Cenni storici 

Cenni storici sulla mia frazione

Cenni storici sul mio comune

 

La mia frazione Valleviola

 

Come detto in precedenza la mia Frazione Valleviola fa parte del comune di Monte San Biagio e si trova tra la torre di Portella e la Torre dell'Epitaffio vecchi confini tra lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli. In questo lembo di terreno costituito per la maggior parte da montagne una volta vi erano insediati i briganti perche' questa era una zona franca e soprattutto perchè difficile da controllare.

Infatti vi sono molti racconti  che narrano di vicende accadute in questi posti tra briganti di un certo calibro e le forze Armate.Ecco un breve sunto di storie accadute nella mia frazione.Molte bande erano rifugiate in questo posto la piu' famosa quella di Gasbarrone.

 

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 ELENCO DI NOMI DI BRIGANTI

FOTO DI CHIAVONE

FOTO DI COSTUMI DELL'EPOCA

FOTO DI SEQUESTRO DI PERSONA

 

La banda Gasbaroni da Valleviola scese sino a Vallemarina e si ap­postò nei pressi del Fosso del Pero a pochi metri dall’Appia. Da quel posto si scorgevano le carrozze quando uscivano dall’Epitaffio, confine dello Stato Pontificio. La loro attesa non fu delusa. Cominciarono a fregarsi le mani quando videro una carrozza tirata da quattro cavalli ballare sulla strada verso il ponte Fosso del Pero.

I briganti si accostarono di più ai bordi della strada e, quando la carrozza gli arrivò a portata di mano, saltarono dai nascondigli ed arre­starono i cavalli.

La carrozza era immobile al centro dell’Appia polverosa. Ogni tan­to un cavallo o l’altro batteva lo zoccolo a terra.

Gasbaroni cominciò ad interrogare i due ufficiali in serpa mentre alcuni briganti alleggerivano la carrozza dei beni ed altri facevano la guardia.

Dalle interrogazioni Gasbaroni capì che l’ufficiale seduto nell’in­terno della carrozza era un colonnello. Lo fece scendere e sotto scorta lo inviò sulla cima Pazzarelli.

Gasbaroni mandò i due ufficiali a Terracina affinché chiedessero per il colonnello un riscatto di ventimila scudi (2).

Il generale di Napoli ricevette la richiesta e mandò a dire a Gasbaro­ni che invece di ventimila scudi avrebbe mandato ventimila soldati.

Il generale fece partire da Napoli, Capua, Venafro, Castel di San-. gro e Gaeta tutti i soldati a disposizione. Lo Stato Pontificio inviò uomi— ni armati che partirono da Velletri, Cisterna, Terracina ed altri paesi.

I briganti furono accerchiati sul monte Capiccio. Gasbaroni vedeva gli austriaci ed impose al colonnello di non segnalare la sua presenza e gli promise la liberazione.

Gasbaroni notò che gli uomini dello Stato Pontificio sul cappello avevano un fazzoletto, immaginò che fosse un segnale di riconoscimen­to ed ordinò ai suoi uomini di legare al cappello il fazzoletto ed appo­starsi in fila. I soldati austriaci passarono davanti ai briganti, notarono il fazzoletto sul cappello, salutarono e si allontanarono.

Gasbaroni tirò un sospiro di sollievo ed i briganti esultarono. Gasbaroni tenne fede alla parola data al colonnello Francesco Gutnohfen che, scortato da sette briganti, fu liberato, dietro le proteste di alcuni briganti che lo volevano morto, nei pressi di Sonnino.

Ferdinando IV nel 1816 unificò il Regno di Napoli e quello di Sici­lia, sino allora giuridicamente divisi, e, intitolandosi Ferdinando I, abrogò la costituzione del 1812.

Nel 1820 i carbonari napoletani si ribellarono e, Ferdinando I, re delle due Sicilie, concesse la costituzione, però inviò in Austria il secon­dogenito Leopoldo a chiedere a Metternich un’armata che domasse il popolo napoletano.

Il generale Michele Carascosa seppe dell’arrivo dell’armata austria­ca e pensò di gettare lo scompiglio nelle file dei soldati non appena giun­gessero nelle vicinanze del Passo di Portella, località a due chilometri dal centro abitato di Monte San Biagio.

