ANTICO COMUNE DI VISSO - USI CIVICI, STORIA E NATURA GIURIDICA

  dalle ricerche e dalle pubblicazioni del Dr Felice Venanzoni (1902-1967)


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GLI USI CIVICI NELL'ECONOMIA MONTANA        

            Il Consultore Dott. Felice Venanzoni, su invito del Presidente di Sezione, svolge la seguente relazione sull'argomento, il cui testo è stato già trasmesso,  in copia,  ai Consultori ed Esperti della Sezione. 

            Mi sono permesso di richiamare l’attenzione di questa Sezione della Camera di Commercio sul problema degli usi civici, perché ritengo che la soluzione adeguata di tale problema possa rappresentare uno dei tanti provvedimenti da prendere a favore dell'economia montana, duramente minacciata dall'incomprensione degli uomini e dallo sviluppo della riforma fondiaria al piano.  

            Che cosa sono questi usi civici, dei quali in questo momento si sente parlare con una certa frequenza, anche in relazione a perturbazioni di carattere sociale determinatesi nella nostra provincia? 

            Sono diritti che vengono esercitati dalle popolazioni sulle terre di proprietà comunale ed anche privata, con la conseguenza di limitarne la libera disponibilità e le forme d’utilizzazione. Sulla natura di tali diritti la dottrina ha discusso a lungo, come a lungo è stato discusso sulla loro origine. C'è chi vede in essi diritti naturali delle popolazioni; altri li considera come rimasugli di privilegi feudali; altri ancora come servitù di carattere speciale afferenti le terre pubbliche e private; altri, infine, li considera come residui di antichi diritti di condominio delle popolazioni con i proprietari di terre. La dottrina più recente è orientata verso la forma di condominio e come tale li considera la legge in vigore sugli usi civici.

            La loro origine si perde nella notte dei tempi. Soltanto dal modo come gli usi vengono esercitati si può rintracciare in essi un pallido ricordo della costituzione della proprietà quale si ebbe nell'epoca romana, nel periodo feudale e nel periodo dei liberi comuni. Il loro progredire è in relazione allo stato della tecnica agricola, nel senso che dove il lavoro avanza sulle terre e queste vengono coltivate, bonificate o chiuse, l'uso civico indietreggia e si limita mentre invece diventa rigoglioso quando, per cause politiche, tecniche o sociali, la terra viene abbandonata e, tornando a prevalere forme di attività umana primitive, l'uso civico si afferma come condizione necessaria per lo sviluppo delle attività in questione. Non conosco documenti che dimostrino il sorgere degli usi civici; ci sono invece documenti che li regolano e durante il periodo in cui nel Re o nell'Imperatore o nel Papa si riconobbe il Capo supremo dal quale promanavano tutti i diritti di dominio, noi troviamo documenti con i quali si riconosce l'esistenza di diritti a favore dei comuni e delle popolazioni sotto forma di concessione o riconoscimento sovrano.

            Dicevamo che gli usi civici gravano sulle terre pubbliche e sulle terre private. Ciò è in relazione alla formazione storica della proprietà ed alla sua suddivi8ione in proprietà pubblica e privata, o meglio nelle diverse forme di proprietà pubblica, alla quale, a seguito di determinati avvenimenti, si sostituì in parte la proprietà privata.

             Non mi soffermo a rammentarVi le diverse specie di terre pubbliche e private dell'epoca romana; né la ripartizione della terra secondo la costituzione economica germanica che, immediatamente dopo le invasioni barbariche, in alcuni luoghi d'Italia, si sovrappose a quella romana. Insisterò soltanto sulla divisione delle terre pubbliche nel periodo dei comuni, in terre sulle quali si affermava sovrano il diritto delle popolazioni direttamente, nel senso che il cittadino poteva usufruirne in proprio; e terre dalle quali il cittadino poteva indirettamente usufruire degli utili che il comune ritraeva, in quanto tali proventi venivano dal Comune stesso inglobati per il pagamento di spese generali o per opere pubbliche. Quindi due specie di terre pubbliche soggette agli usi: quelle amministrate direttamente dal Comune che ne dispone le forme di godimento anche contro un corrispettivo, anche a vantaggio d’estranei ed alle quali il cittadino partecipa indirettamente ai proventi; e quelle sulle quali il Comune esercita una sovraintendenza e regolamentazione dell'uso diretto dei cittadini, i quali partecipano direttamente ai proventi ritraibili. Negli Stati della Chiesa, queste terre, ai primi del 1800, vennero incamerate dalla Camera Apostolica per il pagamento dei debiti contratti dai Comuni dello Stato Pontificio e vennero destinate alla vendita, con riserva però dei diritti che su di esse erano sempre stati goduti dalle popolazioni. Anzi in certi casi, siccome la rendita che, attraverso il diritto di fida, i comuni percepivano era considerata come un bene di natura fondiaria, si ebbero esempi di vendita a privati di tale diritto mentre le terre rimanevano di proprietà delle popolazioni.

Accadde così che i terreni migliori vennero acquistati da privati, i quali però dovettero sottostare ai diritti di uso delle popolazioni, ed ecco perché, su alcune vaste zone di proprietà privata, sia che esse interessino pascoli, o boschi, o seminativi, sussistono e si esercitano ancora i diritti delle popolazioni, sia sotto forma diretta che sotto forma di pagamento di tassa fida.

            Le terre che non riuscirono a collocarsi, dopo qualche anno vennero ricedute sotto forma di enfiteusi perpetua ai comuni ai quali erano state incamerate, salvi sempre, naturalmente, i diritti delle popolazioni, che tornarono ad essere esercitati come prima dell'incameramento.

            Questo fenomeno avvenne verso il 1830 e da quel momento cominciò la fase discendente degli usi civici, ai quali scrittori di cose economiche ed agricole fecero l'addebito di essere elementi ritardatari del progresso agricolo, e limitazioni ingiustificabili della proprietà.

            La dominazione napoleonica aveva già fatto un primo passo verso l'abolizione degli usi civici, anzi, considerandoli come residui di prepotenze feudali, li aveva d'un tratto ufficialmente aboliti: ma ufficiosamente aveva permesso non solo che essi continuassero ad esercitarsi, ma che si continuassero a percepire anche i diritti di pascolo ad essi connessi, allo scopo di non scardinare l'economia dei comuni montani e di dar modo alle popolazioni di vivere con le industrie tradizionali, quali l' armentaria e l’allevamento del bestiame.Già verso la seconda metà del 1700, nella Toscana e nella Lombardia gli usi civici venivano affrancati (nelle province dell'ex Stato Pontificio tale affranco non comincia che con il 1849), abolendoli mediante procedura speciale e ripartizione fra le popolazioni utenti delle terre così liberate. L'applicazione di tali leggi fu un vero fallimento, perché dopo pochi anni gli utenti, impossibilitati a disporre dei mezzi necessari per le coltivazioni e del bestiame relativo, rivendettero gli appezzamenti avuti in proprietà, per modo che non ebbero più né diritti né terra. In alcuni comuni della nostra montagna gli affranchi non avvennero e, se avvennero, furono limitati soltanto ai diritti delle popolazioni, e quindi rimase in piedi il diritto di pascolo estivo del Comune, o furono affrancati da questo diritto e rimase in piedi il diritto di pascolo a favore delle popolazioni. Applicazione quindi frammentaria della legge che non ebbe risultati praticamente apprezzabili almeno nella nostra zona montana. ..

L'ulteriore storia degli usi civici nelle nostre zone si identifica con le varie leggi abolitive e pertanto ne parleremo più tardi, perché ci sembra necessario indicare quali sono i diritti di uso civico che ancora sopravvivono nelle nostre zone.Principale fra tutti è il diritto di pascolo, o meglio i diritti di pascolo, perché in quasi tutta la zona montana della nostra provincia ci troviamo di fronte a due distinti periodi di pascolo. Il primo diritto comprende il periodo che va dai primi di maggio al 30 settembre nelle zone più basse dei nostri Appennini e dal 1° giugno al 30 8ettembre per le zone più alte, e si compendia nella proprietà delle erbe che vegetano su tutti i terreni a tale diritto soggetti, sia riguardino proprietà comunali o di associazioni agrarie, sia che riguardino proprietà private non recinte. Data la natura dei luoghi e l'altitudine nonché la possibilità di alimentazione delle greggi che dalla maremma si recano nelle nostre zone per la monticazione estiva, tale diritto è il più redditizio e quindi il più appetibile per l'utile finanziario che ne può ritrarre il proprietario. C'è poi un altro diritto di pascolo per il periodo che va dal 1° ottobre al 30 aprile o al 31 maggio, e che si esercita quando le condizioni climatiche e, diciamolo pure, la vigilanza delle guardie forestali lo permettono in relazione all'altitudine dei luoghi, e di tale diritto può usufruire soltanto il bestiame che durante il periodo suddetto rimane nel territorio del Comune, cioè il bestiame stanziale, mentre ne è escluso assolutamente il bestiame nomade, cioè quel bestiame che ai primi di ottobre o poco più tardi deve allontanarsi dai pascoli del Comune per andare anche in comuni limitrofi, e che viene perciò considerato alla stregua del bestiame che sverna nei pascoli dell'Agro Romano e del Viterbese o in Toscana, cioè del bestiame transumante.

Il diritto di pascolo estivo è normalmente in possesso dell'Ente Comune o della Comunanza Agraria alla quale, com'è noto, le nostre leggi riconoscono una personalità giuridica distinta da quella dei componenti. Non mancano casi in cui tale diritto è in possesso di privati, i quali lo acquistarono all'epoca dell'incameramento dalla Camera Apostolica, e quindi, affrancata l'enfiteusi relativa, lo resero trasmissibile come un qualsiasi diritto di proprietà: ma è appunto nella natura dell'atto o meglio del titolo che giustifica il possesso di tale diritto che questo assume la qualità di diritto patrimoniale, e quindi non regolabile secondo la legge dell'uso civico, o di diritto d’uso civico, e quindi soggetto a tale legge.

Il diritto di pascolo estivo va anche sotto il nome di “fida” o “erbatico” e quindi, per pronunciarsi sulla natura di tale diritto, occorre. come abbiamo detto, esaminare il titolo con il quale esso è pervenuto all'ente o al privato che oggi lo posseggono e lo sfruttano a proprio vantaggio.

