Dialetto e animali: di Adriano Simoncini |
Sono ormai trent'anni che raccolgo e trascrivo proverbi, filastrocche, modi
di dire, 'detti' che i parlanti il nostro dialetto usavano quotidianamente.
Un patrimonio linguistico sterminato che esprimeva e testimoniava una precisa
cultura - quella contadina nella montagna bolognese - e che scomparirà
per sempre con l'ultimo montanaro d.o.c.. Trattasi infatti di prodotti esclusivamente
orali: il nostro dialetto conosceva soltanto la parola parlata, e pochissimi
e recenti (e comunque inadeguati) sono i testi scritti. Mi avvalgo dunque
di questa rubrica per consegnarne qualche briciola alla scrittura.
In un mondo che dipendeva immediatamente dalla natura gli animali erano compagnia
quotidiana. La lingua ne partecipava, come documentano innumerevoli metafore
codificate nei modi di dire (scarse per contro oggi le metafore nel linguaggio
comune, che è piatto e omologato: troppi i modelli che si ripetono
passivamente offerti da TV, cinema, giornali, mode...). Continuando il discorso
iniziato nel numero precedente, trascriverò altri esempi.
Cominciamo coi cani. In una pagina inedita di Ugone eroe scrivevo ironicamente
che nella montagna d'un tempo erano in sostanza di tre razze: cani da signori
(o da polenta), cani da caccia, cani da pagliaio. Ma che ce n'era - e non
si comprendeva il perché in un mondo affamato - comunque una moltitudine.
E dunque:
dai a che chén
dagli a quel cane.
Esistono i colpevoli designati dalla sorte: tutti i guai della comunità gli sono imputati, deboli o diversi per scelta o per destino. Come a quel cane di nessuno, sorpreso una volta con qualcosa di rubacchiato in bocca: alla sassata del primo accusatore fan seguito le altre di gente che nemmeno sa perché tira il sasso. Tanto la colpa, quale che sia, è sua.
Per gnènt an scosa la còvva gnénc e chen Ognuno cioè va pagato per il lavoro che compie. Parrebbe ovvio. In
realtà il secolare rapporto di dipendenza padrone contadino, che prevedeva
dal lontano medioevo anche prestazioni d'opera non riferibili alla coltivazione
del podere, spesso pretendeva servigi gratuiti: per dovuto rispetto a chi
stava di sopra nella scala sociale e per timore, nel contadino, di perdere
la conduzione del fondo. Donde la ironica protesta. Cui fa riscontro il seguente,
bellissimo (come del resto sono belli per immediatezza e perspicuo realismo
pressoché tutti i detti montanari): |
In un mondo dove la società non si faceva carico dei deboli, i minorati
dovevano arrangiarsi per sopravvivere e s'adattavano, i più, a mendicare.
I non vedenti (orbo vale cieco) magari cantavano o suonacchiavano un loro
organetto a richiamare l'attenzione e impietosire. Ma non per niente.
Duv i pér an i va gnenc i chen a caghér
dove gli pare non vanno neanche i cani a cagare.
(e non ci si scandalizzi per la volgarità dell'espressione: il montanaro
parlava senza perifrasi). Cruda risposta a un'improvvida affermazione di qualcuno
che avrà esclamato, a domanda, a vog duv um pér / vado dove
mi pare. La volontà di ciascuno, cioè, in una comunità
povera ma solidale - fosse la famiglia, il borgo, la parrocchia - è
vincolata al rispetto dei bisogni degli altri. Tanto che nemmeno i cani possono
andare a svuotarsi dove capita.
La mort dal pegher l'è la chempa di chen
la morte delle pecore è il campare dei cani
.
Quel che è male per il pastore, cioè, può risultare un
bene per il cane, che vede ridursi la propria fatica di guardiano del gregge
col diminuire del numero delle pecore da sorvegliare. Più generalmente
- i proverbi infatti van sempre oltre il significato letterale e sono metafore
dell'esperienza umana - ogni accadimento ha vari risvolti che possono leggersi
vuoi in negativo vuoi in positivo, a seconda degli interessi, delle situazioni,
dei punti di vista...
An sa gnenc quent marón l'à onna pegra
non sa neanche quanti coglioni ha una pecora.
Che è il massimo dell'ignoranza in un mondo dove le pecore erano, poche
o tante, in ogni podere: per la lana del vestire quotidiano e il latte per
un saporoso formaggio.
