione di sax che eseguiva tutte le note staccate, senza quindi il fondamentale rapporto fra legato e staccato. Un brano come The Count, abbastanza affine a Topsy, ne soffre tremendamente proprio per la pronuncia dei sax, così saltellante da farli sembrare impegnati in una polka. Certo, era il pedaggio che doveva pagare uno strumento come il sassofono, allora agli esordi in ambito jazzistico, ma sta di fatto che quella pronuncia mina le basi dello swing. D'altronde, se si ascolta il sax di Frankie Trumbauer, che pure avrebbe ispirato jazzisti come Lester Young e Lee Konitz, si ritrova quel suono «senza spina dorsale» che è oggi solo dei sassofonisti di educazione accademica. Si capisce dunque come la spinta propulsiva, così vitale per il fattore swing, deb- ba essere percepibile a partire dalla nota in se, sin dalla produzione del suono, come ha sottolineato Giorgio Gaslini (5). Owero, proprio l'analisi della single note consente di dire che qualcosa differenzia la pronuncia «classica» da quella jazz anche nell'emissione di un solo suono: ancora una volta è la pronuncia terzinata. A questo punto occorre tornare brevemente indietro. Possiamo dire che la spinta propulsiva è awantaggiata dalla lettura terzinata perche, nella coppia di note, la seconda (quella di minor durata) va eseguita staccata; d'altra parte, non essendo troppo breve (un terzo della divisione), può rilanciare alla volta della coppia di note che segue. Analogamente la semiminima swing dovrebbe essere eseguita come una terzina formata da una semiminima seguita da una pausa di croma (es. A: bisognerebbe inoltre eseguirla come se fosse scritta con l'indicazione di una forcella a spegnersi, e la pausa avrebbe la funzione di un respiro per rilanciare. Già a questo punto si può dire che la di- namica tra stasi e movimento, che in gene- rale connota tutta la musica, nel jazz si esprime a diversi livelli e fino nei minimi particolari: il rapporto lunga-breve nel terzinato, il legato-staccato, il ritardo-anticipo specie nelle frasi sincopate. Perche di fatto, se la sincope è chiaramente un artificio che dà slancio, quando essa viene inserita in un contesto terzinato ( es. G) dà quello slancio del tutto particolare, per molti versi unico, che ora possiamo ben definire swing.
Quando Goodman attacca il tema di un brano come Don't Be That Way, il semplicissimo ostinato delle trombe sotto la melodia dei sax è già uno schema tipico, così come lo è il riff, sempre degli ottoni, sul bridge, ancor più semplice (es. H). Lo si era detto all'inizio: le big band sono in qualche modo costrette a tipizzare, a standardizzare, a creare prototipi di pronunce, di uso del terzinato, di schemi ritmici più efficaci. Ancor più di Goodman, Glenn Miller, per aumentare la comprensibilità e l'immediatezza, riduce il numero degli schemi in uso, dando spazio e voce solo a quelli maggiormente prevedibili. Se si ascoltano le formule antifonali cantate da Calloway in Minnie The Moochersi noterà che, quando esse si fanno ritmicamente più complicate, chi è invitato a rispondere comincia a perder colpi. In Pennsylvania 6-5000 Miller non si sarebbe mai sognato di intercalare questo genere di complicazioni. Lo swing era concepito come una macchina poderosa che, con pochi fronzoli, sapesse smuovere anche una pesantissima pietra angolare. Ma così rischiava di finire come Re Mida: qualunque cosa, al suo contatto, prendeva a oscillare in avanti, facendo dimenticare tutte le altre proprietà della musica. La poesia di Beiderbecke sarebbe potuta passare in secondo piano, e persino il magistrale senso del tempo di Billie Holiday avrebbe faticato a emergere se alle sue spalle non vi fossero state le mi- gliori sezioni ritmiche d'America. Prima della Swing Era, il senso dello swing era solo una questione di feeling (to feel good, to feel groovy): sarebbe stato assai arduo spiegare a chi non fosse un conoscitore del jazz che la scansione a crome dei bassi nel secondo movimento dell' Italiana di Mendelssohn non era swin- ginge che nemmeno lo erano, in se (al di là delle libertà interpretative), le figure di tipo terzinato nell' Arietta dell'ultima sonata di Beethoven (in verità si tratta di un tempo in 9/16: es. I). Dopo la Swing Era, lo swing era patrimonio di tutti: delle orchestrine da ballo come di qualsiasi buon cantante di musica leggera e, magari, anche di qual- che pianista classico. Come il jazz tutto, lo swing, ormai interiorizzato e dato in buona misura per scontato, necessitava di un rin- novamento. Il bop era alle porte.

NOTE (1) Andre Hodeir, Uomini e problemi del jazz (traduz. di Mario Cartoni), Longanesi. Parte quarta, cap. XII: «Fenomenologia dello swing)). (2) John Fordham, Jazz (ed. it. a cura di Ric- cardo Brazzale), Idea Libri. Parte quarta: «Ritmo)). (3) Gunther Schuller, Il jazz classico (ed. it. a cura di Marcello Piras), Mondadori. Capitolo l: «Le origini),. (4) Secondo la «teoria della diseguaglianza)) formulata dai teorici della prassi esecutiva barocca, due note di egual durata possono essere eseguite in modo diseguale, appunto allungan- do la prima e accorciando la seconda. Lo stesso Bach, per portare a una maggiore corrispondenza parte scritta e parte eseguita, in taluni casi aveva «sostituito)) le coppie di crome con figure «croma con punto semicroma)'. Era però una semplificazione chiara per lui ma non per altri, tanto che, a scanso di equivoci, i moderni revisori (è il caso del quinto Concerto brandeburghese, per esempio nella partitura della Editio Musica Budapest) raccomandano che anche la figura «croma con punto -semicroma)) vada letta come se si trattasse di una terzina composta da croma e semicroma. Lo stesso problema si è proposto anche in ambito jazzistico: non solo in termini esecutivi (lo si è visto con Kid Ory in Muskrat Ramble), ma anche in sede di trascrizione, con il tentativo vano e dannoso di rendere le «notes inegales)) dello swing indicando appunto la figura «croma con punto -semicroma) . (5) Andre Hodeir, op. cit. (6) Giorgio Gaslini, Tecnica e arte del jazz, Ricordi. Capitolo Il della Parte 1, «Ritmo espresso e ritmo sottinteso)).

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