IL RITMO ED IL JAZZ

articolo tratto da "Musica Jazz" Anno 51°, N.12 - Dicembre 1996
di Riccardo Brazzale

Dalla Swing Era il bop aveva ricevuto in eredità una musica che (nella prassi più che nella teoria) aveva definito il concetto di swing in maniera tutto sommato poco equivocabile. Si trattava, come abbiamo visto nella scorsa puntata, di una concezione ritmica caratterizzata prima di tutto dalla chiara dialettica fra la spinta propulsiva della sezione ritmica e il relax di chi teneva la linea melodica, spesso contraddistinta da un'anomala poliritmia creata dal portamento «in ritardo» usato dal solista. Altre sue peculiarità fondamentali erano una particolare lettura terzinata (variabile a seconda della velocità d'esecuzione), l'alternarsi di staccato e legato, una marcata presenza di figure sincopate, l'accento forte per lo più posto sulle divisioni pari della misura, una pronuncia sempre più indirizzata a un suono «fisico» (bluesy}, antitetico alla bellezza classica occidentale. Quando, con il bop, il jazz ritenne di dover prendere decisamente le distanze dalla musica leggera e spingersi, con la coscienza di una nuova arte, verso il «colto» (senza comunque identificarsi con l'accademico), tutti gli elementi costitutivi dello swing dovettero subire una sempre maggiore elaborazione: proprio esso infatti connotava lo stile da cui i bopper volevano prendere le distanze. Nella volontà di distinguersi dai «dilettanti», i nuovi musicisti si confrontarono subito con divisioni ritmiche molto articolate e archi melodici resi spigolosi da strutture armoniche complesse; tutto, inoltre, veniva quasi sempre eseguito a una velocità notevolmente superiore a quella degli stili precedenti. Un musicista come Charlie Parker, sotto questo aspetto, doveva sembrare davvero di un altro mondo, perche stava sviluppando un approccio assolutamente nuovo alla composizione estemporanea, attraverso valori metronomici così alti da restare imbattuti fino a Coltrane; anche lui del resto non li superò di molto (1 ). Non che i bopper disdegnassero i tempi medi e le ballad; Monk ne era maestro, anche se, in verità, spesso faceva ricorso al pre-bop (una sorta, potremmo dire, di stride-bop). Tuttavia, è a partire dai brani medio-veloci che essi poterono rielaborare il concetto di swing, eliminandone gli stereotipi: abbandonando cioè quelle modalità rese immediatamente riconoscibili da riff ritmico-melodici mandati a memoria, o da sincopi, accenti e terzine ormai di routine. Va ricordato comunque che, in una seduta divenuta storica come quella del 26 novembre 1945, Parker non lasciava solo alla storia del jazz il marchio irraggiungibile del virtuoso dell'avanguardia, eseguendo Koko a 292 di metronomo, ma registrava anche Billie's Bounce che viaggia intorno ai 158 (cioè vicino al «tempo standard» secondo Hodeir, quello cui già si allude nel titolo del brano, con riferimento al bounce tempo) e Now's the time ai 118 (velocità tipica di certi shuffle-blues, come pure sarà Blue Bird). In ognuno di questi brani la dialettica fra la linea del sax e il background della ritmica restava un fattore primario, ma il rapporto andava mutando, perche la linea melodica era ormai capace già in se di creare tensioni, esautorando in questo la funzione della ritmica; con il risultato che la dialettica non era più fra relax e tensione, ma all'interno di tensioni diverse. Come era stato per Armstrong, Parker rappresentava la punta di diamante di un movimento, ma rispetto al trombettista aveva il vantaggio di poter contare su partner progettualmente più vicini. E il bop fu, sin dall'inizio, come una sorta di work in progress in cui, comunque, la ritmica era «costretta» a un lavoro di costante attenzione, di continua creatività, quasi alla pari con ciò che era chiesto al solista: essa non poteva più permettersi di accompagnare soltanto, ma doveva pungolare senza posa chi si stava in quel momento confrontando con la pratica dell'improwisazione. La batteria giungeva persino a interrompere il discorso della leading voice, lasciando al walking bass la funzione di traino e agli strumenti armonici quella di sottolineare i cambi di situazione. La mera iniezione di velocità, pertanto, nella dialettica fra relax e tensione aveva