            Ora, se il territorio già in possesso del feudatario (diciamo feudatario perché nel Medio Evo tali diritti erano tutti accentrati nel feudatario anche attraverso un riconoscimento sovrano), venne in possesso del Comune attraverso un accordo, o una lotta che rese il Comune proprietario e che a sua volta subentrò nei diritti del feudatario, permettendone il pascolo a chiunque volesse, dietro corresponsione di un adeguato corrispettivo in denaro, questo corrispettivo o fida che proviene ex dominio fondiario, è di natura privata e quindi non ha nulla a che vedere con il carattere pubblico dell'uso civico. In tale caso è evidente che trattasi di diritto patrimoniale del Comune e quindi oggetto dell'amministrazione speciale dei beni comunali patrimoniali, a termine della legge comunale e provinciale, fino a che il diritto stesso si esercita sulle terre di proprietà comunale, limitatamente al territorio oggetto dell'acquisto o del trapasso feudale. In caso diverso, cioè quando il diritto di pascolo estivo è pervenuto al Comune fin dal suo sorgere, o su alcune determinate terre o su tutto il territorio, per dar modo all'ente di ricavare i mezzi necessari per fronteggiare in tutto o in parte le spese comuni, allora la natura pubblica del diritto di fida è evidente e quindi non può trattarsi che di uso civico, non alterato dalla corrisposta in denaro che normalmente ne accompagna l'esercizio.

In altre parole, se al Comune compete il diritto di vendita delle erbe estive, come ente di diritto pubblico e non per rapporti di natura patrimoniale con privati, si tratta di diritto di uso civico sia che tale diritto gravi su terre comunali sia che gravi su terre private, comprendendo nelle terre private anche le terre di originaria appartenenza delle frazioni. Il corrispettivo di pascolo estivo è stabilito normalmente a capo, e non ha relazione con la permanenza del bestiame sul terreno oggetto del pascolo stesso. Nel Vissano, dopo un giorno di permanenza, la tassa fida è dovuta per intero, sia che il bestiame seguiti a rimanere nel territorio del Comune per tutto il tempo stabilito (4 mesi in genere), sia che se ne vada dopo qualche altro giorno. E ciò perché il corrispettivo non è altro che un riconoscimento del dominio del Comune sulle terre comunali e su quelle private soggette all'uso di pascolo.

L'altro diritto di pascolo è di natura civica tanto è vero che è riservato solamente agli stanziali, cioè ai cittadini che permangono sul posto, e non è soggetto a particolare corrispettivo. Esso investe egualmente il territorio comunale e quello privato soggetto a tale diritto con le limitazioni, dicevamo, delle disposizioni forestali e dello stato delle coltivazioni..

Il diritto di pascolo, sia esso estivo che invernale, impone una particolare condizione nella coltivazione agraria montana, sui terreni suscettibili di tale attività. Parimenti limitate sono le pratiche agricole sui terreni rappresentati da pascoli permanenti o da prati. Infatti, l'esistenza del diritto di pascolo impone delle rotazioni rudimentali, nel senso che il seminativo può essere utilizzato soltanto a cereali e con intervalli di un anno. Manca la possibilità di colture consociate, che escluderebbero il pascolo e non lo renderebbero possibile nelle maggesi e nelle stoppie. La coltivazione dei prati ultrasecolari renderebbe impossibile il pascolo, che invece ha carattere di preminenza dovuta alla tradizione e al diritto civico del quale rappresenta il godimento. Quindi nessuna rotazione agraria dei seminativi all'infuori di quella di un anno semina e un anno riposo, nessuna possibile coltivazione a foraggere nei periodi di libertà, e nessuna possibilità di miglioramenti dei prati, i quali, non appena falciato il prodotto, debbono essere sottoposti a pascolo. con quale vantaggio della tecnica agricola me lo potete insegnare.

Ma il diritto di pascolo si esercita anche nei boschi, siano essi di proprietà pubblica o privata, quando naturalmente non sono tagliati e le limitazioni forestali lo consentono. Anzi, dato lo stato dei pascoli o dei prati di alto monte, il bosco è quello che fa maggiormente le spese del pascolo, specie nella stagione estiva quando i foraggi si seccano e quindi il bestiame è costretto a riversarsi sul bosco.

Vanno notate anche alcune limitazioni del diritto, particolarmente nel periodo primaverile, nel senso che alcune zone vengono riservate a determinate specie di bestiame, di regola bovino, per un complemento di alimentazione durante il periodo delle lavorazioni primaverili. Tali località ben determinate prendono il nome di bandite e rappresentano zone dove il diritto di pascolo subisce, per volontà del Comune, una limitazione.

Le bandite si presentano sotto un doppio aspetto: quello di riserva a favore di un ente o di determinate specie di bestiame, e quelle di proibizione a scopo protettivo.

In antico il Comune faceva la bandita perché destinava quella zona ad essere affittata a determinate persone, con determinato procedimento, e quindi, la sottraeva all'uso generale per ottenerne un reddito da destinare a particolari spese. La bandita dunque è stata l'origine prima delle terre comunali aventi carattere patrimoniale in quanto il Comune stesso ha tolto ad esse il carattere di terre pubbliche.

In epoche più vicine, dopo che s'iniziò la distinzione tra terre di carattere patrimoniale e demaniale dei comuni, la bandita ebbe carattere protettivo in quanto volle significare divieto di pascolo o di taglio per reintegrare il pascolo o il bosco dai danni che tali usi vi avevano determinato. E si fecero bandite non solo su terreni comunali ma anche su terreni privati che andavano deteriorandosi, perciò, ieri come oggi, il montanaro è sempre stato il più feroce nemico della montagna, cioè dei suoi mezzi di sussistenza.

Affermatosi poi un principio di legislazione forestale, la bandita volle significare soltanto pascolo riservato a determinate specie di animali e particolarmente al bestiame bovino, perché non era infrequente il caso che l'abbondanza del bestiame ovino rendesse impossibile il pascolo del bestiame grosso o aratorio come si chiamava allora.

Nelle mani dei comuni il diritto di pascolo estivo, particolarmente accentuato nei terreni che essi si riservavano, prese forma di concessione e, soltanto dopo determinate formalità, come l' assegna e la conta, il bestiame poteva dislocarsi nelle località assegnategli. Dove il diritto di pascolo ebbe natura patrimoniale la concessione venne fatta anche a forestieri, venendo così a cadere una delle principali caratteristiche per il godimento degli usi civici, rappresentato dalla necessità di essere cittadino del Comune o di appartenere a quelle determinate famiglie della Comunanza.

E si badi che la concessione a forestieri non avveniva soltanto quando il pascolo era esuberante perché il bestiame locale non era sufficiente a saturarne la possibilità, ma avveniva anche, e specialmente, in concorrenza del bestiame locale, talché nelle riformanze del Comune di Visso, che sono poi i verbali dei Consigli Comunali del 1500 e del 1600, erano frequenti le proteste delle popolazioni contro l'intromissione del bestiame forestiero il quale danneggiava, e di molto, il bestiame locale. Le terre pubbliche o private soggette al diritto di pascolo, non possono essere chiuse. Se il proprietario ne effettua la chiusura il Comune o l'Ente intervengono per il pristino delle condizioni favorevoli all'esercizio del pascolo che altrimenti con la chiusura verrebbe escluso. Fanno eccezione soltanto i ristretti degli orti e delle vigne, cioè zone in vicinanza degli abitati coltivati intensamente, anche con alberate, e sui quali non si esercita, di fatto, il diritto di pascolo benché in molti luoghi parti periferiche di tali ristretti siano soggette a tale uso.

Però gli ammessi a godere del diritto di pascolo estivo o invernale non hanno a disposizione l'intero territorio, nel sen80 che indifferente il luogo dove pascolare. Le zone sono ben e corrispondono generalmente al perimetro degli antichi villaggi contribuirono alla costituzione dell'unità comunale.Se si osservano i comuni della parte montana della nostra provincia, si trova che essi hanno un discreto numero di frazioni, alcuni, come Ussita, Bolognola, Montecavallo ecc., non hanno un centro abitato che porti tal nome ma il Comune è costituito da un aggregato di Villaggi (ora frazioni) ed il nome del comune si riferisce all'intero gruppo di frazioni. Il pascolo quindi si esercita nell'ambito del territorio di ciascun villaggio o gruppo di villaggi, per modo che diventa fatto contravvenzionale sconfinare nell'ambito del vicino villaggio, oppure pascolare in zona diversa da quella spettante al villaggio d’appartenenza o assegnato. Poche sono le terre libere da tale uso.

I rapporti fra i proprietari di bestiame stanziale e quelli di bestiame transumante sono improntati a cordialità ma gli interessi sono contrastanti, e di questo antagonismo chi ne fa le spese è il pascolo. Il bestiame transumante non può, infatti, essere introdotto nei pascoli assegnati prima di determinate epoche, che normalmente vanno dai primi di maggio o di giugno. All'avvicinarsi di tali epoche il bestiame stanziale si spinge a preferenza nei pascoli destinati al bestiame nomade che dovrà arrivare, e quindi vengono assoggettate al pascolo zone di territorio che non sono nelle condizioni più favorevoli di vegetazione perché il pascolo stesso possa effettuarsi senza danni alla cotica erbosa, specie quando la stagione primaverile è piovosa e quindi il terreno viene danneggiato dallo zoccolo duro della pecora. Si dirà che le norme forestali vietano tali abusi. Ma le guardie forestali non possono essere onnipresenti e l'avidità del pastore giunge ad escogitare sotterfugi e gherminelle, pur di "sfiorettare" i pascoli destinati al bestiame transumante. Molti degradamenti e molti deterioramenti di pascoli montani hanno questa origine e i danni sono sempre più gravi perché le giornate scelte per il pascolo nelle zone alte, appena libere dalle nevi, sono appunto quelle nebbiose e piovose per modo che il terreno soggiace al doppio danno del pascolo e del calpestio.

Un contrasto più profondo esiste fra gli interessi degli armentari e quelli degli agricoltori. perché il diritto di pascolo impedisce una razionale coltivazione delle poche terre adatte per l'agricoltura, per modo che i redditi sono scarsissimi in relazione al lavoro impiegato per ottenerli e, se nelle famiglie che vivono in montagna una certa agiatezza si riscontra al giorno d'oggi, ciò è dovuto al fatto che i redditi ottenuti dall'allevamento del bestiame grosso, che si ottengono per il costo relativamente basso del pascolo, ha consentito la formazione di modeste disponibilità sulle quali però incidono in misura sempre maggiore le tasse.

I proprietari di bestiame stanziale vedono nel bestiame transumante un elemento che impedisce loro di aumentare le disponibilità foraggiere e quindi incrementare l'allevamento del loro bestiame. Vedono nei grossi possessori di bestiame coloro che approfittano in misura elevata, e spesso a prezzo bassissimo, del provento dei pascoli comunali e, poiché costoro hanno influenza notevole sulla politica economica dei comuni che fissano il prezzo della fida, considerano come sottratte al patrimonio comune ed acquisite invece ai patrimoni privati quelle differenze di reddito che vanno a vantaggio dei grossi possessori d’armenti. Ma la presenza del diritto di pascolo dei grossi possessori, sia nei beni privati che comunali, ha una ben grave conseguenza quando impedisce il progresso della tecnica agricola montana ed impedisce all'agricoltore l'attuazione di quelle bonifiche senza le quali seminativi, pascoli, boschi vanno in rovina, perché i danni e le sottrazioni del pascolo e della coltivazione non vengono reintegrati con le razionali colture e le razionali concimazioni. Ogni volta che si cerca di limitare il diritto di pascolo per l'attuazione di quei miglioramenti necessari, se non per aumentare il rendimento del patrimonio del montanaro almeno per impedire che diminuisca, sorge la voce di coloro che credono di aver diritto alla conservazione degli usi e quindi ad impedire, in nome della conservazione di un'attività che i tempi vogliono regolata in modo diverso, quei miglioramenti indispensabili onde evitare che la montagna diventi uno sterile ammasso di calcare e i boschi una desolante rovina.

