Gazzetta del Sud
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NINE INCH NAILS
ROCK "LUDDISTA"

di Mario Primerano

Luddista o maltusiano? Perfido esegeta dei più lugubri incubi metropolitani o fiero paladino del solipsistico annullamento nella ribollente disperazione? Trent Reznor coltiva i fiori del male e non li lascia appassire mai. Un marchio, Nine Inch Nails, impresso col fuoco nei sacri libri del rock americano. Niente a che vedere con l’algida arroganza del techno-pop, sublime celebrazione del nulla in grado soltanto di assecondare le polluzioni di ragazzini brufolosi.
Il punto di partenza è Mercer in Pennsylvania, ma la connotazione geografica è irrilevante almeno quanto la leggenda che la provincia americana possieda prodigiose virtù maieutiche, capaci di far liberare nell’atmosfera l’insano germe della genialità.
Trent Reznor a cinque anni comincia a subire l’adulazione dei tasti del pianoforte: avverte inconsciamente la terapeutica imponenza delle dissonanze, l’altruistica propensione di diesis e bemolle a sopperire alla limitata autonomia degli affetti. Così persino la separazione dei genitori riesce a eludere la bolla vischiosa dell’autocommiserazione fortificando, semmai, il doloroso e traumatico senso di appartenenza al derelitto genere umano.
Ci sono tracce del David Bowie di Low e dei Pink Floyd di The Wall nel nuovo disco dei Nine Inch Nails, The Fragile. Un lustro di silenzio, tanto è passato dal precedente The Downward Spiral, per evitare la patetica contemplazione del fiero pasto dei media. Non di sociologia spicciola evocata dal piccolo schermo è in cerca Trent Reznor e insopportabile gli è dovuta sembrare la morbosa attenzione manifestatagli negli anni scorsi dal devastante talk show di David Letterman.
Perdersi nella claustrofobica circonvallazione della creatività può inasprire il conflitto latente col concetto di mobilità, ma non giustifica generiche accuse di misoginia soprattutto quando si è reduci da un flirt tutt’altro che platonico con la cantante-attrice Courtney Love, avvenente vedova dell’indimenticabile Kurt Cobain. E poi l’etichetta di rocker maledetto rischia di divenire offensiva se è legata solo alla proficua collaborazione col satanico Marylin Manson o all’utilizzo come studio di registrazione della villa in cui fu assassinata l’attrice Sharon Tate.
L’obiettivo non è quello di esibirsi dietro un sipario di sangue con ematica virulenza o di incanalare in un approdo grand-guignolesco la perversa navigazione dell’inquietudine. Per dare consistenza sonora al disagio esistenziale basta inchiodare al muro dell’apparenza la fatua vanità della dance music, concedere gli arresti domiciliari al pluri-pregiudicato heavy metal e far rinsavire gli adepti ruffiani del pop melodico.
The Fragile ha l’ostica presunzione di smuovere le acque stagnanti del rock di fine millennio e quando esplode il riff ossessivo di We’re In This Together l’amore deflagra e sembra che il mondo si stia spezzando in due. Il desiderio di assoluto e di redenzione si materializza in The Day The World Went Away: c’è un prezzo dolcissimo da pagare ma la ricompensa è un luogo incantato che divora il dolore e la paura, in cui dimorare chiudendo gli occhi con l’universo.
Trent Reznor rivaluta la chitarra peristaltica del King Crimson Adrian Belew mentre riaffiorano nella memoria le immagini cruente e oniriche di Natural Born Killers: l’omicidio come la musica diventa un destino che è impossibile scrollarsi di dosso.



Data ultimo aggiornamento: 22/04/00

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