portato a restringere sempre più lo spazio del primo rispetto alla seconda, per giungere come si è accennato a un rapporto fra tensioni diverse. Effetto immediato dell'aumento della velocità era la tendenza alla diminuzione, sino alla scomparsa, della lettura terzinata: lo swing diveniva sì il risultato di suddivisioni ritmiche complicatissi me (es. A), ma anche e soprattutto di una nuova pratica di accenti «non ortodossi», sicuramente anticonvenzionale rispetto alla vecchia idea di linea melodica. In tale prassi erano parte importante tanto le «bombe» suonate sulla cassa da Kenny Clarke, e le sparate sui sovracuti di Dizzy Gillespie, quanto il «non-suono» delle note fantasma di Parker (es. 8). Tale concezione dello swing si sarebbe alla fine delineata come classica, al pari di tutti gli elementi costitutivi del linguaggio bop: ciò che Parker aveva detto con il suo quintetto del '45 (che rimane l'indicazione basilare del suo pensiero, al di là di periodi o momenti eccezionali come il gruppo con Miles Davis o la ricapitolazione del concerto del '53 alla Massey Hall) sarebbe rimasto basilare per tutto il nascente jazz moderno. Le big band, invece, continuavano in varia misura a essere legate alla pratica dello swing tradizionale, tanto che solo l'aumento della velocità di esecuzione poteva garantire la reale vicinanza al nuovo stile: si prendano come esempio due pietre miliari dell'orchestra di Gillespie del '46 come One Bass Hite Things To Cornee apparirà chiaro che solo il secondo brano è già pienamente intriso del nuovo swing, tutto tensioni e poco relax. Com'è noto, nello stesso periodo il nuovo jazz aveva dato vita a una corrente basata sulla razionalità e il distacco, quella del cool di Tristano e della sua scuola: se le tecniche nell'uso dell'armonia e della costruzione melodica erano le medesime (e per certi versi più complesse), le diversità dal bop nascevano proprio nella concezione del suono e dello swing. l gruppi guidati da Tristano o da Konitz nel periodo' 49-50 erano certamente connotati da un minor coefficiente di swing; prima di tutto perche in essi la sezione rit- mica era relegata a una mera funzione metronomica, di scansione, e non era quindi in grado ne di produrre spinte propulsive, ne di creare tensioni al suo interno; del resto, anche le linee melodiche ne creavano quasi solo grazie alla scelta degli intervalli, mentre ritmo e suono erano portati a una dimensione simile a quella accademica, con dinamiche contenutissime e accenti sempre mantenuti sottovoce. Le tensioni erano tutte implicite, per così dire «platoniche». Lo stesso Tristano avrebbe in seguito awertito la fragilità di una simile concezione in ambito jazzistico, proponendosi dal vivo (già nel '52 a Toronto) in versioni ritmicamente molto bop, attribuendo alla poliritmia un ruolo decisivo anche sotto il profilo dello swing. Non così sarebbe stato per altri jazzisti di estrazione cool: sia gli «sperimentatori» di New York (come gli stessi Konitz e Bauer, e poi il giovane Charles Mingus con una cerchia di italoamericani quali John LaPorta, Wally Cirillo, Teo Macero, Louis Mucci, Clem De Rosa e altri) sia musicisti meno avventurosi, come molti californiani. Proprio per ribattere a questa idea di un jazz annacquato nei suoi elementi fondamentali (il suono e il ritmo, appunto) i jazzisti degli anni '50 non tardarono ad apparentarsi con il soul, il gospel, il funk (quello «storico», ovviamente) e il rhythm 'n' blues, dove la scansione divenne così esplicita da favorire uno swing molto vicino a quello del Cotton Club di Calloway o della Kansas City di Benny Moten: il jazz doveva essere una forma di vita attiva, dal cuore ostentatamente pulsante, i cui tratti essenziali (lo swing per primo) andavano espressi in maniera limpida, inequivocabile e senza alcuna esitazione. Il linguaggio tese perciò a semplificarsi, recuperando il valore comunicativo dei riff e delle formule antifonali, tornando alla pronuncia «fisica» e a un senso ritmico che sancisse il legame indissolubile appunto con le pulsazioni dell'esecutore: Mingus racchiuse tutto ciò nel titolo di un album divenuto celebre, «Blues & Roots». In questa concezione, la sezione ritmica riaffermò la propria funzione in maniera fondamentale.