Per questo convocò Massaroni, capo dei briganti dello Stato Ponti­ficio e Màgari di quello del Regno di Napoli. L’incontro avvenne in un giardino di Fondi alla presenza del sindaco e di un sacerdote.

Li generale Carascosa concesse ai due la facoltà di indossare l’uni­forme militare e promise loro una paga di trenta soldi il giorno a patto che, con i loro uomini, rimanessero nel territorio dì Monte San Biagio e, al momento opportuno, molestassero con attacchi a sorpresa l’esercito austriaco.

I due accettarono. Massaroni si autonominò comandante supremo della Piazza di Monte San Biagio e vi stabili il suo Quartiere Generale.

Quasi tutte le sere gli uomini della guarnigione di stanza nel paese si davano al vino, alle danze e alle scorpacciate. Massaroni accettava cene e pranzi offerti dai ricchi del paese.

In breve Monte San Biagio divenne la Mecca di tutte le donne dei paesi limitrofi le quali accorrevano al miraggio del denaro.

Antonio Mattei, ogni due giorni da Fondi, si recava a Monte San Biagio con il sacco pieno di denari che consegnava a Massaroni il quale pensava alla distribuzione.

Quando gli austriaci giunsero al Passo di Portella, i banditi presero quasi tutti la via della montagna e di lassù ammirarono l’esercito austria­co che sfilava sulla via Appia con la bandiera in testa.

Gli austriaci salirono al paese, dove ricevettero un’ottima acco­glienza dai cittadini i quali offrirono loro fiaschi di vino che i soldati, uniti ai banditi che non avevano lasciato il paese, bevvero a lunghi sorsi.

La sera gli austriaci s’avviarono verso Fondi ed i banditi ritornarono in paese. Vi stettero alcuni giorni, poi, non ricevendo più soldi, le due bande si divisero e lasciarono Monte San Biagio, tra sospiri di sollievo della popolazione.

Sul vasto territorio montuoso di Monte San Biagio si rifugiavano piccole o grandi bande per la vicinanza con i comuni di Sonnino, Amaseno e Vallecorsa.

I monti scoscesi, con centinaia di recessi e grotte fra distese di cerro, carpine e sughera, con sottobosco di mortella, lentischio, oliva­stro e ginestra del carbonaro, davano l’opportunità ai briganti di celarsi alle perlustrazioni della Guardia Nazionale e di altri uomini di vigilanza.

Nei nascondigli trascorrevano notti di sonno. In alcune grotte vi ac­cendevano anche il fuoco per scaldarsi ed arrostire carne. Il fumo s’in-filtrava nelle fessure o canali della grotta, ed usciva, quando era molto, dicevano, ad un chilometro dal bivacco.

Verso la fine del mese di luglio la banda composta di dieci indivi­dui, quasi tutti ex soldati borbonici con alcuni dei paesi limitrofi, dopo aver razziato le case sparse per la campagna ed estorto monete ed ori a vari cittadini di Monte San Biagio, si diresse verso il territorio di Valle­corsa.

Alla Forcella Buana s’mbatté con quattro uomini armati. Tra i dieci ed i quattro non ci fu scambio di saluto, anzi, dopo un lungo ed acceso diverbio corsero ai pugnali.

I quattro, vistosi in perdenza si diedero alla fuga serpeggiando fra gli stretti tracciati nel sottobosco. Rincorsi, uno fu catturato e, legato con le mani dietro la schiena, condotto in uno spiazzo in mezzo al bosco e gettato sull’erba al sole. Per paura che scappasse gli legarono anche i piedi.

I dieci che avevano rubato un vitello, lo scannarono, lo appesero per le zampe posteriori ad un ramo di rovere e lo scuoiarono. Lo sven­trarono e gettarono poco distante le interiori che ben presto chiamarono un nuvolo di mosche, vespe, calabroni e formiche.

Tre della piccola banda si allontanarono di alcuni passi, parlottaro­no e dopo una risata tornarono dai loro compagni.

Presero il prigioniero, lo slegarono, lo spogliarono, lo legarono di nuovo con le mani dietro la schiena ed i piedi appaiati, lo sollevarono di peso e lo coricarono supino sulla pelle umida e sanguinolente.