Questi contrasti sono particolarmente sentiti dove è scarsa la terra atta alla coltivazione, perché le terre che potrebbero esservi adibite sono soggette all'uso di pascolo che ne impedisce la razionale coltivazione, e tutti i provvedimenti a favore della montagna rimarranno lettera morta se non si riuscirà ad armonizzare, in relazione alla natura dei tempi e del suolo, l'agricoltura locale con l'industria dell'allevamento del bestiame. Noi riteniamo che il diritto di pascolo non può essere regolato oggi come quattro o cinque secoli fa, perché diverse sono le esigenze delle popolazioni e dell'allevamento del bestiame, e quindi occorre affrontare decisamente il problema introducendo quelle trasformazioni che la tecnica e i tempi moderni rendono necessarie per dare al montanaro una situazione economica diversa, da quella del pastore che non è, indubbiamente, fra le più floride. Di fronte al degradamento dei pascoli e quindi alla loro diminuita potenzialità di alimentare un numeroso bestiame, sia esso ovino o bovino, s'impose la necessità di provvedere alla ricostituzione della produttività dei prati e dei pascoli, anche se per ottenerla bisognerà evitare per alcuni anni il pascolo in determinate zone, a danno di qualsiasi diritto.

            Altro elemento di contrasto, provocato dall'esercizio del diritto di pascolo, è rappresentato dai danni che con esso si provocano alle coltivazioni, perché, come e logico pensare, il pascolo stesso si svolge mentre in alcuni territori debbono ancora maturare i fieni e le messi. Infatti, i terreni coltivati non sono distribuiti su una superficie uniforme, sia che si tratti di seminativi privati che di terreni sottoposti all'uso di semina. Fra i diversi appezzamenti non esiste sempre continuità, o perché il proprietario non ha seminato, o perché ci sono spazi di proprietà comunali più adatti al pascolo che alla coltivazione. E siccome i terreni seminati non possono essere chiusi, e quindi, di fatto, non sono chiusi, il pascolo stesso si svolge nelle immediate vicinanze dei prodotti, per quanto severe disposizioni locali vietino che su tali zone dette "mezzagne" si eserciti il pascolo. Sta, di fatto, però che tali mezzagne sono particolarmente appetite dai pastori per la qualità di erbe che vi vegetano e quindi, malgrado tutte le proibizioni, il pascolo vi si esercita e siccome le pecore e i bovini non possono essere tenuti a guinzaglio, il più delle volte accade che il pascolo si estende anche sulle superfici coltivate, con danni spesso gravi, tenuto conto della scarsità dei raccolti e delle produzioni unitarie particolarmente basse per la natura dei terreni e le condizioni climatiche. Di qui elementi di contrasti e di malumori che spesso sboccano in liti, discussioni, malanimi.

Altri contrasti sorgono in tema di letamazione dei terreni. Sino a quando non sorsero comprensori di seminativi privati, era il comune che stabiliva dove i pastori dovevano ammandriare il bestiame, per modo che si addiveniva ad una letamazione costante delle terre comunali migliori, fossero esse seminative e pascolive, e, quando se ne riconosceva il bisogno, anche delle terre comunali meno buone. Così tutto il terreno era mantenuto in uno stato di fertilità relativa, con conseguente vantaggio degli utenti del diritto di pascolo e di semina.

I comprensori privati che, come abbiamo visto, si formarono dopo l'incameramento delle terre comunali nei primi del 1800, portarono come conseguenza che i possessori di bestiame restrinsero la letamazione so1tanto alle terre private, dando la preferenza asso1uta a quelle di loro proprietà e, poiché la sorveglianza dei comuni sull'obbligo della letamazione delle terre comunali divenne meno rigida, incominciò il decadimento della produttività dei pascoli comunali e le terre soggette all'uso di semina, causa appunto la mancata letamazione.

La tendenza a ridurre il numero degli ovini depascenti nelle singole zone, in vista appunto della diminuita fertilità dei pascoli, ridusse ancora la letamazione vagante, con conseguente nuova diminuzione della fertilità delle terre montane.

E' vero che molti enti nei contratti di affitto hanno stabilito il numero delle mandrie, cioè delle notti in cui il bestiame deve permanere sui terreni affittati, ma per la tenuità delle multe stabilite i pastori hanno convenienza a letamare i campi propri e pagare la penalità per le letamazioni non effettuate sui campi dell'ente. Perciò attualmente tale obbligo non costituisce un riparo efficace all'impoverimento dei terreni che vengono sfruttati dal pascolo.

            Inoltre accade rarissimamente che i possessori di bestiame letaminino le terre di coloro.che non ne posseggono. Ciò avviene soltanto quando nella zona dove il bestiame depasce non vi siano proprietà terriere dei proprietari di armenti. Ed anche in tali casi la letamazione non avviene per tutte le terre, ma soltanto secondo preferenze o parentele. E non è infrequente il caso di ovini che pernottino all'addiaccio, cioè in località inadatte per la letamazione, con conseguente perdita dei benefici che la letamazione stessa poteva arrecare ai terreni dove si effettuano le coltivazioni.

Molti armentari protestano oggi per lo stato in cui sono ridotti alcuni pascoli montani della nostra zona, ma dimenticano che, per anni ed anni, hanno continuato a pascolarvi senza farli beneficiare una sola mandria di letame e quindi, in fondo, anche loro hanno contribuito a determinare tale stato di cose.

L'Agricoltura locale tende quindi ad. avere tutti i terreni seminativi e pascolivi letamati dal bestiame che usufruisce del pascolo. La pratica invece è quella di letamare soltanto le terre dei possessori di bestiame con conseguenti danni per una parte notevole di agricoltori che si vedono costretti, a lungo andare, ad abbandonare le terre che non possono coltivare stante l'impossibilità di concimarle.

Per i possessori di terre all'uso di pascolo la tassazione è più onerosa che per il passato. La legislazione pontificia considerò il diritto di pascolo come un bene fondiario, e quindi lo intestò catastalmente alla persona o all'ente che ne aveva il godimento: valutò quanto poteva ricavarsene vendendolo e lo sottopose a tassazione. In tal modo l'estimo delle terre private venne suddiviso in tre parti: una riguardante il proprietario, l'altra riguardante l'utente del pascolo estivo, e la terza riguardante l’utente del pascolo invernale. Poiché fu deciso che gli utenti del pascolo invernale (popolazioni) non dovessero pagare tassa di sorta, data la natura dell’utenza stessa, le tasse o dative delle terre private vennero suddivise fra il proprietario della terra ed il proprietario del diritto di pascolo estivo in relazione al valore dei diritti rispettivi. Nel Vissano, grosso modo,  i 2/3 delle tasse erano pagate dal Comune che era in possesso del diritto di pascolo estivo e l' altro terzo dal proprietario.

Però, con l’applicazione del nuovo catasto, le cose cambiarono. Il diritto di pascolo sulle terre private venne considerato un uso civico e quindi non tassabile agli effetti dell'imposta fondiaria; la divisione dell'estimo catastale venne abbandonata e l'importo della tassa gravò per intero il proprietario. Il Comune possessore del diritto di pascolo estivo venne interamente sgravato della sua quota ma continuò ad usufruire del reddito proveniente dalla fida di pascolo. Quindi i risultati economici dell'industria agricola montana divennero ancor più sfavorevoli, in relazione appunto al maggior onere d'imposte che venne addossato al proprietario.

Altro elemento di contrasto è il bestiame da commercio, che pretende di pascolare senza il pagamento della fida relativa. In antico ogni comune doveva provvedere al proprio approvvigionamento carneo: di qui la fissazione del prezzo massimo di vendita della carne e la necessità di mantenere sempre nel Comune il bestiame da macello necessario per ogni evenienza. Quindi l'esenzione dalla fida di pascolo del bestiame dei macellai, con il preciso divieto di utilizzare il bestiame stesso per scopo di allevamento o industriale.

            Con il progredire dei tempi la facilità dei rifornimenti tolse la necessità di mantenere scorte di bestiame da macello, però i macellai non rinunciarono ai loro diritti e pur vendendo la carne ai prezzi correnti, seguitarono a godere dell'esenzione della fida anche utilizzando il bestiame per scopo di allevamento e di commercio. 

            Quindi in determinate epoche i pascoli sono popolati da bestiame di proprietà dei commercianti, il quale non so1tanto intralcia il pascolo del bestiame locale ma, essendo abbandonato, provoca danni sensibilissimi alle coltivazioni e non di rado epidemie contagiose specie per i bovini.

            Poiché il numero del bestiame oscilla in relazione agli acquisti ed alle vendite, si è cercato di introdurre il sistema del forfait per il pagamento della fida; ma ciò non toglie che i commercianti privati ricevano da tale sistema un notevole vantaggio, a tutto detrimento dell’economia locale generale, specie quando tale bestiame viene immesso a pascolare nelle bandite, la cui superficie è stabilita per il bestiame normale da lavoro della zona. Altra fonte di danno è il pascolo vagante del bestiame grosso bovino ed equino. Voi mi direte che il pascolo vagante non è consentito, ma, di fatto, esso si esercita liberamente nel prato e nel bosco che sono spesso vicini al seminato, per modo che il bestiame finisce per pascolarvi, specie di notte, con danni notevoli perché è completamente abbandonato e si ha fiducia so1o in certe abitudini del bestiame stesso che dovrebbero evitargli di giungere prima dell'alba nelle zone seminate. Ma siccome talvolta non si verificano le previsioni, il personale che il mattino, prima dell'alba, s’interessa di rintracciare il bestiame abbandonato la sera prima al pascolo nei prati e nei boschi, finisce per ritrovarlo a pascolare nei seminativi. Certe volte è invece l’avidità dei pastori che spinge il bestiame nelle zone riservate allo scopo di farlo godere di un pascolo migliore. Mentre, prima dell'entrata del bestiame transumante, quello stanziale normalmente si spinge al pascolo nelle località dove dovrà depascere il bestiame che arriva, nell'epoca della monticazione, quando cioè il bestiame lascia il pascolo montano per avviarsi nella zona di pascolo invernale, i transumanti invadono le riserve invernali di pascolo degli stanziali, con l’effetto di renderle inadatte ad un ulteriore sfruttamento nel periodo autunnale. Il danno è gravissimo; molto superiore a quello che in primavera gli stanziali arrecano ai transumanti, perché durante l'estate le erbe rivegetano mentre nell'autunno non rivegetano più ed il bestiame stanziale deve quindi ritrovare nel bosco o nella produzione foraggiera accantonata gli elementi per poter svernare.