È di quegli anni (1959) la registrazione di «Kind Of Blue», il disco pro- babilmente più significativo dell'intero jazz moderno, quello che, più di ogni altro, ha reso classico il nuovo jazz. Pur lontana da «blues e radici» di Mingus, di Silver, di Blakey, del Cannonball in veste di leader, la ritmica di Davis aveva una compattezza d'intenti ineguagliabile. Miles poteva permettersi di suonare sul blues (Freddie Freeloader, AlI Blues) o su una struttura ancora più semplice (I' AABA modale di So What) anche una sola nota, e magari, di tutte, la più ovvia: la tonica (o, per essere precisi, la «finalis» nel caso del modale). Scrive John Fordham: «Dopo la leggera, calda esposizione tematica del contrabbasso in So What, la tromba di Miles Davis inizia I'assolo con appena due note, la seconda un'ottava sotto la prima. Il primo suono rimane galleggiante, sospeso nel vuoto per una frazione di secondo che sembra non finire mai. E come si smorza, il batterista va all'improvviso sul piatto vibrando un unico colpo ben assestato, che irrompe simile ad una fiammata che entri in uno scenario di luce crepuscolare; e, nell'eco sibilante di suoni metallici, se ne esce la tromba di Davis che si libra con noncuranza nello swing. Questo è il suono del jazz» (2). Del resto, in Freddie Freeloader l'inizio dell'assolo di Miles che segue quello esemplare, fra i più indicati per la didattica, di Wynton Kelly -è giocato su una stessa nota ribattuta tre volte (ancora una volta la tonica). E un'analoga semplicità si riscontra in AlI Blues, un blues in sol, dove Miles attacca I'assolo appunto con un paio di sol, ripetuti una battuta dopo: a conferma, insomma, che può bastare una sola nota a produrre swing, a patto che essa sia dotata di una certa pronuncia, di una certa intenzione e di un preciso rapporto con la ritmica. Riaccendendosi la dialettica fra ritmica e leading line ne guadagnava lo swing: proprio nelle pause della melodia esso si riprendeva uno spazio autonomo per porgere altre idee all'improvvisazione. Di ciò era ben consapevole Thelonious Monk, che disseminava di silenzi il suo incedere, sicuro che un partner adeguato ne avrebbe fatto buon uso, awalorando quanto era appena stato detto e quanto ancora restava da dire. Ora, alla vigilia dell'avvento del free, il nuovo concetto di swing poteva, specie con l'aumento della velocità di esecuzione, fare a meno della lettura terzinata, ma non di una ritmica che scandisse il tempo. Certamente si trattava di una scansione più complessa che in passato, ma sempre di scansione doveva trattarsi. Il valoroso batterista Gil Cuppini, del resto, non aveva dubbi sul punto di confine tra jazz e non jazz, sostenendo: «Jazz è fin tanto che si scandisce il tempo». Se considerata senza pregiudizi, l'affermazione parrà meno obsoleta o eretica di quanto non sembri a prima vista. Roach non scandiva forse Koko, in duo con Parker? Higgins e Blackwell non scandivano sotto le linee di Ornette? E le sheets of sounds di Coltrane non si lasciavano scandire da Elvin Jones? Ma poi: la scansione di Tony Williams in Frelon Brun (da "Filles De Kilimanjaro» di Davis) era jazz? Sì. Come abbiamo visto e come vedremo, tutti costoro scandivano, ma lo swing che era in quella scansione stava mutando aspetto e in qualche modo anche sostanza. Nel 1960, anno di uscita di "Blues & Roots» (ma anche dell'incisione di "Mingus Presents Mingus Quartet» con OriginaI Faubus Fables e della "Freedom Now Suite» di Roach), John Coltrane presentava al mondo My Favorite Things e Ornette Coleman il suo Free Jazz.