Gli piegarono sul corpo la pelle formando un rudimentale sacco che cucirono con un filo di ferro ‘mentre l’uomo strillava, si dimenava nell’appiccicosa pelle dall’odore bovino, ma i suoi sforzi e grida veniva­no soffocati dalle risate dei dieci.

Cucito nella pelle il prigioniero, gli legarono la fune ai piedi e lo appesero al ramo di un vecchio rovere e lo lasciarono penzolare esposto ad uno spiraglio di sole che gli batteva sul volto.

Uno spinse l’impiccato che dondolava con la fune che fischiava sul ramo mentre altri ridevano e saltellavano ad ogni passaggio.

Le vespe, i calabroni, attirati dall’odore della pelle fresca accorsero numerosi ad infilarsi nelle aperture della pelle e punzecchiavano il pri­gioniero perché si vedeva dimenarsi nella pelle e si udiva strillare dal dolore.

I briganti intanto mangiavano, bevevano e ridevano.

I lamenti dell’impiccato si affievolirono e dalle smozzicate parole si capi che chiedeva perdono ai briganti se aveva fatto loro del male.

Si diceva che l’impiccato avesse mormorato: «Noi non ci siamo mai conosciuti, perché mi avete trattato in questo modo?»

«~ la legge del brigantaggio, dove passiamo noi non ci deve essere nessuno», rispose uno dei dieci.

All’impiccato dalla bocca semiaperta non usciva più un lamento. Ogni tanto si notava un lieve tremolio nella pelle, erano i suoi ultimi sforzi che divennero radi e più non si mosse. I malfattori, sazi, brilli si stesero sull’erba, qualcuno russava, altri guardavano il cielo.

Nel silenzio del monte si udiva il ronzio delle vespe, dei calabroni intorno al sacco di pelle e si vedeva una lunga fila di formiche che saliva e scendeva dal tronco del rovere.

Il sole era appena tramontato ed i briganti, riempiti il sacco di pezzi di carne, lasciarono l’impiccato e si avviarono all’appuntamento con le loro famiglie alle quali avrebbero consegnato parte della carne.

Dopo quattro giorni dal misfatto, alcune Guardie Nazionali, attra­versando Forcella Buana, furono attirate dal fetore del cadavere e, se­guendo la traccia, giunsero al rovere e si arrestarono inorriditi davanti al macabro spettacolo.

Dalla pelle rinsecchita, putrescente gocciava pus e nella chiazza sull’erba a forma d’escremento di vacca, brulicavano migliaia e migliaia di vermi tra il ronzio delle vespe e calabroni.

Le Guardie corsero al paese e ritornarono al rovere con il capitano della Guardia Nazionale, il medico ed altri.

Fu tagliata la fune e l’impiccato cadde a terra schizzando pus da tutte le parti. Il medico girò varie volte intorno al corpo in disfacimento mettendo spesso il fazzoletto davanti alla bocca. Due Guardie Nazionali vomitarono mentre altre odoravano ramoscelli di mentastro e salvia.

Il capitano la Guardia Nazionale, dopo aver redatto il verbale in collaborazione con il medico, ordinò di bruciare il cadavere.

Sul corpo furono gettate bracciate di rami secchi e dato alle fiam­me. Un fumo saturo di carne bruciata si levò in alto ed un alito di vento lo sperse oltre la cima degli alberi.

La Guardia Nazionale attese che la legna bruciasse, poi per evitare incendi, gettò tanta terra sulla brace ed al tramonto scese al paese.

Ho cercato più volte il verbale, ma tra le vecchie carte non son riu­scito a reperirlo, forse capitò in quei fascicoli bruciati nella piazza dalla banda Chiavone.

Un altro episodio fra i tanti che il prozio ci recitava quasi, per te­nerci vivi intorno al braciere, mi balza davanti agli occhi.

C’era una volta — cosi cominciò il prozio — un certo Pasquale il quale, scarcerato dopo venti anni dalla casa di pena di Gaeta, con i geni­tori, da Pettorano, si stabili a Monte San Biagio.

Occupò, con loro, una casa abbandonata, composta di due camere, una cucina ed una stalla, nelle vicinanze del castello.