Il diritto di semina nella zona montana della nostra provincia non ha e non ha mai avuto soverchia importanza, specie da quando il privato ha potuto acquistare attraverso l'incameramento dei beni comunali effettuato dalla Camera Apostolica quelle terre che gli erano necessarie per sviluppare l'industria agricola.

Il diritto di semina era invece molto più diffuso nel Medio Evo perché esso dava la possibilità alle famiglie che vivevano permanentemente sul territorio del Comune, di integrare le produzioni ottenute nelle zone dei ristretti: ed esistono ancora negli antichi archivi, lunghi elenchi di persone autorizzate alla semina contro pagamento di determinati corrispettivi in denaro.In epoche recenti, molti di questi territori su cui si esercitava il diritto di semina, per incuria degli amministratori comunali sonno diventati privati, nel senso che la corrisposta non è stata versata. L'esercizio di tale uso è stato sempre più limitato, perché il terreno soggetto all'aratro era terreno sottratto, almeno per un determinato periodo, al pascolo e quindi si dovevano rispettare i turni di pascolo riposo stabiliti per le terre private ed il prodotto, come il prodotto ottenuto su terre private sottoposte all'uso di pascere, doveva essere asportato entro determinate epoche altrimenti gli eventuali danni arrecati dal bestiame ai raccolti non erano risarcibili.

L'importanza del diritto di semina è andata decadendo in questi ultimi tempi, perché l'agricoltore ha preferito modificare i sistemi di coltivazione dei ristretti, cioè delle terre libere, per cercare di conseguirvi un aumento di produzione eliminando così la coltivazione delle terre comunali che, per mancanza d’adatte migliorie, andavano diventando sempre più sterili. Ma esso ebbe un notevole impulso quando si consentirono alcuni disboscamenti e conseguente messa a coltura delle terre in alcune parti delle nostre montagne. Più che di disboscamenti, si trattava di messa a coltura di radure in mezzo ai boschi le così dette "cese" con distruzione dei pochi cespugli sparsi per la radura, ma anche lì, attenuatasi l’iniziale fertilità del terreno dovuta a lunghi riposi, si abbandonarono le coltivazioni e il bosco ricominciò a crescere dove una volta era il seminativo.

Salve poche eccezioni, principalmente dovute alla possibile messa a coltura di zone di prati sino ad oggi permanenti, non vediamo zone dove possa ancora riaffermarsi l'uso civico di semina. D’altra parte, nella zona montana, il vincolo idrogeologico della maggior parte dei terreni in forte pendio ha eliminato larghe zone dove si esercitava il diritto di semina su terreni comunali. 

            Altro diritto, particolarmente importante, è quello di legnatico nei boschi comunali. Nelle nostre montagne sono rare le zone dove esistono diritti di legnatico su proprietà private, malgrado che all'epoca dell'incameramento dei beni da parte della Camera Apostolica e conseguente vendita, i beni comunali fossero stati, nella maggior parte dei casi, acquistati dai privati, specie se si trovavano in vicinanza del paese.

Sulla proprietà comunale il diritto di legnatico prende invece versi aspetti. Difatti, originariamente, l'uso civico di legnatico comprendeva non soltanto il fabbisogno di legna per usi famigliari, senza limitazione, ma anche il diritto di far legname da lavoro per riparazione di attrezzi, travature per fabbricati ecc., ed in alcune comuni facoltà di far legna per venderla nell’ambito del Comune. Inoltre diritto non era soggetto a particolari limitazioni di quantitativi, o riservato unicamente ai non possessori di boschi. Coll'andare dei tempi disposizioni di carattere comunale intervennero per limitare l'estensione di tale uso. I comuni, sotto la pressione delle disposizioni forestali, esclusero il diritto di legnatico per uso di commercio, anche per piccole vendite nell’ambito del Comune; stabilirono i quantitativi spettanti pro-capite, ed eliminarono il diritto di taglio di travi o lo sottoposero a particolari condizioni di concessione. Praticamente, applicarono tali e tante restrizioni all'uso di legnatico da alterarne completamente la natura e gli scopi. Venne limitato anche il diritto far pali per vigne, e quello del taglio della frasca da foraggio che integra durante i lunghi inverni delle zone montane l'alimentazione del bestiame, stante la scarsità dei foraggi, e con alcune disposizioni giunse a ridurre il diritto d'uso di legnatico ad una distribuzione di legname già tagliato effettuata dal Comune, pro-capite e contro rimborso delle spese vive. Ciò provocò una più intensa utilizzazione dei boschi privati con conseguente eliminazione del diritto di pascolo sugli appezzamenti tagliati. E dove i tagli di boschi privati poterono seguire un piano organico, le conseguenze sul pascolo e sul bosco non sono state importanti, ma dove il taglio venne eseguito senza piani organici, le conseguenze sono state gravi, non solo per il pascolo ma anche per il bosco, perché la più assidua vigilanza non ha potuto impedire furti di legna, tagli abusivi e pascolo abusivo nelle tagliate.

 In alcuni comuni montani si è ristretto il diritto di legnatico unicamente ai bisogni famigliari, escludendo la possibilità di far commercio del legname cosi ottenuto anche nell'ambito del Comune fra utenti, nel senso che chi ne aveva esuberante vendeva a chi non ne aveva a sufficienza. Si e dimenticato che questo e un diritto civico che la speciale legge può abolire mediante compenso, ma che non può essere modificato né dalla legge forestale, ne dai regolamenti comunali perché i diritti di uso civico, una volta riconosciuti ed accertati, sfuggono alla naturale argomentazione delle leggi ordinarie per rientrare in quelle speciali particolari alla materia.

Questi sono gli usi principali delle zone montane della nostra provincia. In qualche zona c'e qualche uso minore, ma non hanno importanza e non incidono sull'economia della zona.

           Vediamo ora come sono regolati dalla legge questi usi. Innanzi tutto la prima regolamentazione e contenuta negli statuti comunali che stabilivano le modalità per l'esercizio degli usi civici E ciò è comprensibile, riflettendo che il comune doveva intervenire per regolare rapporti pubblici e privati fra i cittadini e il Comune stesso. Gli statuti in certo qual modo codificarono l'esercizio degli usi, ma le amministrazioni comunali del 1600 e del 1700, attraverso i decreti del Bossolo, stabilivano per anno le modalità pratiche degli usi stessi, in relazione ai tempi e all'evolversi del concetto di stato. Poi le regolamentazioni furono abbandonate. Sorse e si affermò il concetto che l'uso civico era un peso troppo grave imposto alle terre c che queste dovevano essere libere, e man mano, con il procedere delle idee di liberta, si giunse ad un tipo di legislazione, sia pure a carattere regionale dato il frazionamento politico italiano, tendente appunto all'abolizione degli usi civici.

Le prime avvisaglie si ebbero nella seconda meta del 1700 in Toscana, in Lombardia, nel Veneto e nel Napoletano, perché gli usi civici, sia pure sotto diversi nomi, sono un po' la caratteristica di molte regioni italiane. Come abbiamo detto, l'occupazione francese considerò gli usi civici come residui feudali, e quindi li abolì, di diritto se non, di fatto, perché, come abbiamo potuto constatare nel Vissano, mentre da un lato ne dichiarava l'abolizione dall'altro ne permetteva l'esercizio per non scompaginare l'economia dei comuni.Con la restaurazione Pontificia riprese vigore l'editto del Cardinale Consalvi del 1805, che rappresenta una prima limitazione del diritto di legnatico. Si stabiliva, infatti, che tale diritto fosse limitato e ristretto alla sola legna morta e così pure ai soli cespugli infruttiferi, sottoponendo a particolari autorizzazioni e prescrizioni il taglio dei boschi in genere ed anche delle piante isolate.

Nel l849 abbiamo una notificazione Pontificia che negli Stati della Chiesa (oggetto del nostro esame) stabilisce la possibilità di affranco facoltativo dei diritti gravanti le terre, ed in particolare dei diritti di pascolo estivo a favore di comuni e di particolari; e ciò mediante cessione di un pezzo di terreno o mediante una annua prestazione di danaro redimibile in base al tasso del 5%. Ma tale affrancazione, per essere volontaria, ebbe poche applicazioni nelle zone montane nostre. Solo pochi appezzamenti furono affrancati parzialmente come abbiamo visto, o, dal diritto di pascolo estivo facendo rimanere in piedi il diritto a favore delle popolazioni, o viceversa. Però alcuni affranchi dettero luogo a lunghe c dispendiose controversie per la natura non sempre chiara del diritto che s’intendeva affrancare.

Con il passaggio dei dominii della Chiesa al Regno d'Italia non si ebbe una vera e propria legge dì carattere nazionale sino al 1888, perché il problema degli usi civici non fu affrontato nella sua unità, ma considerato soltanto regionalmente.

Si ebbero così disposizioni speciali per la Toscana e per altre regioni, ma non una legge uniforme a carattere nazionale.

Cominciò dapprima ad occuparsene la legge forestale, perché con legge del 20 giugno l871 si dichiararono inalienabili alcune foreste demaniali, e con la legge del l875 si ordinò a coloro che individualmente o collettivamente avessero preteso di aver diritti d’uso su quelle foreste di farne dichiarazione entro un anno alle Prefetture competenti e fu data facoltà al Governo di affrancare quei terreni mediante cessione a titolo enfiteutico o in proprietà assoluta, di una parte del bosco, di valore corrispondente al diritto di uso, ovvero mediante un corrispettivo in denaro. Però, secondo tale legge, l’affrancazione poteva venire sospesa quando l'uso di pascolo o altro diritto fosse stato in tutto o in parte indispensabile all'esistenza della popolazione, salvo in tali casi a regolare l'esercizio dei diritti dei comunisti.

La legge forestale del 20 giugno 1877 n. 3917 prelude alla ricostruzione dei demani collettivi. L'art. 29 dispone, infatti, che "niun diritto di uso eccedente i termini dell'art. 521 del C.C. potrà essere concesso sopra boschi e terreni sottoposti a vincolo forestale". Ma tale articolo parla di diritti d’uso da stabilire e non già di quelli stabiliti. L’art. 30 invece riconosce formalmente i diritti già costituiti e nell’art. 34 è detto che "nel caso che l'esercizio del pascolo e delle altre servitù d’uso sia riconosciuto in tutto o in parte necessario ad una popolazione, si potrà sospendere il diritto di affranco, regolandone però l'esercizio".