My Favorite Things costituisce una pietra miliare per diversi motivi. Intanto, la divisione metrica è ternaria; fino ad allora lo swing non aveva mai stretto rapporti convincenti con i tempi ternari. È vero che sia Roach sia Mingus vi stavano lavorando da qualche anno, ed è vero che Ali Blues, come abbiamo visto, era già un piccolo capolavoro. Ma con My Favorite Things si era di fronte a un modo di concepire lo swing nel tempo ternario che si mostrava intimamente jazzistico: non il frutto di prove di laboratorio o di un'eccezione difficilmente ripetibile, ma la dimostrazione inconfutabile che lo swing era riproducibile all'infinito, tanto nei tempi pari quanto in quelli dispari. In un certo senso lo swing, applicato al tempo ternario, veniva fatto rientrare in quella concezione generale del «pensare in tre» che aveva già lasciato la sua impronta indelebile nella pronuncia terzinata. In realtà, fino ad allora, il tempo ternario non era mai stato considerato organico al jazz e, d'altra parte, lo swing era stato legato in maniera quasi indissolubile al «piede dattilico» eseguito sui piatti dal batterista: una lunga e due brevi, dove le due brevi (le due crome) erano variate con la figura «croma con punto-semicroma» owero, come si è visto nella prima puntata, con la terzina semiminima-croma (es. C). Nella sostanza, il tempo ternario (si trattasse di un 3/4, di un 6/8 o anche di un 12/8, come spesso accade in Mingus) era pensato in 3/8, cioè interamente all'interno di una pulsazione, ed era eseguito, di base, come la prima parte della «siciliana» (es. D) o varianti di essa, provocando un breve senso di riposo sul secondo movimento di misura (es. E). Con l'accorgimento del walking bass, cioè con la scansione di tutte le pulsazioni della misura (invece che solo della prima, o della prima e della terza), veniva perciò a crearsi una tensione in più: quella fra la propulsione del basso e il relax della batteria. Si consideri, inoltre, che la batteria poteva pensare le coppie di battute in 3/4 come gruppi di tre in 2/4, calandovi le vecchie figure del dattilo-swing (es. F) e creando perciò un ulteriore poli ritmo fra l'impianto di base in 3/4, la scansione della batteria in 2 e quella del basso che, con l'andamento walking, scandiva sostanzialmente in 1. Eccoci al punto cruciale. Acquisito lo swing anche nel tempo ternario, Elvin Jones lo immette in una rivoluzionaria concezione poliritmica, dove il pensiero musicale è suddiviso in archi di varie ampiezze (spesso ternari, fra l'altro, nei tempi pari: es. G), e certo non solo in frasi di quattro battute, come avrebbero voluto le forme semplici -gli standard e i blues -usate sino ad allora dai jazzisti (3). Dalla prima versione di My Favorite Things, in un crescendo impressionante che tocca tutte le opere coltraniane della prima metà degli anni '60, quello che solitamente era chiamato accompagnamento era diventato per Elvin Jones un paritetico, interminabile assolo. In questa concezione poliritmica, la scansione del tempo era ormai virtualmente pensata come se si trattasse di una divisione metrica in 1 (1/4 oppure 1/8): un sus- seguirsi di battute composte di una sola pulsazione. Non c'erano più differenze concettuali tra i brani in tempi pari e quelli in tempi dispari (anche se, nella pratica, i tempi dispari composti, come quelli in 5, in 7 o in 11 , sarebbero stati sviscerati e interiorizzati solo in epoca recente). La scansione continuava a esserci, ma solo perche si riteneva necessaria un'unità di misura più o meno costante: il free era in parte già entrato nella tradizione del jazz, anche se chi lo praticava pensava che esso significasse l'assenza non solo di metrica t ma anche di scansione. Così non era. E se l'orecchio di chi frequenta il jazz può ancor oggi awertire che in FreeJazz di Ornette Coleman è presente lo swing, ciò accade sostanzialmente perche in quell'opera (ma anche in molte altre, come i dischi dal vivo al Golden Circle) il senso della scansione continua a essere presente: la chiara lontananza dai centri tonali e modali, sino alla loro eliminazione, non impediva alla sezione ritmica (gli eccezionali Billy Higgins e Charlie Haden, e più avanti i non meno importanti David Izenzon e Charles Moffett) di avere bene in testa un'unità di tempo e di spingerla in avanti in un modo in cui la vecchia dialettica dello swing, quella che abbiamo riscontrato fra tensioni e relax, era ancora ritenuta fondamentale. Certamente, era come esser di fronte a un orologio senza numeri e con la sola lancetta dei secondi, che avanza regolarmente ma senza far capire in quale angolo del tempo ci si trovi; ma era pur sempre una scansione, e una scansione abitata dallo swing. Ora, a scanso di equivoci, va chiarito che la scansione non è sempre presente (ne rintracciabile) nelle opere free. Specialmente quando l'intreccio eterofonico tende ad aggrovigliarsi, e a farlo con energia crescente sino all'impatto violento, la scansione e le tensioni swing scompaiono, per ricomparire quasi sempre non appena esce la voce del solista, che può finalmente confrontarsi solo con la ritmica; il caso del coltraniano Ascension è emblematico. Non che, mancando la scansione, lo swing si azzeri automaticamente: esso può rimanere in piccole tracce, nelle singole voci, anche perche il retroterra di ognuno (fatto anche di terzinati, sincopi, legato-staccato) non può certo esser rimosso di colpo; ma i musicisti free sono quasi sempre portatori di un tale carico di energia che, nel momento in cui essa si somma a quella dei compagni di viaggio, è quasi impossibile che lo swing possa affiorare, dal momento che il suo senso di vitale leggerezza in quei casi è totalmente rifuggito. Lo spirito dello swing viene non solo abbandonato ma anche duramente attaccato da chi sceglie di restare legato alla tradizione esclusivamente per quanto concerne l'aspetto melodico, distaccandosene in modo totale sotto il profilo ritmico: è il caso di musicisti come Albert Ayler, che dimostrano ben poco interesse per il classicismo bop, purconservandoe manifestando un suono tipicamente jazzistico. Detto ciò, appare oggi chiaro che nel free è presente una nuova idea dello swing: in essa, pur non essendovi divisione metrica, il flusso sonoro (ben ancorato espressivamente all'ancestrale fisicità afroamericana) deve comunque situarsi su uno scorrere del tempo che, per quanto cangiante e fluttuante, sia implicitamente regolato da un'unità di misura, grazie alla quale si rendano possibili la spinta propulsiva e la dialettica con le diverse tensioni o l'eventuale relax. Questa nuova idea dello swing (per quanto ben lontana da caratteristiche tecniche del passato, quali il dattilo-swing, il terzinato, le sincopi, illegato-staccato) è ri- masta attuale sino a oggi in tutti i casi in cui continua a esistere, a qualsiasi livello, una divisione di ruoli fra ritmica, solisti e parti melodico-armoniche secondarie. Non solo dunque nel caso di un gruppo in cui tale divisione appaia con tutta evidenza, ma anche laddove essa sia implicita o per lo meno ripartita e scambiata fra i vari componenti (in un moderno trio pianistico, basso e batteria non si limitano certo ad accompagnare, così come vi sono quartetti di sassofoni nei quali il baritono assolve a compiti eminentemente ritmici: è il caso del World Saxophone Quartet, soprattutto se confrontato con il Rova). Quando invece tale suddivisione dei ruoli è stata radicalmente messa in discussione (in particolare dall'avanguardia chicagoana, alla fine degli anni '60), non essendo più possibile parlare non solo di divisione metrica, ma addirittura di scansione ritmica, anche lo swing è venuto meno. In gruppi storici come Air di Henry Threadgill (che pure si presentava in trio con batteria e basso) o il Revolutionary Ensemble di leroy Jenkins, passando per la complessa esperienza braxtoniana, sino al duo di George lewis e Douglas Ewart, è stata proprio la concezione ritmica (e, se condariamente, quella del suono) a subire i maggiori mutamenti; non è tuttavia un caso che l'avanguardia musicale di estrazione jazzistica, nel momento in cui venivano meno le peculiarità del ritmo e del suono, si sia in qualche modo awicinata a esperienze provenienti dal mondo musicale accademico.
