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Intervista a: Nine Inch Nails

Nine Inch Nails

A volte ritornano. E’ il caso di Trent Reznor, che oggi, dopo cinque anni di silenzio rompe gli indugi e si ripresenta in scena con un album doppio, “The fragile”. Un disco stupendo, che ancora una volta conferma la vena illuminata di questo artista americano, di questo solitario del rock industriale che, nonostante sia stato tacciato di plagio nei confronti dei padri putativi del genere (Skinny Puppy, Ministry), ha saputo rendere visibile al mondo un genere che altrimenti sarebbe rimasto a mordersi la coda nell’angusta scena musicale di Chicago e che invece, proprio grazie a Nine Inch Nails e alla sua casa discografica (la Nothing) ha portato “overground” gruppi come Filter o icone del nuovo rock come Marylin Manson. Lo abbiamo intervistato in occasione del suo tour europeo per capire meglio come è nato questo fragile e intensissimo capolavoro rock dalle tinte industrial e progressive.

L’altro giorno stavo guardando il video di “We’re in this together now”. E’ stato come ricevere una scarica d’adrenalina. Come trovarsi di fronte a una scarna visualizzazione della paranoia, di un senso di claustrofobia che spesso aleggia anche nel resto dei brani di “The fragile”…
“Nel video, chiaramente, ho cercato di dare uno spessore “visuale” al pezzo. Ho cercato di trasporre in immagini quello che per me ha voluto dire “We’re in this together”. Tutto questo ha significato creare qualcosa il più possibile opprimente, il più possibile fastidioso. E’ così che mi sentivo quando ho lavorato a questo pezzo, l’ultimo che ho scritto per “The Fragile” in ordine cronologico: infastidito e oppresso. Non solo. Guardandomi indietro vedevo di fronte a me un disco che mi sembrava ovvio, troppo facile da comprendere. “We’re in this together” poteva essere il brano che confondeva nuovamente le acque. La cosa curiosa è che quando lo feci sentire a quelli che hanno collaborato a “The fragile”, tutti dissero: wow, è una canzone positiva. E’ questo ciò che mi è piaciuto subito di “We’re in this together”. Sembra qualcosa che non è. Sembra un pezzo luminoso e invece vuole essere il contrario. Fastidioso, opprimente. Un pezzo che cerca di cogliere un mondo che sta per collassare. Anche il modo in cui l’ho mixato, in cui ho lavorato sui suoni è stato un tentativo di portare alle estreme conseguenze il lavoro di ricerca sui suoni che c’è in tutti i miei brani”.

Come consideri questo album rispetto a “The downward spiral”?
“Credo che questo album sia molto “visivo” e allo stesso tempo “demodè”. Visivo perché evoca immagini, oltre che situazioni e sentimenti. Demodè perché è un disco che dura troppo per essere ascoltato oggi, da un fan dei Nine Inch Nails così come da una persona qualunque che non sa nulla di me e di quello che ho fatto in passato. Ma a me tutto questo non importa. Quello che ho sempre cercato di fare è creare qualcosa che per me abbia un senso”.

Un altro aspetto che salta subito all’occhio e che differenzia questo disco dal precedente è il ritmo, quasi sempre lento, attorno a cui si evolvono i pezzi di “The fragile”….
“Se avessi dovuto pensare al perché stavo usando ritmi più lenti e suoni meno rumorosi mentre registravo il disco avrei potuto spiegarmelo dicendo semplicemente: mi sento più a mio agio in questo tipo di suoni meno rumorosi, in questo andamento lento del pezzo. Oggi però, ripensandoci, capisco chiaramente il perché. In “The downward spiral” tutto era più confuso. Ero molto più incazzato. Ogni pezzo doveva essere un pugno nello stomaco. Volevo che mi si prestasse attenzione. Volevo creare uno shock alla gente che mi ascoltava. L’unico mezzo giusto per farlo mi sembrava la violenza. Ora tutto questo mi sembra un po’ troppo semplice, restrittivo. Ed è stato quindi naturale cercare nuovi moduli espressivi. Così uno degli elementi più naturali che si immesso nella mia musica sono stati i ritmi downtempo, le battute lente”.

Come hai lavorato ai nuovi brani?
“Non ci sono mai regole prestabilite. A volte lavoro al piano. Altre volte costruisco i pezzi attorno a un sample o a un suono che ho elaborato”.

Sei stato lontano per molto tempo dalla scena musicale. In questi anni c’è qualcosa che ti ha colpito in modo particolare?
“Mi è piaciuto tantissimo, in questi anni, il lavoro che hanno fatto gente come Atari Teenage Riot o Aphex Twin. Posso dire che sono artisti cruciali, che hanno in qualche modo influenzato la realizzazione di “The fragile”. Allo stesso tempo però credo che una volta iniziato a lavorare a questo album, da solo, nella mia stanza, intorno a me c’era soltanto il mio piano. Non è entrata molta musica in quella stanza. Non c’era spazio sufficiente per altre cose al di fuori dei suoni e delle melodie su cui stavo lavorando. Il lavoro di Aphex Twin e Atari era con me e sicuramente oggi, con un po’ più di distacco, riesco a vedere quanto siano stati importanti per “The fragile”.

Ho saputo che a Novembre sarai in tour anche in Italia. Pensi che un disco elaborato e pensato nei minimi particolari, soprattutto nella ricerca dei suoni, possa essere portato con successo anche su un palco rock?
“Quando registro non penso mai a come potrebbero essere i pezzi dal vivo. uso lo studio come un vero e proprio strumento che, ovviamente, non potrò portarmi in giro per il mondo. Ma tutto questo non mi interessa. Non sono questi i problemi che mi pongo mentre registro un disco. Ciò che invece mi preoccupa ora, a poche settimane dall’inizio del tour è il fatto che questo disco è molto più musicale di “The downward spiral”. Ci sono venti brani cantati. Questo vuol dire che dovrò prestare meno attenzione agli strumenti, che dovrò probabilmente ampliare il mio raggio di collaboratori che hanno partecipato a questo album. Ma quello che mi preoccupa di più è riuscire a portare sul palco l’atmosfera di The Fragile. Spero di riuscirci, di avere abbastanza tempo per farlo”.

(31 Ott 99)
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Data ultimo aggiornamento: 12/04/00

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