Venne poi la Legge del 24 giugno 1888 per l'abolizione delle servitù di pascolo e legnatico ecc. nelle province ex pontificie, la quale si ispirò al concetto del mantenimento degli usi civici nei luoghi in cui. per l'elevazione e la natura dei fondi gravati, le terre non fossero suscettibili di miglioramenti agrari. Tale legge fu la conseguenza di nuove idee sorte sulla natura degli usi civici perché la teoria storico giuridica, sorta nella prima metà del 1800, aveva dimostrato che gli usi civici non erano diritti feudali, come li riteneva la teoria giuridica economica della fine del 1700, ma residui d’antichi domini collettivi. Quindi l'esercizio degli usi civici nelle terre non suscettibili di colture intensive, rappresentava il miglior modo di godimento delle terre. La legge del 1888 fu perciò una legge nella quale si cercò di conciliare principi opposti. Infatti, erano i proprietari del fondo che potevano affrancare, quando i diritti da abolirsi spettavano ad altri privati o ad enti giuridici come tali. Quando invece gli utenti erano popolazioni di comuni o frazioni o università agrarie, l'affrancazione aveva luogo dividendo la terra fra essi ed il proprietario secondo il valore dei rispettivi diritti. Quando poi la continuazione dell'esercizio di questi usi fosse necessaria alle popolazioni utenti, erano loro che potevano affrancare dando un canone al proprietario. In tal modo la legge riuscì non solo ad affermare il suo concetto della continuazione degli usi civici, ma anche a facilitare la ricostituzione delle comunità utenti, con l'ammetterle ad affrancare di fronte al proprietario.

La legge del 1888 ricostituì dunque i dominii collettivi, perché tutti i terreni assegnati agli utenti o da questi affrancati formarono delle proprietà collettive ordinate con la legge 4 agosto 1894. Però la legge del 1888 non aveva distinto le semplici associazioni dagli enti e, nelle associazioni non aventi personalità giuridica, i beni divennero proprietà particolare dei membri dell'associazione: quindi i soci potevano disporre a proprio giudizio, salvo l'osservanza delle reciproche obbligazioni. Infatti, in molti luoghi si addivenne allo scioglimento delle comunioni e alla divisione dei beni fra i singoli. Con la legge del 4 agosto 1894 si ovviò a tali inconvenienti perché, a tutte le associazioni che avessero per proprio scopo la coltivazione o godimento collettivo della terra, fu data la qualità di persone giuridiche. Quindi con tale legge si ritorna al concetto antico di far coesistere, a lato della proprietà privata, una forma di proprietà collettiva organizzata per legge e sull'esempio delle proprietà antiche, come la Marca Germanica. Però, a seguito dell'affranco, la zona diventa più ristretta ed il soggetto dell'uso civico non è più il singolo cittadino, ma la società degli utenti, nella quale il singolo cittadino perde la sua individualità. Si paragonò l'associazione ad una cooperativa e si sperarono risultati notevoli per il miglioramento delle condizioni di vita delle nostre zone montane; ma nella pratica la collettività del possesso non fu ben compresa dagli interessati, tanto che molti enti collettivi, o non furono costituiti, o rimasero allo stato di embrione.

La legge del 1888 si è ispirata al concetto economico di liberare la proprietà fondiaria privata dai vincoli che ne impediscono i miglioramenti di coltura. Però essa non tenne conto delle condizioni in cui sarebbero rimaste intere popolazione che venivano private di gran parte delle terre dalle quali, per secoli. traevano i mezzi per rendere meno dura la vita, perché i criteri fondamentali della legge furono due: abolire, salvo casi eccezionali, gli usi civici, facendoli affrancare obbligatoriamente e favorire esclusivamente la proprietà privata, concedendo, di regola, il diritto di affranco al solo proprietario che tratteneva le terre e corrispondeva un canone agli utenti. Provocò, infatti, proteste vivissime tanto che, anche nei comuni del Vissano, ne venne sospesa l'applicazione nel 1898 con apposito Decreto Reale e finalmente, con decreto legge dell'8 marzo 1908, nelle province pontificie e nell'Emilia veniva sospesa l’applicazione delle leggi del 1888 e del 2 luglio 1891, tranne per quanto riguardava i giudizi di cognizione degli usi civici.

Con la predetta legge dell'8 marzo 1908 il Governo si era impegnato a presentare, entro il 30 giugno dello stesso anno, un disegno di legge per dare organico assetto agli usi civici. Dobbiamo giungere invece sino al 1924 per rintracciare nel decreto legge del 22 maggio il riordinamento degli usi civici. Tale decreto fu convertito in legge il 16 giugno 1927 con diverse modificazioni, e la legge suddetta, completata dal regolamento di cui al decreto del 26 febbraio 1928, rappresenta l'ultima legge organica in materia d’usi civici tuttora in vigore.

"Tale legge considera gli usi civici quali diritti di condominio e li riporta nella sfera del diritto pubblico, dove gli interessi degli utenti sono tutelati anche dallo Stato, che interviene con vigile cura nelle operazioni relative all'accertamento e alla sistemazione giuridico-economica degli usi. La legge ha, infatti, ancora lo scopo di liberare le terre dagli usi civici e da ogni altro diritto di promiscuo godimento preteso o esercitato dagli abitanti di un comune o di una frazione; di sistemare giuridicamente in maniera definitiva le terre attribuite o da attribuirsi alle popolazioni mediante l'affrancazione degli usi, e finalmente di avviarne la sistemazione economica migliore. Tale legge enuncia un principio importantissimo in materia d’usi civici cioè la loro imprescrittibilità, e quindi per l'esistenza degli usi e conseguente loro liquidazione non si richiede l'esercizio attuale del possesso di fatto, e neanche un ultimo possesso di fatto non attuale. La legge richiede invece il possesso originario a qualunque epoca esso risalga. anche se in seguito è stato interrotto. da provarsi con documenti quando esso risalga a prima del 1800 ed anche con testimoni quando l'esercizio dell'uso sia cessato dopo tale data ".

La legge attuale elenca alcuni usi civici, ma l'elencazione è soltanto dimostrativa e non tassativa. Infatti, nel decreto 1924 che poi è quello convertito nella legge del 1927, è contenuta un’elencazione d’usi superiore a quella della legge suddetta, e parimenti in tale decreto vengono elencati anche, con una categoria d’usi civici, “quelli dominicali”, cioè quelli che comportano partecipazione ai frutti e al dominio del fondo; categoria che non compare nella legge del 1927. Ad ogni modo gli eventuali usi non elencati nella legge del 1927 debbono essere inquadrati nelle due grandi categorie stabilite dalla legge stessa: " essenziali " ed " utili ", ed il loro affranco è obbligatorio, ed avviene secondo una scala di compensi in relazione all'ampiezza del diritto d’uso esercitato.

Una particolare agevolazione per le province ex pontificie è contenuta nell'art. 9 di tale legge. Cioè l'affrancazione che normalmente è ammessa a favore del proprietario, viene in tali province eccezionalmente ammessa a favore degli utenti, mediante pagamento di un canone al proprietario. Ma ciò può avvenire soltanto quando il Commissariato Regionale per la liquidazione degli usi civici, che è l'autorità governativa incaricata, per determinate zone, di tutte le operazioni di liquidazione, riconoscerà indispensabile per le popolazioni del Comune, della frazione, o dell’associazione agraria, che si continui nell'esercizio degli usi o dell'uso e l'estensione del terreno da cedersi in corrispettivo dell'affrancazione, sia da esso giudicata insufficiente per proseguire, come per il passato, nell'esercizio degli usi.

La legge si occupa anche della destinazione delle terre gravate dagli usi civici e di quelle provenienti dall'affranco, nel senso che stabilisce le terre soggette a quotizzazione fra gli utenti e quelle che dovranno conservarli, come per il passato, per l'esercizio degli usi civici. Quindi le terre vengono divise in due categorie: la prima comprende i terreni convenientemente utilizzabili come boschi e come pascoli permanenti, la seconda comprende i terreni convenientemente utilizzabili con la coltura agraria. "Riguardo ai terreni della prima categoria, utilizzabili come bosco e pascolo permanente, l'art. 12 della legge afferma principi importantissimi e cioè: tutto il patrimonio silvo-pastorale della comunità e delle associazioni agrarie è assoggettato, in termini precisi e categorici, alle leggi forestali; le terre comuni possono essere alienate o mutate di destinazione con l'autorizzazione del Ministero dell'Agricoltura; l'esercizio dei diritti delle popolazioni su detti terreni sarà esercitato in conformità dei piani economici di cui agli artt. 130 e 135 del decreto 30-12-1923 e non potranno eccedere i limiti stabiliti dal codice civile.           

Veramente, per la soggezione alle disposizioni forestali, la legge parla soltanto di comuni. Sembrerebbe quindi che le associazioni agrarie dovessero esserne escluse, anche perché l'ingerenza dell'amministrazione forestale sugli enti proprietari di terreni boschivi e pascolivi è estesissima, giungendo anche a destinare a scopi di miglioramento una parte degli incassi realizzati per tagli straordinari (cioè al di fuor dei piani economici). Ma, data la situazione dei pascoli e dei boschi appartenenti alle comunanze ed associazioni agrarie, riteniamo che non sarà male l'intervento temporaneo del Corpo Forestale anche se la legge non lo contempla. La limitazione dei diritti delle popolazioni, in conformità degli articoli 130 e 135 della legge forestale, vuol significare che il loro esercizio sarà limitato a quanto necessario ai bisogni dell'utente e della sua famiglia. In altre parole non vengono più consentiti diritti UTILI, ma solo diritti ESSENZIALI, perché con la legge in parola si sono voluti sopprimere gli usi utili aventi carattere industriale e di speculazione, e riportare quindi gli usi alla funzione originale dei demani comunali, cioè integrazione dei mezzi messi a disposizione dell'utente, perché, come si è detto, l'uso civico non può essere permesso per essere oggetto di speculazione a vantaggio di privati, ma per integrare la soddisfazione dei bisogni più esenziali della vita. Difatti, osservando la regolamentazione degli statuti comunali, ci avvediamo che questo era il concetto fondamentale cui essa s’ispirava, anche se nella pratica avveniva qualche cosa di diverso dato il prevalere, allora come oggi, d'interessi particolari che interferivano nelle deliberazioni della maggioranza consiliare.

Le terre suscettibili di miglioramento agrario vengono ripartite in quote fra coloro che ne hanno diritto, nel Comune, nelle frazioni e nelle associazioni agrarie, con la condizione che risiedano nel Comune e nella frazione, che siano coltivatori diretti, capi famiglia e diano affidamento di trarre dalla terra la maggiore utilità possibile. L'assegnazione viene fatta a titolo d'enfiteusi con la condizione che l'affrancazione del canone relativo, non sarà possibile sino a quando le migliorie del terreno non saranno state eseguite ed accertate dall'organo competente. Prima dell'affranco le terre non possono essere né alienate né divise, ed in caso di abbandono da parte dell'assegnatario, verranno devolute alla massa per essere ripartite fra gli aventi diritto secondo le norme della legge.