L'idea dello swing, tuttavia, deve essere propria del musicista, a prescindere dal contesto e dall'eventuale rapporto con la ritmica. Il celebre duo "Birth And Rebirth» fra Braxton e Roach fa sicuramente al caso, perche mostra che, pur sospinto dal flusso ritmico della batteria di Roach, il sax di Braxton non possiede nemmeno una piccolissima parte dello swing che aveva Parker duettando con lo stesso Roach, o che ancora oggi Rollins palesa nelle sue performance solitarie. Braxton non è infatti in possesso di una concezione ritmica adeguata per confrontarsi con la tradizione: non gli mancano solo pronuncia ed emissione connotate dall'opportuno legato-staccato, dal terzinato e dal contrapporsi fra note accentate e note fantasma; gli manca soprattutto il relax che deriva dalla piena consapevolezza della collocazione dei suoni lungo il flusso ritmico. Le sheets of sounds di Coltrane erano sassofonisticamente difficilissime da leggere, ma non veniva mai meno, all'ascolto, il rapporto che quei suoni mantenevano costantemente con lo scorrere del tempo: diversamente dal caso di Braxton, non si perdeva mai di vista lo swing. Oggi, a trent'anni dalla scomparsa di Trane e a cinquanta da Koko, il senso dello swing è sentito e praticato in almeno tre grandi direttrici: quella direttamente riferibile all'esperienza bop; quella di un'avanguardia che non ha mai smesso di confrontarsi con il senso dello scorrere del tempo (per esempio, il trio di Paul Motian); quella, infine, legata in modi differenti alle influenze del rock, del pop e delle musiche da essi derivate. Tutte e tre queste correnti si compenetrano ampiamente, dando I luogo a ulteriori diversificazioni; d'altra parte, accanto a tali strade principali, e pur lontano dalla world music e dalla new age, lo swing va percorrendo vie non trascurabili nel rapporto con musiche, come quelle di matrice africana o sudamericana, nelle quali il ritmo continua a ricoprire un ruolo fondamentale. Storicamente, l'influenza del rock ha costituito per il jazz una delle novità più grandi, parzialmente anche di rottura. Pur giungendo nella fase conclusiva di un work in progress avviato nella prima metà degli anni '60, un brano come il citato Frelon Brun di Miles Davis poneva in modo inequivocabile la questione della «jazzità» di un approccio ritmico come quello instaurato, sin dalle prime misure, da Tony Williams e Ron Carter. Sotto il profilo del ritmo il jazz di Miles abbandonava di colpo sia la pronuncia terzinata sia la predilezione per gli accenti in levare; tuttavia le nuove scelte, benche peculiari del rock, si calavano in un contesto troppo raffinato per essere rock, foss'anche quello dei Blood Sweat and Tears. In «Filles De Kilimanjaro" il jazz (che pur non rinuncia a sincopi e anticipi) sembra smarrirsi, ma in realtà- grazie in particolare a un maestro come Tony Williams -scopre non solo che vi può essere leggerezza anche accentuando il battere, ma che lo swing può sgorgare quanto e più di prima, dal momento che rimane una tensione fra la propulsione in avanti e il relax (o almeno la diversa concezione del tempo) dei solisti. Da allora, superate le Colonne d'Ercole di «Bitches Brew" e arrivato (per limitarci a un branoceleberrimo) sinoa Tutu(nel quale comunque, sotto sotto, viene recuperato il terzinato), Davis ha indicato una via che si è allargata sino a diventare un mare aperto, dove perciò non è difficile incontrare pesci innocui così come squali, bottiglie con la mappa del tesoro e scarpe vecchie. Se lo swing deriva dal rapporto fra tensione propulsiva e relax, fra energia nervosa e leggerezza, fra diversi modi di sentire lo scorrere del tempo, esso scompare sia laddove funky, rap e hip hop ignorano il relax e la leggerezza, sia di contro dove la new age si disinteressa della spinta in avanti. Ma le sfumature sono owiamente innumerevoli, e lo swing trova vari tipi di equilibrio proprio grazie al variare di quel rapporto. Chi accentua troppo l'anticipo costante pone lo swing nella pericolosa situazione di doversi trovare in debito di relax. Questo può accadere tanto a quei neobopper che hanno anche un'anima funky quanto a formazioni pienamente rispettose della tradizione, come il Chick Corea a custico, o ad altre molto più avanzate, come i gruppi di Tim Berne, la cui concezione ritmica è talmente variegata da non potere ne volere limitarsi ad ambiti per lui troppo ristretti. Diverso il caso di Keith Jarrett, che in trio sfoggia uno swing dalle inedite tensioni ritmiche, mentre quando suona da solo la sua anima pop lo spinge spesso a stereotipi (non solo ritmici) che risultano dannosi per l'emozione musicale (4).