La madre di Pasquale quasi tutte le mattine si recava ad ascoltare la prima messa e poi andava a giornata sui campi. Il padre tutte le domeni­che ascoltava la messa delle undici e, nei giorni feriali, quando tornava dalla campagna ed aveva tempo disponibile, andava ad ascoltare la novena o a recitare il rosario in chiesa. Durante la Quaresima non si perdeva la rievocazione della Via Crucis e più di una volta portò la Croce da una stazione all’altra.

Pasquale dopo un anno di buona condotta si unì a tre malviventi ricercati dalle forze dell’ordine ed unito a questi si diede a rapine e ricat­ti. I quattro avevano terrorizzato un paese e reso pericoloso il transito sull’Appia che da Portella conduce all’Epitaffio.

Le forze dell’ordine, pur promettendo ricompense in denaro a chi svelasse il nascondiglio, e il più delle volte si prodigavano in apposta-menti e perlustrazioni, non riuscirono a scoprire il nascondiglio dei quattro.

Questi vivevano nella zona di Vallemarina e continuamente assali­vano carrozze che transitavano sull’Appia. Solitamente si nascondeva­no e vi dormivano nella cisterna romana che si trova, ora dell’apertura se n’è persa la traccia, nelle vicinanze della Valle in pisi ad appena cento metri da Portella, sul terreno sovrastante l’Appia.

Vi si entrava da un’apertura quadrata, carponi, circondata da albe­ri e mascherata dalla natura con folti cespugli di monella e ginestra del carbonaro.

I pochi metri che arrivavano all’apertura, che si poteva chiudere con una pietra, erano malagevoli ed impervi a causa dell’erosione della roccia.

L’interno possedeva le caratteristiche di una stanza ben intonacata. Mi disse mio padre, lui c’era entrato da giovane, che misurava quattro metri per tre, ed era in comunicazione con un’altra stanza dove si nota­vano due letti in muratura.

Un giorno uno dei quattro, stanco della vita errabonda, piena di pericoli e di continue corse per i monti si recò da un sacerdote al quale chiese di costituirsi e svelare il nascondiglio previo salva la vita.

Il sacerdote informò il sindaco il quale promise protezione al penti­to e convocò il comandante la Guardia Nazionale.

Il comandante, ricevuto l’ordine, con un gruppo di uomini armati, e guidato dal pentito, si avviò al nascondiglio.

Le Guardie si appostarono nei dintorni della cisterna, il pentito si avvicinò all’imboccatura di essa, gridò la parola d’ordine e Pasquale usci. Appena fu sull’Appia, il pentito gridò tre volte e corse verso Por­tella. Le Guardie uscirono dal nascondiglio, Pasquale si vide accerchia­to, restò inebetito, poi si riprese, tentò la fuga ma quasi contempora­neamente gli spararono addosso ed egli cadde a terra, sì dibatté in uno spasimo di dolore, eppoi festò esanime. Rivoli di sangue arrossarono la polvere.

Gli uomini della Guardia Nazionale circondarono il morto, lo guardarono e poi il comandante spedì una guardia a Monte San Biagio per comunicare al sindaco che Pasquale era stato ucciso.

Gli uomini della Guardia Nazionale approntarono una barella con robusti bastoni, vi sdraiarono sopra Pasquale e cantando si avviarono verso Monte San Biagio passando per Cagnasino.

Nel paese, sparsa la notizia dell’ uccisione di Pasquale, molti si recarono alla Porta San Biagio ma quando videro il sindaco andare in­contro al corteo che saliva, lo seguirono.

L’incontro avvenne nelle vicinanze della Madonna delle Spiagge e mentre i quattro improvvisati barellieri andavano avanti con il morto, il sindaco, le Guardie Nazionali ed un folto pubblico seguivano il morto non in segno di lutto ma di festa, festa di liberazione.

Alla Porta San Biagio c’era quasi tutto il paese ad attendere Pa­squale.

Il sindaco diede ordine di portare il morto in piazza e di esporlo sulla pietra del pesce e fece anche gettare il bando affinché tutti andasse­ro a vederlo.

Il corpo restò quattro giorni esposto al ludibrio del pubblico dopo il quale fu gettato alla Cantarata.