Ma la legge del 1927 stabilisce anche il seguente principio modernissimo, in contrasto con una caratteristica degli usi civici: i terreni delle associazioni agrarie, sia che restino alle medesime, sia che passino ai comuni o alle frazioni, in ogni caso debbono rimanere aperti agli usi di tutti i cittadini del Comune o della frazione, ad eccezione però dei diritti spettanti a determinate classi di persone, per disposizioni speciali di legge anteriori o per sentenze passate in giudicato, nonché per quelle associazioni composte di determinate famiglie le quali, possedendo esclusivamente terre adatte alle colture agrarie, vi hanno apportato sostanziali e permanenti modificazioni.Ma dove la legge del 1927 si distacca completamente da tutte le altre precedenti è nell'organizzazione dei beni delle frazioni.

Come abbiamo detto in precedenza, molte delle attuali frazioni dei nostri comuni montani in passato erano villaggi autonomi e nella maggior parte “Comunitates” o "Universitates” che si reggevano e si amministravano con le assemblee generali, e avevano i loro propri sindaci e massari. Ognuna di queste comunità aveva le sue terre comuni che erano lasciate al godimento collettivo degli uomini della Comunità, de11'Università, del Castello, della Villa, e di queste terre disponevano essi stessi riuniti in assemblea o consigli generali. Essi, per meglio difendersi, nei tempi antichi furono costretti a sottomettersi nominalmente a Comuni maggiori o Villaggi più potenti (con gli atti di Dedizione), i quali, mentre da un lato ne assicuravano la difesa e ne assumevano la rappresentanza, dall’altro non s’impossessavano delle loro terre, ma si limitavano ad esercitare su di esse un’alta sorveglianza per quelle necessarie agli usi delle popolazioni.

Eventuali terre esuberanti venivano, dai villaggi, cedute in amministrazione e godimento all'Ente comune per il realizzo dei mezzi necessari alle spese che il Comune doveva sostenere per la rappresentanza e la difesa dei villaggi minori.

Tali terre costituivano vasti comprensori pascolivi e boschivi nei quali era assolutamente proibito il pascolo o il legnatico senza particolare autorizzazione del Comune anche ai cittadini dei villaggi, dove i beni si trovavano o dai quali provenivano.

 Quindi le Università, i Castelli e le Ville continuavano come sempre a disporre, prima liberamente e poi con le modalità degli Statuti, dell’amministrazione e del godimento dei loro beni comuni, esclusi naturalmente quelli assegnati a1 Comune come sopra è detto. E ciò durò sino a quando il moderno ordinamento del Comune italiano sul tipo francese fece diventare i villaggi semplici frazioni dei comuni e, con la suddivisione dei beni comunali in patrimoniali e demaniali, molte frazioni persero l'amministrazione diretta dei loro beni pur rimanendo in alcune zone il godimento collettivo degli stessi. Va notato che i Comuni non sempre seppero amministrare con sano e rigido criterio queste vaste proprietà, né sempre curarono il mantenimento e tanto meno l’accrescimento della loro potenza produttiva.

"Alcuni villaggi continuarono, di fatto, a conservare la loro antica organizzazione e sono appunto le Università degli Uomini, che si amministravano e godevano il loro patrimonio collettivo, le persone giuridiche che nelle Marche e nell’Umbria vennero riconosciute in applicazione della legge del 1894 sui domini collettivi”. 

            Nei comuni del Vissano le organizzazioni di Villaggio si fusero nelle Guaite e Contrade che, di fatto, costituirono con i loro rappresentanti il Consiglio Generale del Comune di Visso; ma le Università degli Uomini dei vari Villaggi normalmente accoppiati a due a due nelle valli Ussitana e Castellana, continuarono ad avere per lungo tempo l’amministrazione del loro patrimonio collettivo perché il Comune di Visso non era altro che il rappresentante, di fronte alle autorità camerinesi e romane, di tutti i Villaggi, provvedendo alle cure amministrative ed alla difesa degli interessati, mediante il ricavo della fida di pascolo e di alcune altre contribuzioni decretate a suo favore e con i redditi di alcune proprietà.

            Dopo l’incameramento del 1801, i beni che la Camera Apostolica non riuscì a vendere furono restituiti ai possessori originali. Ma nella zona montana suddetta non furono utilizzate le disposizioni della legge del l849 e del l894 e quindi a nessuna di tale associazione degli Uomini di tale Villaggio venne riconosciuta la personalità giuridica per modo che i beni furono amministrati dal Comune di Visso, il quale, con decreto Reale del 1880 ottenne che i beni delle frazioni venissero riconosciuti come beni patrimoniali e quindi, a norma della legge comunale e provinciale, amministrati separatamente. Si costituirono così amministrazioni speciali, non per singoli villaggi ma per frazioni, comprendenti gruppi di villaggi, dimenticando completamente l'origine comunitativa dei beni e il condominio delle popolazioni degli antichi villaggi oggi elementi delle frazioni.

            La legge del 1927 è venuta a riportare all’esatta formazione storico-giuridica i beni delle frazioni attuali stabilendo che "i terreni delle frazioni saranno amministrati a profitto delle medesime, separatamente da altri, a profitto dei frazionisti, qualunque sia il numero di essi”. In altre parole la legge del 1927 contempla un altro tipo di amministrazione speciale, ben diverso da quello contemplato dalla legge comunale e provinciale, e cioè amministrazione diretta dei frazionisti per i beni di originaria appartenenza delle frazioni. Tale Amministrazione, che assorbe anche i beni provenienti da affranchi di usi civici o da soppressione di particolari associazioni agrarie esistenti nelle frazioni, è nettamente separata da quella dei beni del Comune o delle altre frazioni pur rimanendo soggetta ad una sorveglianza dell’amministrazione comunale, che ha carattere unicamente di vigilanza e non significa ingerenza nell'amministrazione stessa e tanto meno controllo amministrativo.

Con tale amministrazione speciale a favore dei frazionisti, non si è inteso che l'eventuale eccedenza di rendite deve essere annualmente divisa tra i frazionisti stessi. Essa deve essere impiegata per potenziare l'ente e il suo patrimonio o per eseguire lavori che tornino ad utilità della frazione concepita come ente.

Questa è dunque l'ultima legge che regola l'affranco degli usi civici e domandiamoci ora che cosa è stato fatto dal 1927 ad oggi nella nostra zona montana, e quali riflessi potrà avere tale legge sulla costituzione economica dei comuni della nostra montagna.

Un difetto della legge del 1927 è stato quello di non provvedere ai finanziamenti relativi alle operazioni di affranco. le cui spese dovevano essere stanziati dai comuni. E' accaduto dunque che gli istruttori demaniali che il Commissario Liquidatore degli usi civici ha nominato per ogni Comune, furono ostacolali nella loro opera dalla scarsità dei fondi destinali a coprire le loro spese. E quindi i lavori andarono a rilento, spesso sospesi per mancanza di disponibilità perché non si trovarono sempre degli istruttori pazienti che potessero anticipare e attendere per lungo tempo il regolamento delle loro spese.

Data la particolare natura tecnica delle operazioni. la maggior parte, anzi la totalità degli istruttori demaniali delle nostre zone, fu nominata fra i geometri per modo che molti di essi si trovarono di fronte a difficoltà giuridiche non facilmente sormontabili, riguardanti la natura dei diritti da affrancare; difficoltà che cercarono di risolvere con un criterio unicamente tecnico e catastale, giungendo spesso a conclusioni completamente in contrasto con la natura dei diritti stessi e con il loro svolgimento storico.

Quindi i lavori andarono a rilento. In molte zone montane la loro rilevazione è ancora parziale, in altre il progetto di affranco è stato pubblicalo per poche zone, in altre il progetto è stato completato ma alcune difficoltà cui accenneremo, lo hanno reso praticamente inefficiente per modo che è rimasta la spesa del progetto tecnico, e l'esercizio degli usi è continuato come prima della legge del 1927,

Una delle principa1i difficoltà incontrate nella zona montana della nostra provincia per l'affranco degli usi civici è la polverizzazione della proprietà ed il frammischiamento delle proprietà private con quelle comunali, per modo che il rilevamento delle singole particelle è presentato come un mosaico. Da ciò è nata l'impossibilità di costituire zone di una certa entità con le terre provenienti dall'affranco, allo scopo di poter dar loro una destinazione utile e nel tempo stesso consentire che l'industria fondamentale della montagna, l'agraria, potesse sussistere nei territori che potevano ancora lasciarsi al pascolo comune.

        Inoltre la legge relativa all'affranco ha trovato l'agricoltura montana completamente impreparata ai nuovi compiti che l'affranco stesso delle terre le avrebbe imposto, e cioè il miglioramento e l'incremento della produzione foraggiera per sostituire, all'alimentazione del bestiame con il pascolo vagante, l'alimentazione nella stalla.

        L'altra difficoltà era la situazione finanziaria dei comuni i quali venivano a perdere i cospicui redditi provenienti dalla fida estiva quale erano normalmente in possesso: redditi che non erano neppure lontanamente eguagliati dai canoni che venivano riconosciuti ai comuni per le terre affrancate dai privati.

Tutte queste condizioni di fatto ostacolarono il libero procedere delle operazioni di affranco e la tenace opposizione di alcuni comuni costrinse a studiare provvidenze pratiche perché si riuscisse ad applicare utilmente la legge, si decise così, d'accordo con il Commissariato degli Usi Civici di Bologna, di eseguire le operazioni di affranco secondo il criterio seguente: tenere distinta la zona di alto monte (compresi i prati e boschi da quella di medio e basso monte.

L’affrancazione dovrebbe procedere nel senso che si attribuiscono le terre private della prima zona in piena proprietà al comune (e alle Amministrazioni speciali per i beni di originaria appartenenza delle frazioni) in modo da formare vasti comprensori pascolivi in alto e completamente liberi, da sottoporsi a bonifica annuale, sezione per sezione, allo scopo di restituire loro la produttività e di intensificarla dove si fosse mantenuta buona. Affrancare invece a favore dei privati le terre delle altre due zone in modo da costituire nelle vicinanze dei centri abitati vasti comprensori privati suscettibili a miglioramento agrario e di coltura tecnicamente aggiornata, salvo, per queste terre, le eccezioni del caso: spazi intorno alle fonti, pascoli invernali per il bestiame. Però, nelle terre affrancate a favore di privati, comprendenti quindi eventuali proprietà comunali e frazionali, la coltura dovrebbe avvenire mediante un turno razionale d’avvicendamento di colture che non escludesse anche il pascolo, per modo da costituire anche qui dei vasti comprensori pascolivi privati, sino a quando la produzione delle foraggere non fosse tanto sviluppata da rendere libera per ciascuno anche la scelta della rotazione da applicare alle sue terre. Ciò unicamente, allo scopo di superare il periodo di transizione fra un'economia agricola arretrata ed un'economia migliore, che darebbe col tempo i suoi frutti.