Quanto invece alle correnti che ripensano creativamente il tempo musicale e lo swing, nella seconda metà degli anni '80 si è più compiutamente sviluppato un modo di concepire il ritmo che, volendo dare un'organizzazione al free storico senza tuttavia tarparne le ali, ha esteso a tutte le parti costitutive di un brano musicale, e non solo alla linea melodica, l'uso del «tempo rubato» (5). Ora non si tratta più del rubato di Billie Holiday, che si inseriva in una ritmica solidissima, e nemmeno del rubato di Jarrett, che si innesta sì sugli altri rubato di Peacock e DeJohnette, ma lo fa nella mirabile fusione di intenti in cui continua a persistere (più latente che manifesta) l'idea di un tempo unitario. Si tratta di un tempo rubato «a tutto campo» -BilI Frisell ne è maestro -che porta a dar vita a una musica in cui ciascuno degli esecutori è coinvolto in una generica idea del tempo, alla quale tutti lavorano, guidati da un'unità di misura che, pur essendo instabile, può essere seguita da ognuno di loro. Ciò che il free aveva introdotto nell'informale ora viene adattato alla musica strutturata: una struttura che potrebbe essere paragonata a una roulette in moto, nella quale la pallina accelera e decelera a suo piacimento, senza però mai fermarsi. In questo fluctuating tempo, che sa spingere in avanti la musica pur nella corrente di una velocità in continua mutazione, si crea nei casi più riusciti una rete di rapporti fra le diverse idee di tempo degli esecutori; essi interagiscono intorno a una fuggevole unità di misura, la quale può dar vita a uno swing che mai era stato di fattura tanto raffinata. Per mostrare la propria necessità, lo swing si è rigenerato, senza dimenticare le vecchie certezze. È come l'immutabile legge di Hodeir: se l'andatura è troppo veloce il motore rischia di sballare; se è troppo lenta, rischia di fermarsi.

NOTE (1) Il problema della velocità di esecuzione, e quindi delle doti tecniche e virtuosistiche legate all'uso del sassofono (gli altri strumenti presentano peculiarità del tutto diverse), meriterebbe uno spazio a se. La tecnica non può infatti essere scissa dal linguaggio e dallo stile; per questo strumentisti come Don Byas (ma la lista potrebbe continuare a lungo, specie con la generazione emersa negli anni '50) dovrebbero essere riconsiderati con la dovuta attenzione. (2) John Fordham, Jazz, Idea Libri. Introduzione: «Quelle due note di Miles». (3) Per un approfondimento si può consultare il volume La batteria di Andrea Centazzo, Muzzio. (4) Parafrasando Levi-Strauss, che sull'argomento lasciò un saggio memorabile nell'Ouverture de Il crudo e il cotto (II Saggiatore), potremmo dire che nel jazz «l'emozione musicale proviene proprio dal fatto che, in ogni istante, I'esecutore-improvvisatore «toglie o aggiunge più o meno di quanto l'uditore preveda sulla scorta di un progetto che egli crede di indovinare, ma che in realtà è incapace di penetrare autenticamente, a causa del proprio assoggettamento a una doppia periodicità: quella della» propria fisicità, del proprio ritmo cardiaco, del proprio senso del tempo, e quello della propria cultura e della propria apertura musicale. Basta che il musicista «tolga di più, perche noi proviamo una deliziosa impressione di caduta [...]. Quando egli toglie meno, è il contrario: ci costringe a una ginnastica più abile della nostra. Ora siamo mossi, ora costretti a muoverci, e sempre al di là di ciò che, da soli, ci saremmo creduti capaci di compiere. Il piacere estetico», così come l'essenza dello swing, è fatto «di questa moltitudine di sussulti e di pause, attese deluse e ricompensate più del previsto [...]». (5) «11 Tempo rubato conferisce un carattere limitatamente aleatorio all'interpretazione dell'andamento di un brano musicale, sicche l'esecutore è sollecitato ad accentuare soggettivamente il tempo, accelerando o ritardando il passaggio in ambiti ritmici anche limitati, con l'implicita possibilità di alterare anche la struttura del brano stesso. Ne consegue una specie di antinomia, allorquando ci si propone di determinare la natura di quest'interpretazione che, per definizione, dovrebbe determinarsi solo nel momento in cui viene espressa dall'esecutore.. (Dizionario della musica e dei musicisti, Utet. Voi. IV: Il Lessico).

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