Nella nostra montagna (che non va oltre i mille metri) non v'erano grosse
greggi, come invece nell'alto Appennino dove l'estate pascolavano sul Cimone
e sulle cime vicine, mentre d'inverno transumanavano al piano in prossimità
dell'Adriatico. Da noi quasi ogni stalla aveva dalle cinque alle quindici
pecore, non di più, che brucavano nelle macchie e sui prati dei crinali.
Dal tardo autunno, fatto l'ultimo raccolto nei campi, il pascolo era libero,
come da antica consuetudine medioevale, ricordo di tempi in cui esistevano
pascoli e boschi indivisi (la cmunaia) a disposizione di tutta la comunità.
Con la neve, nelle stalle le pecore si nutrivano di frasche soprattutto di
quercia, tagliate e raccolte a fascine quando ancora avevano la foglia verde.
Annotazione che mi suggerisce il detto seguente:
An sen méia guarnà a paia non siamo mica governati (nutriti)
a paglia,
come le bestie della stalla. D'inverno, quando il foraggio scarseggiava e
fuori non c'era pascolo, le greppie venivano spesso riempite con paglia, che
non ha il potere nutritivo del fieno - del resto le bestie non dovevano lavorare
e se anche non erano in forza, pazienza. Al tempo dell'aratura al bestiame
si dava invece, in aggiunta al fieno, fava e altre leguminose che gli muovessero
e murbín, cioè nervo e potenza. Affermare di non essere governati
paglia era un vantare la propria forza fisica
.
Fin che torna la lena a e bech
fin che torna la lana al montone,
riferito a gente apparentemente generosa, ma che in realtà fa il suo
interesse. Come colui che mantiene il montone fino a che venga il tempo di
tosarlo della lana. E si faceva a maggio e a settembre, ma con l'avvertenza
suggerita dal proverbio:
senta Crós ed maz an t'afretér santa Croce di maggio (il 3)
non t'affrettare
senta Crós ed sitèmber an trapasér santa Croce di settembre
(il 14) non trapassare.
In maggio, cioè, si poteva attendere a eseguire la tosatura perché
s'andava verso il caldo e intanto la lana continuava a crescere. Ma ritardandola
troppo, in settembre, si esponeva la pecora nuda (e il montone) al freddo
della cattiva stagione che s'avvicinava, coi rischi conseguenti. Perché
l'invéren an là mai magnà e lòv l'inverno
non l'ha mai mangia to il lupo.
Prima o poi arriva. E
al pégher als cònten a maz le pecore si contano a maggio,
alla fine della cattiva stagione. Fino ad allora potevano ancora ammalarsi
e morire: solo a maggio il gregge era da considerare stabile. Ma non solo
le pecore. C'è un proverbio bolognese che recita:
znér e sgombra i lèt gennaio sgombra i letti.
Crudamente, li svuota di anziani e malati, complice il freddo e le malattie
conseguenti (un tempo non erano previsti ricoveri ospedalieri e vecchi e infermi
giacevano lungamente e miserevolmente nei letti di casa, custoditi come si
poteva).
L'inverno era stagione temuta (non è casuale nel detto precedente l'associazione
col lupo, fino a un secolo fa animale feroce non solo nelle favole): campi
e orti non erano più d'aiuto per sostentare famiglia e bestiame, e
neve e gelo non avrebbero concesso tregue. Se ne spiavano dunque i segni del
sopraggiungere:
quent al pàser al ven a brenc l'invéren l'è avsìn
quando i passeri vanno a branchi l'inverno è vicino.
Di solito i passeri becchettano avanti casa ognuno per conto suo o a gruppetti.
Ma il tardo autunno e la difficoltà di trovare cibo fan sì che
si radunino a decine e calino insieme sui campi spogli: è il segno
dell'avvicinarsi della cattiva stagione. Così gli uomini, che s'affrettano
ai castagneti per spigolare le ultime castagne e a boschi e macchie per raccattare
i bacchetti rimasti prima che la neve copra tutto. Chiudo con un detto che
ha coi precedenti il sottile legame d'essere dettato dal naturale ambiente
montano. Eccolo, bellissimo:
Dèv temp e e muscìn e magna la mela
datevi tempo e il moscerino mangia la mela.
Straordinaria e poetica affermazione che riassume il pensare montanaro. Pazienza
e ostinazione la vincono su ogni difficoltà. Ma anche, sconsolata constatazione,
niente per quanto grande e potente resiste al tempo, se è vero che
un minuscolo moscerino lentamente consuma una mela.