Anche nei vasti comprensori pascolivi di alto monte, sino a che nelle altre due zone non fosse sviluppata 1a produzione foraggera, dovrebbe lasciarsi a disposizione della popolazione l'attuale zona dei prati da dove essa ritrae un quantitativo di fieno diretto ad integrare il raccolto dei prati di fondo valle.

Sopraggiunta la guerra, le cose rimasero sospese. e nel dopoguerra, non appena un principio di legalità cominciò a stabilirsi, si ripresero gli studi per completare le opere di affranco. Ma la mancanza di fondi fece sì che l'opera rimanesse abbandonata. Alcune importanti questioni insolute, ed i benefici che la legge si riprometteva di arrecare alle popolazioni montane, rimasero sulla carta e nella mente del legislatore, perché le terre comuni continuarono a sfruttarsi come in passato ed il bosco fece ancora più di prima le spese del pascolo e del legnatico fino a correre il rischio di completa distruzione.

Non soltanto il maggior sfruttamento del pascolo e del bosco è stato la conseguenza della mancata applicazione della disposizioni sull'affranco degli usi civici. La persuasione che essi dovessero completamente scomparire e quindi rendere impossibile l'allevamento del bestiame ovino, creò una viva opposizione per l'applicazione della legge fra le classi interessate direttamente, specie degli industriali, i quali videro nella legge la fine dei loro privilegi classificati sotto l'aspetto di diritti, e tutte le volte che si prospettò la necessità del miglioramento del patrimonio silvo-pastorale dei comuni e delle associazioni agrarie, la presenza degli usi. considerati come diritti inalienabili, rese impossibile o difficilissima l'applicazione di quelle provvidenze che avevano lo scopo di ridare al pascolo e al bosco la produttività, perduta per colpa dell'uomo, e ricostituire così gli elementi fondamentali della vita economica della montagna. Ciò riteniamo sia dovuto alla mancata conoscenza della legge sull'affranco degli usi civici, la quale, per le province ex pontificie, dà la possibilità all'industria armentaria di sopravvivere e prosperare ancora sulle terre che, inadatte alla coltura agraria, possono essere destinate al pascolo comune, cioè conservate all'attuale destinazione. Soltanto bisognerà tener maggiormente presenti i diritti degli enti proprietari, e abbandonare il concetto che il Comune montano debba concedere il pascolo a condizioni irrisorie, perché altrimenti l'industria armentaria scomparirebbe, provocando un ulteriore aggravamento della giù grave situazione dell'economia montana.

Nelle nostre montagne i problemi sono innumerevoli e di vasta portata. Cercare di risolverli tutti con l'intervento dello Stato sarebbe assurdo, per la grande mole di mezzi finanziari che necessiterebbe. Sono anni che si parla del problema montano, ma ancora non si è trovato il modo di associare l'iniziativa privata al miglioramento spicciolo delle condizioni economiche dei montanari, perché l'esercizio degli usi civici impedisce quel progresso agricolo delle terre migliori, che darebbe risultati complessivi ben superiori a quelli attuali dell'industria armentaria che la riforma agraria del piano, se non interverranno modificazioni nella sua applicazione, pone il problema delle dimensioni dell'industria armentaria stessa. il problema dell'affranco degli usi civici si pone con immediatezza impressionante, perché va di nuovo esaminato e deciso l'indirizzo dell'economia delle nostre zone montane. E ciò perché il sistema economico montano non può essere più essere considerato sotto l'aspetto del passato, cioè con la preminenza dell'allevamento ovino soltanto, dato e non concesso che oggi l'armentaria rappresenti una percentuale preminente delle risorse delle popolazioni montane e non sia invece l'agricoltura a prendere il sopravvento con l’industria del bestiame bovino ed ovino stanziale. Ed allora invece di spaventarci ed abbandonarci a riflessioni ed a previsioni sulla morte della montagna, dobbiamo pensare a sostituire altre fonti di vita all'armentaria, che rischia di scomparire per la riforma al piano, e introdurre altri animali che possano sfruttare con il pascolo le terre che un'avveduta riforma degli usi civici lascia disponibili per il pascolo e l'incremento delle coltivazioni. Quindi il problema degli usi civici ritorna d’attualità. Bisogna che ci decidiamo una buona volta a togliere tali pesi a tutte le terre suscettibili di miglioramento agrario. per evitare che esse impoveriscano ancor più. E se l'industria armentaria dovrà scomparire per la scomparsa dei pascoli invernali, non dobbiamo perdere ulteriore tempo, ma dobbiamo bruciare le tappe per essere pronti a fronteggiare la sua scomparsa con altre attività che consentano la vita al montanaro.

Quindi affranco immediato degli usi civici e ripresa delle operazioni abbandonate, da portare immediatamente a termine con procedimenti sbrigativi e con procedure di contenzioso rapide, per evitare che le questioni stiano in vita anni ed anni prima d’essere riso1te. Le spese di affranco invece che ai Comuni dovrebbero far capo allo Stato, così come allo Stato fanno carico le spese per la riforma agraria del piano, perché, a ben considerarlo, l'affranco degli usi civici, in fondo, altro non è che la riforma agraria della montagna. Infatti.mentre con la riforma agraria del piano si tende a dare terra a braccia che vogliono lavorarla e renderla produttiva, in montagna, con l'affranco degli usi civici, si rende libera la terra suscettibile di miglioramento agrario e con la quotizzazione s'introducono nuovi elementi nell'azienda agraria montana, aumentandone le possibilità produttive ed i redditi.

E anche mia profonda convinzione che dall'affranco degli usi civici, l'industria armentaria transumante, se potrà risolvere i problemi del pascolo invernale in relazione alla riforma in atto, potrà trarre molto giovamento perché nei vasti comprensori pascolivi che si formeranno nelle nostre montagne, troverà quei migliori pascoli estivi dei quali oggi è alla ricerca: inoltre la diminuita superficie a sua disposizione sarà largamente compensata dalla qualità dei pascoli. migliorati da un'avveduta opera di bonifica finalmente possibile.

Continuerà così il contributo dell'armentaria all'economia montana affrancata da un più forte allevamento stanziale e da una migliorata ed aumentata produzione agricola.

I comuni potranno ricavare dalla sistemazione deg1i usi civici canoni e redditi indubbiamente eguali se non maggiori degli attuali, perché alla fida sostituiranno canoni d’affitto dei nuovi comprensori di pascoli che, per essere liberi e migliorati, saranno maggiormente apprezzati e pagati dagli armentari e dai possessori di bestiame. 

            Infine, se per l'incomprensione dei rapporti economici e sociali fra l'economia del monte e quella del piano, la riforma agraria nelle zone dove attualmente la pecora sverna non dovesse tenere nel debito conto le necessità della transumanza, con conseguente forte diminuzione, o addirittura eliminazione, di tal genere d’attività, ed in ogni caso con revisione delle dimensioni delle attuali aziende armentarie, allora dovremo maggiormente preoccuparci di inserire nell'economia montana le specie bovine adatte per utilizzare le risorse dei pascoli come attualmente fa 1a pecora, e potenziare fino al limite possibile gli allevamenti stanziali di bestiame ovino.

Mi sia consentito aggiungere che un miglioramento effettivo dell'economia montana anche dopo affrancati gli usi civici, non sarà possibile se non si daranno alla montagna strade degne di tale nome, in sostituzione degli attuali impossibili viottoli e mulattiere che rendono faticoso, difficile e spesso pericoloso, il trasporto a fondo va11e delle scarse attuali produzioni foraggere, cerealicole e foresta1i. Senza le strade non è possibile la bonifica delle nostre montagne da1 punto di vista agricolo e produttivo, perché i problemi che con essa si pongono riguardano anche problemi di trasporto, che incidono sui risultati economici dell'azienda agraria montana. Risolto anche il problema stradale, potremo affiancare all'economia montana anche proventi di correnti turistiche che si formeranno quando saranno rese facilmente accessibili località montane veramente incantevoli e riposanti.

             Sino a poco tempo fa si è ritenuto l'uso civico come elemento prezioso per l'integrazione delle risorse delle aziende delle nostre montagne; ma ora i tempi sono cambiati e quindi riteniamo l'uso civico elemento ritardatore dell'evoluzione, dell'azienda agraria montana verso forme di attività più redditizie e capaci di fissare sul posto l'elemento uomo e quindi più idonee a combattere lo spopolamento montano in atto da molti anni.

Ho cercato di prospettare sommariamente ed obbiettivamente il problema degli usi civici nell'economia montana della nostra provincia, e i riferimenti storici si sono resi necessari per meglio intendere alcune forme di esercizio degli usi stessi. Ma evidentemente il problema non riguarda soltanto la provincia di Macerata, ma investe anche altre zone dell'Italia dove gli usi si sono conservati come da noi, forse non nella forma antica come si è verificato nel Vissano, ma in forme leggermente modificate in relazione ai luoghi e alle attività esercitate a preferenza. Il problema quindi andrebbe risolto in campo nazionale e si rendono necessari i collegamenti con le altre zone dove gli usi sussistono ancora ed impediscono l'affermazione di forme più progredite e redditizie dell'economia agricola montana.

Io mi auguro che dall’adesione di questa Sezione abbia inizio il movimento destinato a conseguire il rapido affranco degli usi civici, con la spesa relativa a carico dello Stato onde poter realizzare qualcuna delle tante promesse che da anni si fanno alle popolazioni delle nostre zone montane, che si dimostrano stanche di attendere un miglioramento della loro dura condizione.

Sulla relazione del dottor Venanzoni, il Presidente di Sezione apre la discussione.

Il Consultore Dott. Parisani osserva che la particolare mentalità del montanaro ed il suo attaccamento alle forme tradizionali, per quanto riguarda la sua attività ed il suo modo di vivere, possono rappresentare un ostacolo al progettato affranco. A tale proposito cita l'esempio del Comune di Castelsantangelo, dove il progetto di affranco fu completato in tutti i suoi dettagli, ma non ebbe applicazione pratica, perché le popolazioni preferirono continuare nel godimento del diritto di pascolo secondo le forme tradizionali, giudicate all'unanimità più rispondenti e più utili alle necessità della vita locale: e cita pure esempi di tentativi di bonifica non generalizzatisi appunto per tale particolare mentalità delle popolazioni.

Il Consultore comm. Benedetti si preoccupa della particolare situazione che verrebbe a crearsi nell'economia dei privati e dei Comuni montani, per la fatale contrazione dell'industria armentaria stanziale e transumante, conseguenza dell'affranco del1'uso civico di pascolo, con conseguente decadenza economica e demografica della montagna, privata di una delle sue principa1i risorse di vita.