Il padre e la madre recuperarono il cadavere in disfacimento e la madre gli lavò il volto e poi lo seppellirono sotto una quercia.

A Monte San Biagio tuttora si parla di Chiavone (Luigi Alonzi detto Memmo) di origine sorano, ex soldato borbonico condannato varie volte per indisciplina. Francesco 11 lo assoldò a Chiavone costituì una banda di circa 400 uomini.

Il 3 maggio 1861 assalì Monte San Biagio ed uno della banda uccise il sindaco Biagio Bove perché non volle loro consegnare le armi della Guardia Nazionale.

Il mio prozio rievocava con parole tremule ed occhi rossi di commozione le lunghe ore di terrore vissute tra i 400 individui che scor­razzavano per le strade del paese entrando nelle case dalle porte e fine­stre spalancate, rubando quanto c’era di meglio.

La banda Chiavone si recò in Municipio dove prese il ritratto di Vittorio Emanuele 11 e quello di Garibaldi, con molti documenti che ri­guardavano processi contro individui della banda stessa e in piazza ne fecero un grande falò.

Molti vi giravano intorno gridando: Viva Francesco Il!

 Chiavone dichiarò decaduto il Governo della Provincia di Terra di Lavoro ed istitui quello Borbonico e nella sala del sindaco mise il ritrat­to di Francesco 11 e di Sofia, dopo averli portati in processione per il paese.

Monte San Biagio fu liberato dopo due giorni dal 10 Reggimento Granatieri di Sardegna. Tra i briganti in fuga ed i granatieri ci fu una lunga sparatoria nella campagna intorno al paese, nella quale trovò la morte il sergente Andrea Ansermin di 26 anni, nato a Nizza.

La banda Chiavone trovò momentaneo rifugio prima a Lenola, poi a Pastena e Pico dove commise ladrerie ed incendi.

La banda commise molte crudeltà che non sono da imputarle a Chiavone. Nella sua carriera di capo banda ordinò una sola esecuzione:

la fucilazione dei muli per i quali il proprietario non volle pagare il ri­scatto.

L’ambizione di Chiavone era quella di paragonarsi a Garibaldi. Si atteggiava a dittatore. Scriveva lettere e proclami pieni di errori ortogra­fici e li firmava: I/tenente generale in capo, Chiavone.

Alle lettere apponeva il sigillo con lo stemma di Francesco 11.

La sua banda, perseguitata notte e giorno, andava disgregandosi ed egli perse il prestigio e fu privato del comando. Da Roma, a sostituirlo, fu inviato Tristany (3), perché la banda era ancora forte di 400 uomini.

Si racconta che i due messaggeri che recarono l’ordine di lasciare il comando li fece fucilare.

Da quel giorno Chiavone spari. Un brigante della sua banda, cattu­rato nelle vicinanze di Sora, raccontò di aver visto il cadavere di Chiavo­ne in una fossa coperto con la pelle di capra e dichiarò che Tristany lo aveva fatto fucilare presso Trisulti nel 1862.

Monte San Biagio, situato ai confini con lo Stato Pontificio, Sonni­no, Amaseno, Vallecorsa, ed essendo ultimo baluardo del Regno delle due Sicilie, con il suo vasto territorio montuoso e boschivo, pieno di grotte, anfratti, fu ricettacolo di banditi i quali potevano nascondersi ed eludere sia la perlustrazione della Guardia Nazionale che quella Pontifi­cia.

Il paese, sino alla totale liberazione dal brigantaggio, avvenuta nel 1870, è stato sempre sotto l’incubo delle estorsioni e dei sequestri, e per l’avvicendarsi delle bande non ha avuto mai una vita serena.

 

         2)  Lo SCUDO a Roma valeva lire 5,44, secondo le Tavole di riduzione e di ragguaglio dei pesi e delle misure dopo il 1840. 

3) Tristany, spagnuolo, antico capitano di guerriglia in Ispagna nella guerra di successione tra don Carlos e la regina Cristina. Si dice fece fucilare il 18 giugno 1862 Chiavone, presso Trisulti.

 

Tratto da “il brigantaggio” di Dario Lo Sordo

  

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