Il Dott. Venanzoni replica nel modo seguente:

            "Indubbiamente la mentalità del montanaro ed il suo attaccamento alla tradizione hanno la loro importanza nel successo di una riforma così radica1e come quella dell'affranco degli usi civici, ma da qualche tempo a questa parte noi abbiamo assistito ad un cambiamento sensibilissimo di tali stati d'animo, perché oggi l'interesse ed il desiderio di vivere meglio ha modificato, specie nei giovani, la vecchia mentalità ed ha già trasformato molte tradizioni. I bisogni e le aspirazioni del montanaro non sono più quelli di una volta ed i contatti da lui avuti, specie durante il periodo bellico e dopo, con persone e zone più progredite, gli hanno fatto comprendere meglio la necessità di una trasformazione delle forme d’attività tradizionali per essere in condizioni di ricavare dagli stessi mezzi (pascolo, seminativo, bosco e bestiame) redditi maggiori a compenso, sia pur limitato, del suo duro lavoro.

            Il montanaro ha già notato il maggior reddito che ricava dai terreni liberi di fondo valle, coltivati con sistemi diversi da quelli tradizionali, che per la presenza dell'uso civico deve applicare ancora sui terreni di montagna soggetti al pascolo, e quindi è favorevole all'affranco perché sa che esso gli permetterà di ricavare dalle terre del monte un reddito indubbiamente maggiore dell'attuale a parità di lavoro. Con il diffondersi dell'agricoltura montana, che è indubbiamente una forma più evoluta della pastorizia, si e determinalo il maggior bisogno di terre da sottoporre a coltura sottraendole all'uso civico. E le recenti perturbazioni sociali del Comune di Monte Cavallo hanno come origine il desiderio di disporre di nuove terre da porre a coltivazione per un incremento di reddito delle popolazioni proprietarie.

Quindi non riteniamo, allo stato delle cose, che la mentalità montanara e la tradizione possano essere d’ostacolo all'affranco dell'uso di pascolo, specialmente se esso s'inizierà dalle terre private suscettibili d’incremento colturale.Per quanto riguarda i riflessi dell'affranco dell'uso civico di pascolo sull'economia dei comuni, dei privati e dell'industria armentaria, noi abbiamo elementi per affermare che l'uso civico non e stato mai l'elemento determinante per l'incremento o il mantenimento dell'industria armentaria, sia essa stanziale o transumante.

Difatti nei comini del Vissano il bestiame ovino stanziale è oggi circa un settimo di quello transumante. Un decennio addietro la proporzione era inferiore, perché in questi ultimi anni il perfezionamento dei sistemi di coltivazione ha aumentato la produzione foraggera e quindi ha dato modo di alimentare, durante l'inverno, un maggior numero di ovini che per il passato. Eppure l'uso civico esisteva ieri come oggi e quindi possiamo ritenere dimostrato, anche con le statistiche, che l'elemento fondamentale per l'armentaria stanziale è la produzione foraggera e non l'uso civico, perché l'uso civico non può assicurare l'alimentazione del bestiame nei lunghi mesi invernali. C'è quindi da presumere che un ulteriore incremento della produzione foraggera locale potrà determinare un incremento numerico del bestiame stanziale, sia esso bovino che ovino. Ed uno degli scopi dell'affranco è precisamente l'aumento della produzione agricola, e quindi anche delle foraggere, nelle località suscettibili di tale incremento.

Il bestiame transumante, sempre nel Vissano, è invece in costante diminuzione, non per la scomparsa o la riduzione dell'uso civico, ma per la scomparsa dei pascoli al piano o il loro elevatissimo costo che rende negativo il risultato economico dell'industria transumante; e ciò perché l'uso civico, come vedremo. facilita il risultato economico dell'impresa stessa, ma unico elemento determinante per la sua esistenza è invece la possibilità di pascoli invernali al piano a buone condizioni.

             Noi possiamo anche spiegarci come l'industria transumante abbia interesse alla conservazione dell'uso civico di pascolo, perché ci è noto come, sulle terre libere, cioè non soggette all'uso civico, il prezzo a capo ovino per i 4 mesi di pascolo estivo è almeno da 4 a 5 volte superiore a quello che si paga sulle terre soggette all'uso. Di qui l'utile indiretto (minore spesa) dei grossi possessori d’armenti ed il loro spiegabile e comprensibile interesse a che l'uso civico stesso non sia abolito, perché in tal caso il pascolo sarebbe sempre disponibile (lo abbiamo visto nell'esaminare la legge del 1927) ma a condizioni economiche più gravose e quindi con maggiore incidenza sui risultati economici della gestione.

            Per quanto riguarda poi le finanze comunali, le cifre che si sentono citare quale contributo dell'armentaria all'economia comunale locale si riferiscono sempre agli incassi lordi, mentre vengono trascurate le spese che i comuni debbono sostenere per il mantenimento di tale importante cespite patrimoniale. E non è raro il caso che i proventi del pascolo non coprano le imposte che il Comune è costretto a pagare per la proprietà che mette a disposizione dei cittadini per l'esercizio degli usi civici; quindi senza la minima remunerazione per il capitale che il pascolo o il bosco rappresentano.

            E' anche inesatto dire, come spesso si sente ripetere, che l'industria armentaria rappresenta l'unica industria possibile per le nostre montagne e l'unico cespite di vita per le popolazioni.

In questi ultimi anni, a seguito della propaganda entusiastica e tenace dei funzionari dell'Ispettorato Agrario, a fianco dell'armentaria e forse già con diritti di preminenza, è sorta e si è affermata nelle nostre montagne l'agricoltura, che è in via di continuo miglioramento e sviluppo. Essa interessa già un numero di famiglie maggiore di quelle interessate all'armentaria e le lega stabilmente al suolo, costituendo cosi l'unica efficace reazione allo spopolamento della montagna.Sono molti i pastori che, di fronte agli scarsi risultati della piccola industria, ridiventano agricoltori e con i nuovi e più redditizi sistemi di coltura si legano maggiormente alla terra.

Se a questa agricoltura montana, oggi ancora inceppata ed ostacolata dall'esistenza dell'uso civico, noi potremo assicurare mediante l'affranco, un incremento di reddito a parità di lavoro, noi avremo dato al montanaro un altro elemento di vita ed un altro motivo per rimanere nelle zone dove si sente tanto attaccato.

Del resto l'affranco del diritto d’uso civico non vuol dire la fine delle zone destinate al pascolo, e noi lo abbiamo ampiamente dimostrato, perché con esso non verranno a mancare i vasti comprensori pascolivi dove pecore e bovini potranno trovare l'alimento necessario, sia pure a condizioni più onerose per l'industria e più vantaggiose per i Comuni proprietari. Ma sarebbe indubbiamente un grave errore tecnico, sociale ed economico limitare la produzione delle terre private atte alla coltivazione, per mantenere in essere l'uso di pascolo che il più delle volte rappresenta un vantaggio particolare anziché sociale.

Se poi, come si sente continuamente ripetere, l'industria armentaria transumante è destinata a rivedere le proprie dimensioni in relazione alla nuova distribuzione delle terre al piano, è evidente che l'interesse delle popolazioni montane sta appunto nel cercare di utilizzare a favore delle popolazioni stesse quelle zone di terreno che la contrazione dell'armentaria renderà disponibili, o con il potenziamento dell'armentaria 6tanziale attraverso l'aumento della produzione foraggera, o con l'introduzione di altre specie di bestiame capaci di utilizzare i pascoli che, con l'affranco, si renderanno liberi in sostituzione dell’armentaria transumante.

 In conclusione, i tempi sono cambiati e l'attuale mentalità del montanaro ed il suo attaccamento attuale alla tradizione non sono elementi tali da ostacolare l'affranco degli Usi civici. La preoccupazione del divenire delle economie private e comunali non regge di fronte agli innegabili vantaggi dell'affranco degli usi civici, che si ripercuoteranno su tutte le popolazioni della nostra zona montana. Per quanto riguarda poi l'industria del bestiame, sia esso ovino che bovino, non sarà l'affranco quello che la priverà dei pascoli necessari: anzi l'affranco stesso metterà a disposizione pascoli più abbondanti e migliori di quelli attuali, per modo che il maggior costo del pascolo sarà largamente compensato dal maggiore beneficio che ne ritrarrà il bestiame. La varietà del terreno, la sua estensione, le sue diverse attitudini faranno sì che nelle nostre zone montane ci sia posto tanto per l'agricoltura come per l'allevamento del bestiame, anche quando gli usi civici saranno affrancati. Pertanto bisogna cercare con fiducia, di liberare le terre migliori dai pesi che attualmente le gravano.

La relazione del Dott. Venanzoni viene quindi, approvata all’unanimità col seguente ordine del giorno: 

LA SEZIONE AGRICOLA E FORESTALE DELLA CONSULTA TECNICO-ECONOMICA 

            - sentita l'ampia relazione del Dott. Felice Venanzoni sugli Usi civici nei riguardi dell'economia montana, considerata la necessità di dare una so1uzione pratica e inderogabile al problema dell'economia montana della nostra provincia e di altre, aventi caratteristiche affini: necessità resa ancora più impellente dalle ripercussioni che avrà, sul pascolo invernale, la riforma agraria del piano;

            - concordando pienamente nel ritenere che gli usi civici, sorti per il vantaggio dell’economia montana, costituiscono oggi il primo e più grave impedimento al miglioramento tecnico ed economico della montagna stessa;

- constatato, dati i numerosi tentativi avvenuti in passato, che i Comuni non sono in grado di sostenere il grave onere dell'affranco degli usi civici;

 - visto il voto della Sezione stessa, in data 27-11-50, con cui si rivolge vivo appello al Ministero dell'Agricoltura per sottoporre, con ogni sollecitudine, all'esame del Parlamento lo "Schema di legge per la difesa e la valorizzazione della montagna" già da tempo predisposto;

- visto, altresì, il voto formulato il 3-11-1950 dalla Camera di Commercio e dai rappresentanti delle categorie interessate, con cui chiedeva che una parte dei fondi destinati alla riforma fondiaria nelle zone latifondistiche della Campagna romana, ai cui pascoli è legata l'economia dei nostri monti, fosse destinata al ripristino a fertilità di circa Ha 5000 di terreno montano della nostra provincia, quasi completamente abbandonati;

                                                                        decide

 

a)      di riconoscere la necessità inderogabile di affrancare gli usi civici;

b)      di avanzare richiesta presso il Governo per un adeguato stanziamento dei fondi necessari all'affranco, riallacciandosi ai due ultimi voti riportati in narrativa;

c)      di inviare copia della relazione in oggetto al competente Ministero, nonché agli organi amministrativi e tecnici della nostra Provincia e di quelle con caratteristiche affini, rivolgendo a queste ultime viva preghiera di adesione ed appoggio.

 

 

    Macerata, 16 luglio 1951

 

IL SEGRETARIO GENERALE   Dott. Luigi Minnini                   

IL PRESIDENTE DI SEZIONE  Dott.AngeloSagrini

 

  

Il voto formulato il 16-7-51 dalla Sezione Agricola e Forestale della Consulta Tecnico-Economica, è stato approvato dalla Giunta Camerale il 27/7/51 con provvedimento 381/367.

 

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